LA CONVERSIONE FORZATA DEI NATIVI
L'annullamento culturale e religioso degli indiani che ha contribuito alla loro sottomissione e deportazione aA
Nelle terre di frontiera degli Stati Uniti gli scontri con i nativi americani erano un fatto pressoché quotidiano. Gli anni prolungati di confinamento territoriale, l’arrivo delle ferrovie, l’impossibilità di cacciare e vivere secondo le tradizioni avevano affievolito sempre di più lo spirito delle tribù, senza però riuscire a spegnerlo del tutto. Il punto focale della cultura dei nativi era l’approccio al mondo spirituale, che segnava ogni aspetto non solo della religione ma anche ogni risvolto sociale. Questo legame contrassegnava la loro identità in modo profondo, e sebbene le sue sfaccettature risultassero inaccessibili ad occhi estranei, divenne evidente che l’unico modo per soffocare rivolte e rappresaglie fosse annichilirlo definitivamente. Si diede il via così a una serie di iniziative per sradicare la religiosità dei nativi con una programma di conversione al Cristianesimo. L’obiettivo era chiaro, e i metodi per raggiungerlo fanno discutere tutt’oggi.
I primi contatti con i missionari
Il cambiamento di credenze e pratiche dei nativi americani spinto dai coloni si concretizzò nel tempo a quasi tutti i livelli: il modo di vestire, le tecniche di caccia e agricoltura, le strategie di guerra, il cibo, e addirittura il vocabolario. La conversione fu il passaggio più complesso, e sfociò in gravi conflitti culturali, a causa della concomitanza di numerosi fattori, la cui convergenza plasmò definitivamente il volto spirituale delle tribù native. Il processo di conversione che si delineò nell’800 rappresentò l’ultimo passaggio di una fase iniziata con i primi missionari, che si affacciarono nelle regioni più a ovest degli Stati Uniti tra il ’500 e il ’600. Essi venivano mandati spesso da ordini religiosi cattolici e protestan
ti, con lo scopo di propagandare il messaggio cristiano, estendendolo anche agli indiani. D’altra parte, la logica del tempo vedeva nella conversione un atto concreto di evangelizzazione finalizzato a "salvare" le anime degli indiani dai pericoli di una vita pagana, vissuta al di fuori della società civile. I primissimi incontri con nativi avvennero intorno al XVI secolo, quando i missionari cattolici spagnoli iniziarono ad accompagnare i pionieri durante la colonizzazione del Sud-Ovest degli Stati Uniti. Giunti nel Nuovo Messico, i missionari francescani tentarono di convertire le tribù Pueblo e Hopi al cattolicesimo, costruendo missioni (di cui un esempio fu la missione di San Estevan del Rey) e illustrando la religione attraverso l’arte e le liturgie. Nonostante le difficoltà, alcuni Pueblo furono aperti alla conversione, sebbene non in forma completa. E in effetti, i successi iniziali furono seguiti da lunghi periodi di resistenza, che sfociarono nella Rivolta dei Pueblo nel 1680, ritenuto uno dei primissimi tentativi di preservare usanze e tradizioni spirituali e culturali.
Nel corso del XVII secolo, i francescani furono affiancati anche dall’azione evangelizzatrice dei gesuiti, che si stanziarono principalmente nel Nuovo Messico e in Arizona. Qui promossero un approccio zelante alla conversione, che da una parte sottolineava la necessità prioritaria di insegnare la dottrina cristiana e i sacramenti, ma dall’altra non ignorava le usanze degli indigeni. Particolarmente significativa è stata l’iniziativa di Padre Paul Le Jeune e Padre Eusebio Kino, due missionari gesuiti nati rispettivamente in Francia e in Italia, che tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700 dedicarono i loro sforzi alla conversione delle tribù Pima e Papago nella regione del deserto di Sonora. Il loro approccio rimase – in un certo senso – unico, poiché non solo diedero vita a numerose missioni, incoraggiando la pratica dell’agricoltura tra le tribù, ma decisero anche di impegnarsi nell’apprendimento della lingua e della cultura dei nativi, per trovare un punto di incontro tra le due civiltà e favorire il passaggio verso il mondo cristiano. L’azione dei gesuiti fu fruttuosa anche in California, e dimostrò la sua efficacia proprio grazie all’impegno con cui si tentava di avvicinarsi alla sensibilità degli indiani senza prevaricarla, tramite una complessa rete di dinamiche interculturali.
La conversione durante le Guerre Coloniali
La fervente attività dei missionari conobbe un grande slancio nei primi anni del ’700, e permise notevoli passi avanti nella missione evangelica tra le tribù native. Tut
tavia, il processo di conversione fu ostacolato a più riprese dall’emergere di scontri coloniali intrisi di rivalità, per interessi commerciali o conflitti territoriali.
Uno dei momenti di svolta fu la Guerra del Fiume Yamasee (17151717), che vide una forte ostilità tra i colonizzatori e alcune tribù del Sud degli Stati Uniti. Le conseguenze non tardarono a ripercuotersi sulla percezione della conversione stessa: vedendo il coinvolgimento di missionari, si diffuse in fretta una profonda sfiducia nei confronti di quelle figure e delle loro intenzioni. Senza contare che la guerra portò anche a dislocazioni su larga scala, con tribù spinte a lasciare le loro terre ancestrali. In questo clima di incertezza, i nativi dovettero dare la priorità alla sopravvivenza, ridimensionando gli interessi nei confronti della conversione. Allo stesso modo, lo scontro rappresentato dalla Guerra Franco-Indiana tra colonie britanniche e francesi
Un giovane è ritratto nel 1882, appena giunto in una delle scuole di internamento, e nel 1885, alla fine del suo percorso. Alcuni storici hanno dimostrato come l'illuminazione della seconda foto sia stata falsata per veicolare il concetto secondo cui con un'istruzione adeguata, gli studenti avrebbero potuto letteralmente fondersi con la società bianca.
introdusse nuovi elementi nelle dinamiche delle conversioni. Gli stessi missionari, infatti, erano in aper ta ostilità tra loro, e trasponevano le ragioni del conflitto militare nella logica di dualismo tra cattolicesimo e protestantesimo. Le tribù dei nativi, quindi, iniziarono ad associare le contese coloniali alla fede cristiana, mettendo ulteriormente alla prova la credibilità dei suoi evangelizzatori.
Ancora una volta, le guerre coloniali si rivelarono portatrici di squilibri, soprattutto per i nativi che perdevano via via sempre più territori, così come la loro stabilità sociale e la coesione della comunità. In un certo senso, i conflitti armati sfavorirono la conversione in misura maggiore dell’iniziale diffidenza nei confronti del lavoro dei missionari, e divenne presto impossibile per gli indiani scindere i due aspetti. Il Cristianesimo finì per essere percepito come parte integrante dell’agenda coloniale, e quindi aspetto fondamentale di una civiltà a cui opporsi con forza.
Le scuole cristiane
Nonostante le continue resistenze, il Cristianesimo continuava a venire proposto alle tribù indiane come un’imposizione da parte delle istituzioni, che avevano l’obiettivo di "civilizzare" i nativi attraverso la cultura euro-americana. Nel XIX secolo, quindi, fiorirono le cosiddette "scuole di internamento", spesso gestite da religiosi, che miravano a separare i bambini nativi dalle loro comunità originarie, creando un ambiente in cui potessero essere immersi nella fede cristiana per farla propria. Nelle missioni cattoliche agivano anche alcune suore, spesso coinvolte nell’insegnamento e nell’assistenza alle comunità native.
Padre Eusebio Chini (conosciuto in seguito come Padre Kino) iniziò la sua missione in California e in Arizona nel 1687. Durante la sua attività si oppose alla schiavitù e cercò di avvicinarsi ai nativi, procurandosi anche la loro fiducia. Interagì con sedici tribù diverse.
Tali scuole per internati promuovevano un approccio di assimilazione culturale, e quindi di indottrinamento: insomma, si tentava di "trasformare" gli studenti nativi in cittadini secondo gli standard europei.
I capelli lunghi per i maschi erano proibiti, così come tutte le manifestazioni della cultura tribale, a par tire dall’abbigliamento. Ogni pilastro della loro vita precedente veniva scardinato uno ad uno, e si tentava di far dimenticare abitudini e credenze indigene con l’assegnazione costante di attività ritenute congrue con i compiti sociali dei futuri cittadini modello.
Ebbero un ruolo di rilievo anche i Presbiteriani e i Metodisti, che si impegnarono insieme ai Gesuiti per ripristinare la fiducia dei nativi, e alcuni gruppi (tra cui figuravano esponenti dei Nasi Forati) avevano premiato le loro fatiche con l’adesione ai principi cristiani, in opposizione a coloro che rivendicavano la loro appartenenza a una spiritualità pagana. L’impatto delle scuole fu complesso, e da un lato alcuni bambini acquisirono competenze pratiche che avrebbero potuto reimpiegare nella loro comunità; in molti casi, invece, l’esperienza traumatica di essere allontanati dalla
La missione di San Estévan del Rey nel New Mexico è stato uno dei primi baluardi della conversione dei nativi americani. Si collocava vicino all'insediamento pueblo di Acoma, che è stato continuamente occupato fin dalla Preistoria.
propria famiglia e dal proprio contesto di origine – unita alla pratica coercitiva di vietare l’uso delle lingue native – portò a numerosi fallimenti nella riuscita degli intenti dei missionari. In altri casi, invece, i nativi abbracciarono il sincretismo religioso, fondendo elementi spirituali della religiosità di origine con elementi degli insegnamenti cristiani.
La pista delle lacrime
Parallelamente alla diffusione del cristianesimo, il XIX secolo fu contraddistinto dalla firma di numerosi trattati tra il governo federale e le tribù native. Si trattò di una serie di provvedimenti per fiaccare le resistenze indigene su tutti i livelli, e uno degli esempi più significativi è rappresentato dal Trattato di Dancing Rabbit Creek, firmato il 27 settembre 1830, che coinvolse prevalentemente la tribù Choctaw, stanziata nelle regioni del Sud degli Stati Uniti.
Negli anni in cui l’espansione verso Ovest sembrava inarrestabile, il governo degli Stati Uniti si soffermò a lungo a considerare la questione degli indiani, e il ruolo che essi avrebbero avuto nel grande fermento che si stava agitando nelle zone di frontiera. La decisione fu drastica e avvallata dal presidente Jackson, che approvò il trattato tra i rappresentanti del governo e i capi Choctaw, che si impegnavano a cedere ampie porzioni di terre tribali in cambio dello stanziamento nel territorio dell’odierno Oklahoma. Le ripercussioni di tale accordo furono rovinose per i Choctaw, che nello spostamento verso Ovest furono decimati dalle condizioni avverse provocate dalla marcia forzata. Al di là della questione territoriale, il trattato di Dancing Rabbit Creek ebbe notevoli impatti culturali e religiosi, in quanto le terre
La tribù dei Seminole fu coinvolta nei progetti governativi di riassetto dei territori indiani, e fu costretta ad abbandonare le zone ancestrali in seguito al trattato di Dancing Rabbit Creek.
cedute erano parte del territorio sacro dei Choctaw, provocando una grave frattura culturale sia a livello religioso che collettivo. Si crearono divisioni interne fra chi approvava la cessione e chi la condannava, e ben presto le tribù stesse divenne
ro sempre più ostili l’una all’altra. Il viaggio di migrazione divenne tristemente noto come la “Pista delle Lacrime”, e venne percorso anche dai Cherokee in seguito al trattato di New Echota. Si trattava di un patto analogo a quello concordato con i Choctaw, ma ebbe ancora più implicazioni dal punto di vista religioso. Le fazioni più conservatrici dei Cherokee additarono i firmatari come traditori dei costumi indiani, e li associarono all’adozione di pratiche culturali e religiose americane. L’astio nei confronti della fede cristiana crebbe tra molti nativi, ed era tanto più acuto quanto più si constatavano i suoi effetti divisivi in un popolo già stremato. La perdita della terra era ormai divenuto sinonimo di rottura spirituale, eppure il Cristianesimo aveva già attecchito su molti fronti.
Nella seconda metà del XIX secolo, le correnti per mantenere l’identità culturale in un contesto di cambiamenti forzati rimasero in vita, ed emersero alcuni movimenti religiosi significativi come il Ghost Dance, che tentava di respingere l’influenza europea e ripristinare un modello di vita tradizionale. Ma gli sforzi in tal senso vennero man mano vanificati sia dal punto di vista legislativo (con il Dawes Act del 1887 per dividere le terre tribali in piccole proprietà) che religioso, con il lavoro incessante di missioni cristiane tra le tribù delle Grandi Pianure: le consuetudini tipiche dei nativi si affievolirono sempre di più, fino a scontrarsi con un inevitabile declino.
La deportazione forzata e le conversioni religiose portarono il capo Choctaw George W. Harkins a scrivere una lettera al popolo statunitense, in cui disse: «È con considerevole diffidenza che io cerco di rivolgermi al popolo americano, conoscendo e sentendo sensibilmente la mia incompetenza [...]. Ma avendo deciso di emigrare a ovest del fiume Mississippi quest'autunno, ho pensato che fosse giusto nel dirvi addio fare alcune osservazioni che esprimano il mio punto di vista, e i sentimenti che mi muovono rispetto all'argomento della nostra deportazione. Noi Choctaw scegliamo di soffrire e di essere liberi piuttosto che vivere sotto la degradante influenza delle leggi, che non hanno potuto ascoltare la nostra voce durante la loro formazione».