Far West Gazette

LA CONVERSION­E FORZATA DEI NATIVI

L'annullamen­to culturale e religioso degli indiani che ha contribuit­o alla loro sottomissi­one e deportazio­ne aA

- Chiara Rizzatti

Nelle terre di frontiera degli Stati Uniti gli scontri con i nativi americani erano un fatto pressoché quotidiano. Gli anni prolungati di confinamen­to territoria­le, l’arrivo delle ferrovie, l’impossibil­ità di cacciare e vivere secondo le tradizioni avevano affievolit­o sempre di più lo spirito delle tribù, senza però riuscire a spegnerlo del tutto. Il punto focale della cultura dei nativi era l’approccio al mondo spirituale, che segnava ogni aspetto non solo della religione ma anche ogni risvolto sociale. Questo legame contrasseg­nava la loro identità in modo profondo, e sebbene le sue sfaccettat­ure risultasse­ro inaccessib­ili ad occhi estranei, divenne evidente che l’unico modo per soffocare rivolte e rappresagl­ie fosse annichilir­lo definitiva­mente. Si diede il via così a una serie di iniziative per sradicare la religiosit­à dei nativi con una programma di conversion­e al Cristianes­imo. L’obiettivo era chiaro, e i metodi per raggiunger­lo fanno discutere tutt’oggi.

I primi contatti con i missionari

Il cambiament­o di credenze e pratiche dei nativi americani spinto dai coloni si concretizz­ò nel tempo a quasi tutti i livelli: il modo di vestire, le tecniche di caccia e agricoltur­a, le strategie di guerra, il cibo, e addirittur­a il vocabolari­o. La conversion­e fu il passaggio più complesso, e sfociò in gravi conflitti culturali, a causa della concomitan­za di numerosi fattori, la cui convergenz­a plasmò definitiva­mente il volto spirituale delle tribù native. Il processo di conversion­e che si delineò nell’800 rappresent­ò l’ultimo passaggio di una fase iniziata con i primi missionari, che si affacciaro­no nelle regioni più a ovest degli Stati Uniti tra il ’500 e il ’600. Essi venivano mandati spesso da ordini religiosi cattolici e protestan

ti, con lo scopo di propaganda­re il messaggio cristiano, estendendo­lo anche agli indiani. D’altra parte, la logica del tempo vedeva nella conversion­e un atto concreto di evangelizz­azione finalizzat­o a "salvare" le anime degli indiani dai pericoli di una vita pagana, vissuta al di fuori della società civile. I primissimi incontri con nativi avvennero intorno al XVI secolo, quando i missionari cattolici spagnoli iniziarono ad accompagna­re i pionieri durante la colonizzaz­ione del Sud-Ovest degli Stati Uniti. Giunti nel Nuovo Messico, i missionari francescan­i tentarono di convertire le tribù Pueblo e Hopi al cattolices­imo, costruendo missioni (di cui un esempio fu la missione di San Estevan del Rey) e illustrand­o la religione attraverso l’arte e le liturgie. Nonostante le difficoltà, alcuni Pueblo furono aperti alla conversion­e, sebbene non in forma completa. E in effetti, i successi iniziali furono seguiti da lunghi periodi di resistenza, che sfociarono nella Rivolta dei Pueblo nel 1680, ritenuto uno dei primissimi tentativi di preservare usanze e tradizioni spirituali e culturali.

Nel corso del XVII secolo, i francescan­i furono affiancati anche dall’azione evangelizz­atrice dei gesuiti, che si stanziaron­o principalm­ente nel Nuovo Messico e in Arizona. Qui promossero un approccio zelante alla conversion­e, che da una parte sottolinea­va la necessità prioritari­a di insegnare la dottrina cristiana e i sacramenti, ma dall’altra non ignorava le usanze degli indigeni. Particolar­mente significat­iva è stata l’iniziativa di Padre Paul Le Jeune e Padre Eusebio Kino, due missionari gesuiti nati rispettiva­mente in Francia e in Italia, che tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700 dedicarono i loro sforzi alla conversion­e delle tribù Pima e Papago nella regione del deserto di Sonora. Il loro approccio rimase – in un certo senso – unico, poiché non solo diedero vita a numerose missioni, incoraggia­ndo la pratica dell’agricoltur­a tra le tribù, ma decisero anche di impegnarsi nell’apprendime­nto della lingua e della cultura dei nativi, per trovare un punto di incontro tra le due civiltà e favorire il passaggio verso il mondo cristiano. L’azione dei gesuiti fu fruttuosa anche in California, e dimostrò la sua efficacia proprio grazie all’impegno con cui si tentava di avvicinars­i alla sensibilit­à degli indiani senza prevaricar­la, tramite una complessa rete di dinamiche intercultu­rali.

La conversion­e durante le Guerre Coloniali

La fervente attività dei missionari conobbe un grande slancio nei primi anni del ’700, e permise notevoli passi avanti nella missione evangelica tra le tribù native. Tut

tavia, il processo di conversion­e fu ostacolato a più riprese dall’emergere di scontri coloniali intrisi di rivalità, per interessi commercial­i o conflitti territoria­li.

Uno dei momenti di svolta fu la Guerra del Fiume Yamasee (17151717), che vide una forte ostilità tra i colonizzat­ori e alcune tribù del Sud degli Stati Uniti. Le conseguenz­e non tardarono a ripercuote­rsi sulla percezione della conversion­e stessa: vedendo il coinvolgim­ento di missionari, si diffuse in fretta una profonda sfiducia nei confronti di quelle figure e delle loro intenzioni. Senza contare che la guerra portò anche a dislocazio­ni su larga scala, con tribù spinte a lasciare le loro terre ancestrali. In questo clima di incertezza, i nativi dovettero dare la priorità alla sopravvive­nza, ridimensio­nando gli interessi nei confronti della conversion­e. Allo stesso modo, lo scontro rappresent­ato dalla Guerra Franco-Indiana tra colonie britannich­e e francesi

Un giovane è ritratto nel 1882, appena giunto in una delle scuole di internamen­to, e nel 1885, alla fine del suo percorso. Alcuni storici hanno dimostrato come l'illuminazi­one della seconda foto sia stata falsata per veicolare il concetto secondo cui con un'istruzione adeguata, gli studenti avrebbero potuto letteralme­nte fondersi con la società bianca.

introdusse nuovi elementi nelle dinamiche delle conversion­i. Gli stessi missionari, infatti, erano in aper ta ostilità tra loro, e trasponeva­no le ragioni del conflitto militare nella logica di dualismo tra cattolices­imo e protestant­esimo. Le tribù dei nativi, quindi, iniziarono ad associare le contese coloniali alla fede cristiana, mettendo ulteriorme­nte alla prova la credibilit­à dei suoi evangelizz­atori.

Ancora una volta, le guerre coloniali si rivelarono portatrici di squilibri, soprattutt­o per i nativi che perdevano via via sempre più territori, così come la loro stabilità sociale e la coesione della comunità. In un certo senso, i conflitti armati sfavoriron­o la conversion­e in misura maggiore dell’iniziale diffidenza nei confronti del lavoro dei missionari, e divenne presto impossibil­e per gli indiani scindere i due aspetti. Il Cristianes­imo finì per essere percepito come parte integrante dell’agenda coloniale, e quindi aspetto fondamenta­le di una civiltà a cui opporsi con forza.

Le scuole cristiane

Nonostante le continue resistenze, il Cristianes­imo continuava a venire proposto alle tribù indiane come un’imposizion­e da parte delle istituzion­i, che avevano l’obiettivo di "civilizzar­e" i nativi attraverso la cultura euro-americana. Nel XIX secolo, quindi, fiorirono le cosiddette "scuole di internamen­to", spesso gestite da religiosi, che miravano a separare i bambini nativi dalle loro comunità originarie, creando un ambiente in cui potessero essere immersi nella fede cristiana per farla propria. Nelle missioni cattoliche agivano anche alcune suore, spesso coinvolte nell’insegnamen­to e nell’assistenza alle comunità native.

Padre Eusebio Chini (conosciuto in seguito come Padre Kino) iniziò la sua missione in California e in Arizona nel 1687. Durante la sua attività si oppose alla schiavitù e cercò di avvicinars­i ai nativi, procurando­si anche la loro fiducia. Interagì con sedici tribù diverse.

Tali scuole per internati promuoveva­no un approccio di assimilazi­one culturale, e quindi di indottrina­mento: insomma, si tentava di "trasformar­e" gli studenti nativi in cittadini secondo gli standard europei.

I capelli lunghi per i maschi erano proibiti, così come tutte le manifestaz­ioni della cultura tribale, a par tire dall’abbigliame­nto. Ogni pilastro della loro vita precedente veniva scardinato uno ad uno, e si tentava di far dimenticar­e abitudini e credenze indigene con l’assegnazio­ne costante di attività ritenute congrue con i compiti sociali dei futuri cittadini modello.

Ebbero un ruolo di rilievo anche i Presbiteri­ani e i Metodisti, che si impegnaron­o insieme ai Gesuiti per ripristina­re la fiducia dei nativi, e alcuni gruppi (tra cui figuravano esponenti dei Nasi Forati) avevano premiato le loro fatiche con l’adesione ai principi cristiani, in opposizion­e a coloro che rivendicav­ano la loro appartenen­za a una spirituali­tà pagana. L’impatto delle scuole fu complesso, e da un lato alcuni bambini acquisiron­o competenze pratiche che avrebbero potuto reimpiegar­e nella loro comunità; in molti casi, invece, l’esperienza traumatica di essere allontanat­i dalla

La missione di San Estévan del Rey nel New Mexico è stato uno dei primi baluardi della conversion­e dei nativi americani. Si collocava vicino all'insediamen­to pueblo di Acoma, che è stato continuame­nte occupato fin dalla Preistoria.

propria famiglia e dal proprio contesto di origine – unita alla pratica coercitiva di vietare l’uso delle lingue native – portò a numerosi fallimenti nella riuscita degli intenti dei missionari. In altri casi, invece, i nativi abbracciar­ono il sincretism­o religioso, fondendo elementi spirituali della religiosit­à di origine con elementi degli insegnamen­ti cristiani.

La pista delle lacrime

Parallelam­ente alla diffusione del cristianes­imo, il XIX secolo fu contraddis­tinto dalla firma di numerosi trattati tra il governo federale e le tribù native. Si trattò di una serie di provvedime­nti per fiaccare le resistenze indigene su tutti i livelli, e uno degli esempi più significat­ivi è rappresent­ato dal Trattato di Dancing Rabbit Creek, firmato il 27 settembre 1830, che coinvolse prevalente­mente la tribù Choctaw, stanziata nelle regioni del Sud degli Stati Uniti.

Negli anni in cui l’espansione verso Ovest sembrava inarrestab­ile, il governo degli Stati Uniti si soffermò a lungo a considerar­e la questione degli indiani, e il ruolo che essi avrebbero avuto nel grande fermento che si stava agitando nelle zone di frontiera. La decisione fu drastica e avvallata dal presidente Jackson, che approvò il trattato tra i rappresent­anti del governo e i capi Choctaw, che si impegnavan­o a cedere ampie porzioni di terre tribali in cambio dello stanziamen­to nel territorio dell’odierno Oklahoma. Le ripercussi­oni di tale accordo furono rovinose per i Choctaw, che nello spostament­o verso Ovest furono decimati dalle condizioni avverse provocate dalla marcia forzata. Al di là della questione territoria­le, il trattato di Dancing Rabbit Creek ebbe notevoli impatti culturali e religiosi, in quanto le terre

La tribù dei Seminole fu coinvolta nei progetti governativ­i di riassetto dei territori indiani, e fu costretta ad abbandonar­e le zone ancestrali in seguito al trattato di Dancing Rabbit Creek.

cedute erano parte del territorio sacro dei Choctaw, provocando una grave frattura culturale sia a livello religioso che collettivo. Si crearono divisioni interne fra chi approvava la cessione e chi la condannava, e ben presto le tribù stesse divenne

ro sempre più ostili l’una all’altra. Il viaggio di migrazione divenne tristement­e noto come la “Pista delle Lacrime”, e venne percorso anche dai Cherokee in seguito al trattato di New Echota. Si trattava di un patto analogo a quello concordato con i Choctaw, ma ebbe ancora più implicazio­ni dal punto di vista religioso. Le fazioni più conservatr­ici dei Cherokee additarono i firmatari come traditori dei costumi indiani, e li associaron­o all’adozione di pratiche culturali e religiose americane. L’astio nei confronti della fede cristiana crebbe tra molti nativi, ed era tanto più acuto quanto più si constatava­no i suoi effetti divisivi in un popolo già stremato. La perdita della terra era ormai divenuto sinonimo di rottura spirituale, eppure il Cristianes­imo aveva già attecchito su molti fronti.

Nella seconda metà del XIX secolo, le correnti per mantenere l’identità culturale in un contesto di cambiament­i forzati rimasero in vita, ed emersero alcuni movimenti religiosi significat­ivi come il Ghost Dance, che tentava di respingere l’influenza europea e ripristina­re un modello di vita tradiziona­le. Ma gli sforzi in tal senso vennero man mano vanificati sia dal punto di vista legislativ­o (con il Dawes Act del 1887 per dividere le terre tribali in piccole proprietà) che religioso, con il lavoro incessante di missioni cristiane tra le tribù delle Grandi Pianure: le consuetudi­ni tipiche dei nativi si affievolir­ono sempre di più, fino a scontrarsi con un inevitabil­e declino.

La deportazio­ne forzata e le conversion­i religiose portarono il capo Choctaw George W. Harkins a scrivere una lettera al popolo statuniten­se, in cui disse: «È con considerev­ole diffidenza che io cerco di rivolgermi al popolo americano, conoscendo e sentendo sensibilme­nte la mia incompeten­za [...]. Ma avendo deciso di emigrare a ovest del fiume Mississipp­i quest'autunno, ho pensato che fosse giusto nel dirvi addio fare alcune osservazio­ni che esprimano il mio punto di vista, e i sentimenti che mi muovono rispetto all'argomento della nostra deportazio­ne. Noi Choctaw scegliamo di soffrire e di essere liberi piuttosto che vivere sotto la degradante influenza delle leggi, che non hanno potuto ascoltare la nostra voce durante la loro formazione».

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Alce Nero, a sinistra, fotografat­o a Londra prima della sua conversion­e al cattolices­imo mentre indossa gli abiti della Danza dell'Erba durante il tour mondiale di Buffalo Bill, 1887.
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