ART ATTACK Biennale al femminile a Rabat
A RABAT S’INAUGURA LA PRIMA BIENNALE TUTTA AL FEMMINILE: 63 ARTISTE DA 27 PAESI ILLUSTRANO, ATTRAVERSO LE LORO OPERE, UN MONDO NUOVO, FATTO DI SOGNI, RIVENDICAZIONI E TRAGUARDI. LA LORO TESTIMONIANZA IN ESCLUSIVA PER ELLE
S’intitola Un instant avant le monde (Un istante prima del mondo) la prima edizione della Biennale de Rabat (biennalerabat.com), la kermesse d’arte contemporanea – tutta al femminile – curata dall’algerino Abdelkader Damani, inaugurata nella capitale del Marocco lo scorso 24 settembre e aperta fino al 18 dicembre. Attraverso varie discipline, le opere in mostra nelle principali location culturali della città raccontano un “mondo nuovo”, a partire dagli immaginari, dai sogni e dalle rivendicazioni di sessantatré artiste di ventisette nazionalità differenti. Noi di Elle siamo stati a Rabat e ne abbiamo selezionate sette: ecco i loro progetti.
Ghizlane Agzenai, 30 anni, è nata in Marocco. Vive a lavora a Casablanca.
«L’opera che ho creato per la Biennale si trova al Parc Hassan II e si chiama Totem 88. È un grande cubo che ospita su due lati il la
voro dello street artist Ed Oner e sugli altri due il mio. Come per gli altri “totem” (così Ghizlane definisce i suoi murales, ndr) mi sono divertita a giocare con i colori, la simmetria e l’illusione ottica per creare un universo dove tutto è possibile, che inviti le persone a porsi delle domande. Credo molto nell’empowerment femminile e la mia storia di street artist autodidatta è la prova che, senza paura, i sogni si possono realizzare. Sono così come mi definisco sul mio profilo Instagram (“un essere umano ottimista che usa colori + forme per condividere amore + luce”, ndr): uso l’arte urbana per veicolare energia positiva. Ho iniziato a lavorare tre anni fa con il duo Low Bros a Berlino e oggi i miei “muri” s’incontrano a Rabat (al Musée Mohammed VI), Casablanca, Parigi e Barcellona. Allez-y!».
Anila Rubiku, 49 anni, è nata in Albania.
Vive e lavora tra Milano, Toronto, Bodrum e Tirana.
«Sono qui con un progetto sul carcere femminile 325, che si trova nel quartiere di Ali Demi a Tirana, l’ho realizzato in collaborazione con lo psicologo Jeffrey Adams. Le mie “sbarre”, forgiate nel ferro, dipinte con l’acquerello e ricamate a colori sul tessuto, raccontano in chiave concettuale le diverse storie e i profili delle donne incarcerate per aver ucciso i propri mariti dopo aver subito anni di soprusi e violenze domestiche. Questo lavoro ha significato moltissimo per me, come artista ma soprattutto come donna e cittadina albanese. È anche grazie al nostro impegno artistico, che ha smosso l’opinione pubblica albanese, se in seguito alcune detenute del 325 hanno ottenuto l’amnistia. Ciò che mi preme comunicare a tutte le donne è che la violenza domestica non dev’essere, come invece accade in Albania e in altri Paesi del mondo, un “affare di famiglia”».
Ghada Amer, 56 anni, è nata in Egitto. Vive e lavora a New York. «Sono conosciuta in ambito artistico internazionale per l’uso della tecnica del ricamo nei dipinti e nelle sculture, ma ormai da diversi anni ho iniziato a interessarmi anche ai giardini d’arte. Per la Biennale di Rabat ho ideato un giardino sopra una delle torri di Fort Rottenbourg, creando con fiori e piante la scritta All oppression creates a state of war (ogni oppressione crea uno stato di guerra, ndr), una citazione di Simone de Beauvoir. Non amo troppo parlare nei miei lavori, preferisco utilizzare le citazioni di altre donne. Sulla condizione femminile e sulla guerra è già stato detto e scritto così tanto che non credo sia necessario esprimere altro, bisogna soltanto ricordare. Da Rabat ho voluto inviare al mondo un messaggio di pace in un luogo di guerra (il forte, ndr). La parola araba insan indica l’essere umano, ma significa anche “colui che dimentica”. Mentre il compito dell’arte è proprio quello di ricordare».
Rand Abdul Jabbar, 29 anni, è nata in Iraq. Vive a lavora ad Abu Dhabi.
«Il mio background artistico è in architettura, ma da tre anni ho iniziato a interessarmi sempre di più al patrimonio archeologico iracheno. Qui a Rabat presento una collezione di sessanta oggetti e sculture di ceramica ispirati all’arte mesopotamica esposta nei più importanti musei, dal Metropolitan di New York al British Museum di Londra, fino al Pergamon di Berlino, nell’intento di restituire loro una rilevanza contemporanea e allo stesso modo sottolineare la fragilità dei pezzi originali. Sono nata a Baghdad nel 1990, durante la prima guerra del Golfo, e quando avevo appena cinque anni ci
“OGGI ESSERE UN’ARTISTA DONNA È GIÀ DI PER SÉ UN ATTO
RIVOLUZIONARIO”
siamo trasferiti negli Emirati Arabi. L’unico ricordo vivo che ho del mio Paese è il giardino dei nonni. Dopo ventitré anni, l’anno scorso ho fatto ritorno in Iraq per visitare l’iraq Museum di Baghdad, l’antica Babilonia e alcuni dei siti danneggiati dall’isis. È stato un viaggio magico che mi ha motivata nel continuare il lavoro».
Katharina Cibulka, 44 anni, è nata in Austria. Vive e lavora a Innsbruck.
«La mia opera per la Biennale nasce da una domanda rivolta alle donne – “Fino a quando sarai una femminista?” – dopo che, in Austria e in altri Paesi, le forze conservatrici hanno iniziato a minacciare i diritti conquistati in anni di lotta. A Rabat, per rendere visibile una delle più importanti risposte ottenute (“fino a quando seguire le nostre regole sarà più importante che seguire i nostri cuori, io sarò una femminista”), ho scelto di ricamarla sulla rete da ponteggio installata sulla parete del Musée Mohammed VI. Ho esposto opere simili a Innsbruck e a Vienna, ma avere l’opportunità di farlo in Marocco è stato molto significativo. Normalmente per le mie “reti” utilizzo edifici reali. Ho accettato l’invito a esporre al museo perché in senso astratto questa Biennale, alla sua prima edizione e dedicata unicamente alle artiste, è un autentico cantiere».
Marcia Kure, 49 anni, è nata in Nigeria. Vive e lavora tra Princeton e Stoccolma, dove insegna al Royal Institute of Art.
«Il mio trittico in mostra a Rabat nasce dalla reinterpretazione di un dipinto storico, le Tre Grazie di Raffaello, attraverso i corpi astratti e frammentati di importanti figure femminili della storia africana: le amazzoni, donne guerriere dell’antico regno di Dahomey (nell’attuale Benin, ndr), Ndlorukazi Nandi kabebe e Langeni, la coraggiosa madre di Shaka, primo re degli Zulu, e la leader femminista nigeriana Funmilayo Ransome-kuti. La voce delle donne, non solo in Africa, è stata assente dal mondo dell’arte per troppo tempo. È ora di colmare il vuoto e ricalibrare la bilancia di genere, cominciando proprio da questa Biennale. La strada è ancora lunga e in salita. Oggi essere un’artista donna significa già di per sé compiere un atto femminista. Per la vera parità, sogno il giorno in cui anche al Louvre saranno rappresentate le artiste di colore».
Amy Sow, 42 anni, è nata in Mauritania.
Vive a lavora a Nouakchott (Mauritania).
«La mia installazione al Musée des Oudayas è stata concepita appositamente per questa Biennale: un semplice orologio, circondato da luci e drappi di tessuto colorati, segna il tempo nella speranza che arrivi il giorno in cui le donne raggiungeranno finalmente la loro indipendenza. Sono un’artista autodidatta. Anni fa, sconvolta dagli innumerevoli stupri e dalle continue violenze che subiscono ogni giorno le donne mauritane, ho smesso di dipingere dune di sabbia e cammelli per dedicare la mia intera arte alla denuncia. Ogni sabato, invito le donne e i bambini nella mia galleria d’arte Artgallé (in lingua pulaar significa “vieni a casa” o “arte a casa”) di Nouakchott perché imparino a dipingere e inizino ad avvicinarsi all’arte. Qui è molto difficile per un artista vivere del proprio lavoro e credo che l’assenza di un’accademia in Mauritania rappresenti un’ennesima forma di violenza verso il nostro futuro».