LE FABBRICHE DELLA MEMORIA
Archivi di ricordi, serbatoi di emozioni collettive. Soprattutto, testimoni di produzioni di eccellenza, che restituiscono l’orgoglio del made in Italy e indicano al Paese una direzione per il futuro
Custodiscono la storia del Paese, raccontano l’eccellenza del made in Italy, ma rappresentano anche la memoria del domani, la base da cui ricavare stimoli e intuizioni verso nuovi traguardi. Le collezioni aziendali non sono solo archivi delle glorie del passato. Come spiega il recente libro di Paola Castellani, I musei d’impresa: un ponte sul futuro (Giappichelli editore, 2020, 224 pagine, 28 €), queste raccolte comunicano “che l’azienda viene da lontano, è credibile, impegnata a perdurare nel tempo, solida, perché c’era, c’è e ci sarà. I suoi prodotti ‘respirano e hanno un’anima’, e mettono inoltre a disposizione la cultura di chi se ne intende da sempre. Per tutto questo il museo d’impresa è importante per le aziende che guardano al futuro”.
“Il turismo industriale è un fenomeno relativamente recente”, dichiara a Dove Jacopo Ibello, cofondatore e presidente dell’associazione Save Industrial Heritage, e autore di Guida al turismo industriale (Morellini Editore, 2020, 288 pagine, 17,90 €), che presenta i più importanti siti di archeologia industriale, i musei e gli archivi d’impresa d’Italia. “Il concetto di archeologia industriale nasce intorno alla metà del XX secolo, quando in Inghilterra si incominciò a studiare come utilizzare i resti della prima rivoluzione industriale che risaliva a circa 200 anni prima”. In Italia il turismo industriale è ancora più recente, perché è solo con la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale che il Paese si trasformò in un Paese industriale. Tra il 1955 e il 1963 si concentrarono quei fenomeni che nelle altre nazioni sviluppate erano avvenuti nel corso dei precedenti 150 anni. “Fu uno stravolgimento, anche culturale e ambientale, e segnò la nascita di un’Italia che non si segnalava solo per il suo passato storico e artistico. Protagoniste di questa rivoluzione furono le grandi aziende private e statali, ma anche un fitto tessuto di piccole e medie imprese che avrebbero preso le redini della manifattura degli anni Settanta”. Le raccolte aziendali raccontano storie, rappresentano un legame importante con i territori, permettono di studiare l’evoluzione della società e dei costumi. Per promuovere il patrimonio industriale e culturale custodito nei musei e negli archivi delle aziende italiane, Museimpresa, l’associazione che le raduna (cento iscritti, info su museimpresa.com), ha dato il via al progetto Nel tempo di una storia: il direttore creativo e fotografo Simone Bramante, in arte Brahmino, sul profilo Instagram del suo blog What Italy Is, attraverso oggetti, documenti, immagini, fotografie, video e testimonianze, svelerà il meglio del made in Italy. Di seguito, ecco alcuni itinerari fra i musei d’impresa (sul nostro sito, viaggi.corriere.it, troverete tante altre storie di successo): in questa fase di restrizioni per la pandemia, molti possono essere visitati online.
Dalla Motor Valley alle miniere
Ferrari, Ducati, Lamborghini, Maserati... in Emilia Romagna corre la passione: qui sono nati alcuni dei marchi automobilistici e motociclistici più importanti del mondo e molte aziende hanno un proprio spazio museale. A Maranello, accanto agli stabilimenti dove nascono i bolidi del cavallino rampante, si visita il museo Ferrari: nel cosiddetto anfiteatro sono esposte le monoposto che gareggiano in Formula Uno, e in un’altra area espositiva alcuni dei modelli più iconici della casa automobilistica modenese.
Il patron Enzo Ferrari fu una volta protagonista di un litigio con Ferruccio Lamborghini. Quest’ultimo, imprenditore metalmeccanico, aveva cre
ato dal nulla un colosso industriale che produceva caldaie e trattori. L’alterco con il boss di Maranello lo indusse a sfidarlo: Lamborghini sarebbe stato in grado di creare una macchina più veloce delle Ferrari. Nacquero così le auto della casa del Toro. La visita al Mudetec (Museo delle Tecnologie) Lamborghini ,a Sant’Agata Bolognese, è un’esperienza tra sapiente artigianalità e tecnologia. Tra telai sofisticati e carrozzerie in fibra di carbonio, si respira la spinta visionaria che ha portato alla nascita di vetture entrate nel mito, come la Miura e la Countach. E si possono ammirare eccellenze tecnologiche come la concept ibrida Asterion, la few-off (in tiratura limitata) Centenario, la Huracán Performante e la Aventador SVJ. Scorrazzare a bordo dei modelli è impossibile, ma ci si può cimentare con un simulatore di guida.
Non solo quattro ruote. Nella zona ovest di Bologna, a Borgo Panigale ,il museo Ducati racconta la storia di un successo che iniziò, nel dopoguerra, con il Cucciolo, prototipo di motore ausiliario da montare su una bicicletta, e prosegue oggi con moto ad altissime prestazioni. Dallo scorso ottobre l’azienda promuove la Museo Ducati Online Journey, una visita guidata online di circa 45 minuti nelle sale della collezione.
La rinascita postbellica del Paese accomuna il marchio felsineo a un altro storico nome, di casa nella cittadina pisana di Pontedera. Inaugurato nel marzo del 2000 nei locali dell’ex officina attrezzeria e rinnovato tre anni fa, il museo Piaggio racconta l’epopea di un’azienda che, prima di contribuire al boom dell’Italia con la Vespa e l’Ape, era un colosso nazionale nel settore
metalmeccanico e ferroviario: treni, aerei, navi precedettero lo sviluppo degli scooter. Fanno parte della collezione anche esemplari degli altri marchi del gruppo: Aprilia, Gilera e Moto Guzzi (per quest’ultima sono in corso le celebrazioni del centenario, tutte le info su motoguzzi.com).
La mobilità in auto e moto ha implicato lo sviluppo della rete distributiva di carburanti. A Tradate, in provincia di Varese, esiste il museo Fisogni delle stazioni di servizio. L’idea è venuta a Guido Fisogni, che per quarant’anni ha costruito stazioni di rifornimento in tutto il mondo. Da un punto di vista del design la pompa di benzina nella sua evoluzione ha tanto da raccontare. Ricorda Fisogni: “Ho iniziato perché un giorno, andando a prendere la sabbia in una cava, ho visto un rottame: una pompa di benzina dismessa. Allora ogni ditta ne aveva una, spesso griffata con il logo aziendale. Anziché buttarla via, l’ho messa in un magazzino. Prima del ‘61 ho raccolto solo pompe dismesse. Erano quasi tutte manuali, a manovella. Ora ne ho circa 200, anche nuove, elettroniche. Un mio meccanico per quarant’anni le ha ristrutturate, rimettendole a posto. La più preziosa? Quella con la corona, il distributore della casa reale britannica. L’ho recuperato a Buckingham Palace. Come sono riuscito a farlo uscire da lì? In Inghilterra funziona come da noi, con una bella mancia riesci a fare tutto...”
La crescita industriale del Paese è avvenuta anche grazie all’attività estrattiva. In Sardegna, il più grande complesso minerario italiano è una testimonianza importante e un’attrazione turistica. Un vasto sistema di pozzi, gallerie, cave, dighe e villaggi operai che inizia nella piana del Campidano e finisce alle dune di Piscinas, in riva al mare. Nella miniera di Montevecchio, oggi circondata da 1.200 ettari di boschi di lecci e macchia mediterranea, si è consumata una Dinasty sarda di fine Ottocento: quella dei Sanna. Per intuirne i fasti basta visitare il palazzo della direzione, ultimato nel 1877 sul panoramico colle di Gennas. Una vera e propria dimora principesca di 22 stanze, restaurata tra il 2001 e il 2005 dal ministero per i beni culturali. Le sale sono affrescate con trompe l’oeil. I lampadari, bagnati in oro zecchino, sono in vetro di Murano. Abbondano gli specchi imperiali e non manca un grande pianoforte a coda. Le immense cucine sono ancora dotate di portavivande e le tavole sono imbandite. Uno sfarzo che lascia intuire quale tesoro avesse scoperto l’unico privato ad avere in concessione un intero giacimento: un filone di blenda e galena lungo 12 chilometri, il più importante d’Europa. Conscio della sua potenza, Giovan
Gli oggetti esposti creano un legame molto forte fra il produttore e il consumatore
ni Antonio Sanna, il padre-padrone delle miniere, si considerava una sorta di imperatore: ogni volta che raggiungeva Montevecchio lo faceva a cavallo, preceduto da un colpo di cannone che ne annunciava l’arrivo. Nel 1865 nelle sua miniera lavoravano 1.100 addetti: era la più grande del Regno. A far da guida ai visitatori ci sono ex minatori e i loro racconti sono emozionanti.
Gli archivi del bello
“Ricerca disinteressata di verità e bellezza”: questa era l’idea di cultura per Adriano Olivetti (1901-1960), imprenditore visionario, che voleva fare della diffusione del sapere uno strumento di crescita personale e di emancipazione sociale anche per le categorie più povere. Anche il lavoro, e le fabbriche, dovevano essere uno strumento di miglioramento della qualità della vita. La città di Ivrea fu il luogo dell’utopia di Olivetti, che ha legato il suo nome alle macchine per scrivere e da ufficio e ai primi calcolatori. Una storia affascinante che può essere approfondita nella visita al Laboratorio-Museo Tecnologic@mente e all’Archivio storico Olivetti della città piemontese. Il primo si concentra sulla storia dello scrivere e del calcolo; il secondo, conservare un patrimonio immenso sulla società: documenti, lettere, pubblicazioni, manifesti, disegni, fotografie, filmati e prodotti. Sempre in Piemonte, in una ex filanda adiacente il complesso dell’abbazia benedettina di Stura, alle porte di Torino, sorge Officina della scrittura, un museo dedicato al segno in tutte le sue declinazioni, dalle pitture rupestri alle forme della comunicazione contemporanea, e agli strumenti, dalle macchine per scrivere alle stilografiche. A volerlo è stato Cesare Verona, presidente di Aurora, l’unica azienda italiana che ha mantenuto nel Paese la manifattura per costruire le penne.
Un viaggio nel gusto italiano
Molte aziende legate all’industria alimentare hanno un proprio museo. Nomi come Lavazza, Perugina, Martini, Campari, Branca, scolpiti nella memoria collettiva del Paese, sono familiari alla memoria alla generazione dei baby boomer, i nati fra il secondo dopoguerra e gli anni Sessanta, cresciuti a pane e Carosello .A Torino, nel quartiere Aurora, il museo Lavazza propone un viaggio sensoriale nel mondo del caffè che è anche una narrazione del costume italiano; la visita in questo periodo è possibile con una fruizione multimediale attraverso la pagina Instagram @lavazzamuseo, dove sono disponibili le prime audioguide museali per Instagram stories, con la voce dello speaker radiotelevisivo Francesco Russo.
Esperienze multimediali anche per Galleria Campari, alle porte di Milano. L’azienda ha sempre fatto della comunicazione un punto di forza, coinvolgendo artisti (Marcello Dudovich, Fortunato Depero, Guido Crepax, Bruno Munari, Ugo Nespolo) e registi (Fellini, Sorrentino, Garrone): gli spazi del museo sono molto scenografici. Ora propone visite virtuali in 3D delle collezioni museali, che riproducono esattamente gli ambienti e i contenuti della galleria, e un format online, “arte e mixologia”: un esperto d’arte e un bartender approfondiscono la storia delle opere pubblicitarie e la preparazione degli aperitivi.
Le collezioni aziendali non sono solo i luoghi dell’amarcord: qui si fa ricerca e innovazione
Un patrimonio di stile
Alla rete dei musei d’impresa appartengono molti marchi del design e della moda. Come la Fondazione Fila Museum di Biella. L’istituzione, che compie dieci anni, ha lo scopo di “recuperare in un unico contenitore il patrimonio aziendale, rendere fruibile il suo dna puramente italiano e radicare la biellesità del marchio” spiega Annalisa Zanni, responsabile della fondazione. Oggi l’archivio è aperto ai designer dell’azienda, ma “tra non molto sarà consultabile anche agli esterni. È uno spaccato dell’evoluzione dello sportwear italiano e internazionale e sottolinea le tappe di Fila, dal 1940 (con l’intimo) agli anni della svolta, attorno al 1973, quando il maglificio si trasforma in FilaSport e, grazie a una macchina all’avanguardia, il tubolare diventa una maglietta performante”. La prima linea per il tennis “buca lo schermo”: la nuova tv a colori fa conoscere a tutti gli inserti rossi e verdi che si stagliano sull’iconico bianco avorio. E nel 1976 arriva il successo della giacca tela vela (creata con tela vela spalmata): oltre quattro milioni di esemplari. I pezzi icona? La polo Panatta del 1973 e quella disegnata per Bjorg del 1974, senza dimenticare, tra le dieci sale del percorso, la stanza dello sci che custodisce la giacca indossata da Ingemar Stenmark nella Coppa del mondo di Garmisch del 1978.
Entrare nel mondo della maison Ferragamo, esplorare la visione del fondatore, Salvatore, e la sua eredità artistica: è un viaggio, tra passione e genialità, che si compie anche online, per accedere all’archivio di documenti, brevetti, prototipi e prodotti: quasi 15 mila i modelli di calzature, dagli anni Venti a oggi. In attesa di tornare a visitare il museo Ferragamo, nel palazzo Spini Feroni, a Firenze. Spiega Stefania Ricci, direttrice del museo e della Fondazione Ferragamo: “Uno spazio dinamico, che non racconta solo la maison, ma è terreno cui attingere per un dialogo ininterrotto con il contemporaneo”. Ne sono una testimonianza le tantissime mostre allestite al museo, che sono anche una riflessione sulle tematiche più attuali, la tutela dell’ambiente, i flussi migratori, l’Italia come linfa vitale per la creazione. All’archivio attinge la mostra aperta dal 25 marzo, che ruota attorno alla seta e al foulard come accessorio di eleganza.
Per costruire il futuro serve consapevolezza del passato: per questo le compagnie raccontano la propria storia