Le Guarentigie che non piacevano al papa
Dopo la presa di Roma il governo italiano cercò di regolare il rapporto tra Santa Sede e Stato con la legge delle Guarentigie, cioè delle garanzie, norme che però il pontefice sdegnosamente respinse
L’annessione di Roma al Regno d’Italia – a seguito della Breccia di Porta Pia e del plebiscito nel 1870 – comportò per il pontefice la perdita di qualsiasi sovranità temporale. Pio IX rispose denunciando l’occupazione dei suoi domini e dichiarandosi prigioniero politico del governo italiano. Il Regno cercò comunque di “istituzionalizzare” il rapporto con la Santa Sede riconoscendo al papa le garanzie necessarie al libero svolgimento del suo magistero spirituale. Emanata il 13 maggio 1871, la Legge
delle Guarentigie, fu il tentativo di applicare alla questione la formula della “Libera Chiesa in libero Stato” coniata da Cavour allorché tenne il celebre discorso su Roma capitale. La legge era costituita da due titoli: nel primo venivano riconosciute al papa attribuzioni simili a quelle di un capo di Stato, una dotazione annua a carico del bilancio dello Stato italiano, l’inviolabilità sui palazzi apostolici, la facoltà di svolgere liberamente il magistero spirituale, il diritto di rappresentanza diplomatica e la possibilità di avere autonomi collegamenti postali; nel secondo la legge si prefiggeva invece di regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Nonostante le molteplici aperture e concessioni, la Chiesa oppose un rifiuto sdegnato della legge e a stretto giro di posta Pio IX pubblicò l’enciclica “Ubi nos”, nella quale riaffermava l’impossibile disgiunzione del potere spirituale da quello temporale. La “questione romana” si sarebbe risolta solamente nel 1929 con i Patti Lateranensi e il Concordato.