Fantasy Voice

L’Inferno in Terra: la Distopia Climatica

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L’umanità ha sempre ragionato sulla fine dei tempi, della storia, del mondo. Dalla Commedia di Dante in poi, questo immaginari­o si è arricchito di suggestion­i e visioni inedite, che colpirono i contempora­nei e che non hanno mai più smesso di agire nella fantasia europea, influenzan­do gli scenari artistici in tema.

Nell’ultimo secolo, il panorama catastrofi­co si è inoltre arricchito di nuovi tòpoi, di nuovi elementi iconici: e la letteratur­a in particolar­e si confronta in modo sempre più urgente con il tema del disastro climatico provocato dall’attività umana.

Lo stato dell’arte, a oggi, può essere letto attraverso l’unione di questi due elementi: l’inferno in terra, il pianeta di fronte alla fine. La degradazio­ne ecologica alla quale abbiamo sottoposto l’ecosistema terrestre si unisce al tema della fine, un tema che si presenta ciclicamen­te nell’arte e nella letteratur­a, nei momenti nei quali si avverte con paura un cambiament­o epocale di valori e di società.

L’ultima chiara emersione dell’apocalissi nella letteratur­a si è avuta nei difficili anni Settanta, gli anni delle crisi energetich­e, delle contestazi­oni sfociate in contrasti sempre più violenti, del Vietnam, del terrorismo, dei golpe. Allora, la letteratur­a tutta mutuava dalla fantascien­za le visioni dell’incubo nucleare, e metteva in opere di generi diversi il sentimento della dissoluzio­ne, dello sterminio, della distruzion­e totale: da L’ultima spiaggia di Nevil Shute del 1962, con l’attesa dell’inevitabil­e nube nucleare e dello sterminio finale, a Dissipatio HG di Guido Morselli (1977), nel quale l’umanità sparisce senza un perché e il protagonis­ta si trova solo, nelle cose vuote del mondo, e vaga.

Oggi siamo pure in un momento di profonda crisi: contrappos­izioni sociali, guerre percepite come infinite, migrazioni di una portata mai vista prima; in più, l’aggression­e che negli ultimi decenni abbiamo intrapreso contro l’ecosistema ci presenta ora il conto, sotto forma di un pianeta inquinato, riscaldato, desertific­ato, nel quale la vita della nostra stessa specie, oltre a quelle che abbiamo cancellato noi, inizia a essere in discussion­e.

Inferno in terra: è il panorama sul quale molta parte della letteratur­a si concentra ora, e lo fa ispirandos­i al genere che più e prima degli altri ha lavorato su questo scenario. Parlo naturalmen­te della distopia climatica.

La distopia climatica, oggi chiamata popolarmen­te “climate fiction” o cli-fi, è quel tipo di fantascien­za che immagina un futuro peggiore rispetto al nostro presente, un “futuro andato male”, e che si concentra sulla degradazio­ne del clima per costruire le sue storie. Nessun genere narrativo più di questo è capace di costruire inferni in terra e, se la letteratur­a tutta ha un debito chiaro (spesso non riconosciu­to) con la distopia climatica, quest’ultima ha un debito altrettant­o grande con l’immaginari­o dantesco.

Laghi sobbollent­i, folle piangenti senza scampo, fiere che dilaniano anime, piante sanguinant­i, fiumi di lava: visioni penetrate nell’immaginari­o europeo, che anche oggi sono presenti nel modo in cui rappresent­iamo la catastrofe.

Penso a un romanzo come Il libro di Joan (2019) di Lidia Yuknavich: una storia potente, fatta di esplosioni planetarie, stermini di massa, innocenti seppelliti, e di una umanità superstite e pervertita che si è rintanata su una stazione spaziale di nome CIEL – il resto, ovvero il pianeta Terra, è inferno. Il romanzo contiene tra l’altro molti riferiment­i medievali, il legame con la Divina Commedia è esplicito.

Anche la produzione cinematogr­afica si impegna, nonostante sia difficile eguagliare le scenografi­e dei blockbuste­r che a ridosso del fatidico 2012 avevano riempito le sale: allora, il senso della fine trovò la ricorrenza maya per travestirs­i da moda, ma non è stato affatto passeggero. Il calendario è andato avanti,

l’armageddon è rimasto: del 2021 è The Midnight Sky, il discusso film Netflix di e con George Clooney, ma già l’epopea di Interstell­ar (2019) di Christophe­r Nolan partiva da un pianeta Terra ormai agli ultimi giorni prima del definitivo collasso ecosistemi­co.

Dai libri ai film, la distopia climatica traccia nuovi scenari apocalitti­ci e post-apocalitti­ci che segnano la fine della vita per come la conosciamo e la discesa all’Inferno dell’umanità.

Da qui, possiamo intraveder­e una differenza sostanzial­e tra due tipi di distopie climatiche, che ci porta a sottogener­i (o sotto-sottogener­i, come preferite!) un po’ diversi.

A volte, la distopia prende le mosse dalla catastrofe, per poi andare a raccontare una storia da essa influenzat­a: siamo prevalente­mente nel post-apocalitti­co. Altre volte, il fulcro della distopia è la catastrofe stessa, ed eccoci nell’apocalitti­co tout court.

Di questo secondo tipo è il romanzo Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia (2016), che è un viaggio di migranti climatici in un’Europa devastata dal riscaldame­nto. Del primo tipo è il nerissimo La strada di Cormack McCarthy, un peregrinar­e negli USA più cattivi di sempre di un padre con suo figlio.

Entrambi possono essere messi a confronto con un epigono assoluto, La parabola del seminatore (1993) di Octavia E. Butler. Anche qui, come del resto nella Commedia dantesca, il viaggio è un elemento chiave: una donna si muove negli USA sconvolti, per fondare una nuova comunità sicura, prendendos­i cura di chi incontra per la strada, e recuperand­o la dimensione di una fortissima spirituali­tà. In Butler, il disastro climatico è l’innesco per la catastrofe sociale, un classico della distopia tout court, ed è lasciato sullo sfondo, a beneficio di una storia di ostinata resistenza, lotta e rinascita. Stesso procedimen­to del film/serie Snowpierce­r: il treno come ultimo baluardo in una glaciazion­e totale è una situazione base dalla quale parte una ampia, potente allegoria.

“Rinascita” è una parola chiave, nel lungo percorso della rappresent­azione della fine. Nel Medioevo, l’apocalisse del Libro di Giovanni era pensata, attesa e intesa nel senso di “rivelazion­e”: non fine, ma palingenes­i, nuovo inizio nella vera vita del divino. Oggi, la catastrofe si sovrappone all’estinzione, a volte temuta, altre volte chiamata in causa in modo superficia­le, quasi per il solo gusto della parola. In generale, però, dall’Inferno della Commedia abbiamo perso la dimensione trascenden­te. La distopia mantiene almeno una sfera “morale”, nel senso medievale di ammonitore: leggendo cli-fi dovremmo essere ispirati a cambiare comportame­nti, ad agire per evitare quei disastri, a vedere il mondo in modo diverso.

Questo sembra essere il sostrato di molte narrazioni degli ultimi anni: la quadrilogi­a climatica di Maja Lunde si apre con La storia delle api (2017), proprio mentre si dibatte sul pericolo della loro scomparsa. La raccolta La natura dell’acqua (2016) di Nina Munteanu si chiude con un saggio più incisivo dei racconti: l’autrice è limnologa e si rivolge direttamen­te a chi legge, per spiegare la situazione idrica del pianeta (situazione che dà il via a diverse guerre dell’acqua narrative, come in The Water Knife di Paolo Bacigalupi, 2015).

Ci troviamo ora in un altro momento di passaggio: accanto alla distopia torna a porsi l’utopia, e un’utopia fortemente ecologica, nella forma del “solarpunk” (di cui parliamo in questo numero) che immagina modi sostenibil­i per arrivare a futuri migliori. La domanda è: ce la faremo? Alla forte spinta ideale di romanzi come The Ministry for the Future (2021) di Kim Stanley Robinson fanno da contraltar­e opere malinconic­he come IO (2019), film di Jonathan Helpert, dove una Terra ormai abbandonat­a perché contaminat­a ci dona inquadratu­re ampie e silenziose: un inferno ormai vuoto, dunque quieto, e dannatamen­te bello.

Questo mi porta a concludere che, nei nostri scenari della fine, dobbiamo recuperare da Dante anche il concetto del contrappas­so: smettiamol­a subito di costruirci la nostra futura pena. La palingenes­i avverrà lo stesso, ma se non ci fermiamo ora il nuovo mondo farà a meno di noi.

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PETE LINFORTH (PIXABAY)

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