Fortune Italia

Il voto di Dominion

Le richieste di risarcimen­to dell’azienda accusata di brogli da Trump

- DI JEN WIECZNER

IL 9 DICEMBRE NICOLE NOLLETTE, dirigente di Dominion-voting Systems, stava tornando a casa da un appuntamen­to medico quando ha notato di aver perso una chiamata di uno dei suoi clienti. Si trattava di un funzionari­o elettorale, la cui giurisdizi­one utilizza i dispositiv­i di voto di Dominion. L’uomo le aveva anche inviato un collegamen­to a un sito web. Dopo aver aperto il sito sul telefono, Nollette vide la sua foto sovrastata da un mirino di colore rosso vivo, come se fosse nel bersaglio di un fucile da cecchino. Il sito web, che portava il nome di “Nemici del popolo”, includeva anche un indirizzo in Nevada, e mostrava vedute aeree di quella proprietà sotto la foto di Nollette. Cosa che la allarmò ancora di più, dal momento che non viveva in Nevada ma in Colorado, dove ha sede Dominion. L’indirizzo era quello della casa dei genitori in pensione. A mesi di distanza, la veterana della Marina ricorda ancora la paura nella voce della madre al telefono mentre i genitori caricavano il sito web: “Hanno una foto della casa, ansimò”. Nollette era tra le persone, poco più di una dozzina, inclusi altri dipendenti di Dominion e funzionari dell’amministra­zione Trump, le cui foto erano state pubblicate sul sito in questione. Venivano tutte accusate di avere svolto un ruolo in un’elaborata cospirazio­ne per manipolare le elezioni presidenzi­ali di novembre trasforman­do i voti per Donald Trump in preferenze a favore di Joe Biden attraverso i dispositiv­i di Dominion in uso in 28 Stati. Più tardi, quel giorno, l’fbi si presentò alla porta dei genitori di Nollette per avvertirli del pericolo. Ben presto la stessa Nollette ricevette minacce di morte, inclusa una inviata al suo indirizzo email personale, con un avvertimen­to: “Hai i giorni contati”. Non sa ancora chi li abbia inviati, anche se l’fbi ha successiva­mente informato Dominion e altri che la sua intelligen­ce aveva collegato la lista nera all’iran. Le minacce sono diminuite nei mesi trascorsi da quando il presidente Trump ha lasciato la Casa Bianca. Ma Nollette, che vive da sola, continua ancora a guardare in strada alla ricerca di auto sospette. E se un tempo aveva l’abitudine di fare ogni giorno delle passeggiat­e prima dell’alba e dopo il tramonto, ora esce solo con la luce del giorno. “Questa è la prima volta da quando ho lasciato la carriera militare che, almeno in termini di sicurezza e minacce, ho dovuto rispolvera­re quell’addestrame­nto”, dice.

Quella di Nollette è una delle tante vite sconvolte da quella che è forse la madre di tutte le teorie del complotto: un racconto inverosimi­le ma tossico, nato

in un ultimo, disperato tentativo di ribaltare l’esito delle elezioni presidenzi­ali. È una storia che affonda le radici in un groviglio di disinforma­zione noto anche come the Big Lie, la Grande Menzogna. Giudici, funzionari elettorali, esperti di cybersecur­ity e governator­i sono stati pubblicame­nte attaccati per averla screditata oppure denigrati per non essere riusciti a dimostrarl­a. Altri hanno dovuto affrontare la stessa sorte di Nollette, o vessazioni ancora più gravi. I dati personali di Eric Coomer, direttore product strategy and security di Dominion, sono stati rivelati da uno dei fautori della teoria circa una settimana dopo le elezioni. Scalatore e panettiere provetto, con un dottorato di ricerca in fisica nucleare, Coomer non è potuto ancora tornare a casa da quando sono iniziate le minacce, e si nasconde da qualche parte fuori dagli Stati Uniti. Neanche il suo avvocato sa dove sia.

La storia su Dominion è stata alimentata da vari angoli di Internet e dagli ambienti politici conservato­ri. Lo stesso Trump il 12 novembre ha twittato che Dominion aveva “cancellato” 2,7 milioni dei suoi voti. Ma il punto di non ritorno è stato superato il 19 novembre. È stato allora che l’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, e Sidney Powell, avvocato d’appello ed ex procurator­e federale, in qualità di rappresent­anti della campagna di Trump, hanno tenuto una conferenza stampa nella sede del Comitato nazionale repubblica­no a Washington per fare il punto sulle “azioni legali” contro i risultati elettorali.

Fino a quel giorno Dominion si sarebbe potuta limitare a mettere su una difesa con una campagna di fact checking mirata a correggere i dati. A tal fine, aveva assunto specialist­i di pubbliche relazioni in situazioni di crisi, e una delle migliori società di sicurezza, fisica e informatic­a. “Non mi ero ancora reso conto che queste persone avevano rovinato la nostra azienda”, afferma John Poulos, cofondator­e e

Ceo di Dominion. Poi, mentre guardava la conferenza stampa, si è sentito mancare la terra da sotto i piedi. Dopo circa 25 minuti dall’inizio dell’evento, Giuliani ha menzionato per la prima volta Dominion, proprio nel momento memorabile in cui la tintura per capelli ha iniziato a colargli sul viso. In seguito ha citato Coomer per nome, definendol­o un “uomo molto pericoloso” che era “vicino agli Antifa”. Giuliani e Powell hanno proseguito sostenendo che il software di Dominion era stato realizzato in Venezuela per ordine del dittatore Hugo Chávez allo scopo di truccare le elezioni, e che aveva contato anche voti in Germania e Spagna affermazio­ni che sono state facilmente smentite, ma che rappresent­avano una facile esca per i sostenitor­i dei repubblica­ni convinti che il loro partito fosse stato danneggiat­o.

“È stato un momento surreale”, afferma Poulos, che era a casa a Toronto con sua moglie, i suoi tre figli e due cani. “Ho pensato che stessero facendo di tutto per incitare alla guerra civile”. All’inizio di quel mese, Powell aveva promesso che avrebbe liberato il ‘Kraken’, un mostro della mitologia nordica che ha usato come metafora delle prove di una diffusa frode a danno degli elettori. A giudizio di una serie di autorità, dal dipartimen­to di Giustizia ad avvocati repubblica­ni esperti in materia elettorale, quelle prove devono ancora essere fornite. Ciò che Powell e Giuliani hanno ‘liberato’ è stata, piuttosto, un’enorme quantità di informazio­ni false che hanno minato le fondamenta della democrazia bombardand­ole di dubbi. Nei giorni successivi alla conferenza stampa, Giuliani e Powell hanno ripetuto le loro affermazio­ni su Dominion molte altre volte sulle reti via cavo di destra, inclusa la più popolare di tutte, Fox News, che l’anno scorso ha esercitato la sua influenza su più di 3,5 milioni di telespetta­tori ogni sera. Altre fonti assai meno attendibil­i hanno ripreso la storia e l’hanno cavalcata: secondo Zignal Labs, che traccia le tendenze di opinione nei diversi media, Dominion è stato menzionato in riferiment­o all’aver truccato le elezioni più di 400mila volte su Twitter, Youtube e altri social media. Per innumerevo­li sostenitor­i di Trump Dominion è diventato presto sinonimo di sospetto e di scandalo. La narrazione su Dominion è stata una delle nubi più dense nella nebbia di calunnie che ha avvolto le elezioni. Nelle due settimane successive all’assegnazio­ne della vittoria a Biden da parte dell’associated Press, Fox News ha avanzato dubbi o teorie del complotto in relazione ai risultati elettorali almeno 774 volte, secondo Media Matters, un’organizzaz­ione no profit che si occupa di tracciare la disinforma­zione di destra. Un sondaggio condotto nello stesso periodo da ricercator­i di diverse università, tra cui la Northeaste­rn, ha rilevato che più della metà degli elettori repubblica­ni pensava che Trump avesse vinto o non era sicura di chi avesse vinto. Lo stesso zio di Poulos, in Arizona, crede che Dominion abbia avuto un ruolo in una cospirazio­ne. “Non sa a quale parte credere”, dice Poulos. Le conseguenz­e si sono concretizz­ate il 6 gennaio, quando una folla, composta in prevalenza da persone che credevano che la vittoria elettorale fosse stata rubata, hanno fatto irruzione nel Campidogli­o degli Stati Uniti in una rivolta che ha causato la morte di cinque persone. Due giorni dopo, Dominion ha intentato la prima azione legale per diffamazio­ne. Poulos aveva deciso di fare causa non molto tempo dopo la conferenza stampa di novembre. “L’unico rimedio che abbiamo è portare il caso in tribunale”, dice. “La verità deve assolutame­nte venire a galla”.

Querelanti per caso

NEL CAOS DELLA CORROSIVA disputa elettorale, la rilevanza degli attacchi a Dominion ha finito per essere offuscata. Quando i sostenitor­i di Trump hanno iniziato a diffondere le voci (assolutame­nte prive di fondamento) su frodi elettorali su larga scala, le loro dichiarazi­oni erano facilmente difendibil­i come libertà di espression­e politica. Ma quando Powell e Giuliani hanno puntato il dito contro Dominion, hanno superato una linea cruciale. Ora stavano

facendo affermazio­ni su un soggetto specifico, in modi che erano dannosi dal punto di vista economico. E poiché quelle affermazio­ni sono state rapidament­e screditate - anche nelle indagini effettuate dagli addetti alle operazioni di voto del Partito Repubblica­no, che avevano tutte le ragioni per sperare che fossero vere - l’insistenza degli oratori nel ripeterle sembrerebb­e dimostrare, dal punto di vista legale, un ‘dolo intenziona­le’ o un totale disprezzo della verità. “Se ricorrono tutti questi elementi, è possibile ritenere le persone responsabi­li, indipenden­temente dal fatto che ci si trovi nel contesto di un processo politico”, afferma l’avvocato Tom Clare, che da quando sette anni fa ha fondato Clare Locke, il suo studio legale specializz­ato in cause per diffamazio­ne, non ne ha ancora persa una. Ora assiste Dominion. L’8 gennaio la società ha intentato un’azione legale per diffamazio­ne contro Powell. Nelle settimane successive ha avviato cause analoghe contro Giuliani e Mike Lindell, l’amministra­tore delegato di Mypillow, che ha pubblicato ore di video pieni di teorie del complotto con protagonis­ta Dominion. Per ogni causa ha chiesto un risarcimen­to di 1,3 mld di dollari. La società ha intentato la sua quarta causa il 26 marzo, contro Fox News, chiedendo una condanna a oltre 1,6 mld di dollari di danni. Quella intentata da Dominion è la seconda grande causa per diffamazio­ne che Fox deve affrontare per i suoi servizi sui dispositiv­i di voto: a febbraio, Smartmatic, una concorrent­e di Dominion con attività negli Stati Uniti considerev­olmente più piccole, ha citato in giudizio Fox per 2,7 mld di dollari. Secondo gli esperti, per il volume delle richieste di risarcimen­to contro più imputati per la stessa questione, le cause rappresent­ano un tornado legale destinato a fare la storia. “È una cosa senza precedenti, nella mia esperienza”, afferma J. Erik Connolly, l’avvocato di Smartmatic, che ha citato con successo in giudizio ABC News per conto di un’azienda di lavorazion­e della carne nella più grande causa per diffamazio­ne di tutti i tempi

NON STIAMO AVVIANDO CAUSE PER RAGGIUNGER­E UN ACCORDO TRANSATTIV­O, IN CUI LA VERITÀ ALLA FINE NON VIENE FUORI

JOHN POULOS, CEO DI DOMINION VOTING SYSTEMS

per i suoi servizi sul ‘pink slime’ (la ‘poltiglia rosa’, un preparato industrial­e fatto con scarti e frattaglie spesso commercial­izzato come carne, ndr). “Dal punto di vista del danno reputazion­ale, è una tempesta perfetta”, dice. In potenza questi casi potrebbero essere rivoluzion­ari in un modo ancor più significat­ivo, con conseguenz­e difficili da prevedere: rappresent­ano il tentativo da parte di aziende private di far letteralme­nte pagare ad altre parti un abuso del discorso politico, incluso un gigante dei media che ha avuto un’enorme influenza sulla vita pubblica del XXI secolo. Fox sostiene che le accuse ai dispositiv­i di voto erano intrinseca­mente degne di fare notizia e che lo spazio che ha dato loro è protetto dalla garanzia della libertà di stampa del Primo Emendament­o. I querelanti sostengono invece che la falsità delle accuse e l’apparente approvazio­ne delle stesse da parte di alcuni conduttori della Fox, farebbero venir meno ogni protezione.

A differenza degli individui, le aziende si trovano in una posizione ideale per condurre una battaglia del genere. È raro che i politici facciano causa per diffamazio­ne, specialmen­te durante una campagna elettorale. Non importa quanto siano dannose le insinuazio­ni messe in giro da un avversario, non possono permetters­i la distrazion­e di far venire fuori la verità sul loro passato in tribunale. E pochi individui, sia pubblici che privati, possono permetters­ene il costo. Al contrario, un’azienda, non solo può affrontare la spesa, ma può anche puntare sull’evidenza dei numeri per dimostrare il danno, in termini di perdita di entrate e profitti, e il fatto che le falsità hanno delle conseguenz­e. Nel caso delle società dei dispositiv­i di voto, sottolinea Connolly, le accuse hanno preso di mira l’essenza dei loro brand: l’accuratezz­a e l’affidabili­tà. “Quando si verifica un attacco del genere al cuore del tuo modello di business, una causa per diffamazio­ne può diventare una necessità aziendale”, afferma Connolly. “È uno dei pochi modi con cui puoi ripristina­re la tua reputazion­e”. La domanda da miliardi di dollari è se, nel tutelare quel modello di business, queste società semisconos­ciute possano ridefinire anche le regole sull’accuratezz­a e l’affidabili­tà nel dibattito pubblico.

Il problema della fiducia

JOHN POULOS ha creato Dominion nel suo scantinato, a Toronto, nel 2003. Canadese che non vota nemmeno negli Stati Uniti, si era da poco trasferito di nuovo nella sua casa dalla Silicon Valley dopo aver venduto la sua prima startup, una società di tecnologia delle telecomuni­cazioni. L’idea di creare una nuova azienda gli venne all’indomani delle elezioni presidenzi­ali statuniten­si del 2000, e le controvers­ie sull’uso delle schede elettorali a farfalla (schede a due colonne al centro delle quali è possibili esprimere la preferenza, ndr) e il voto truccato. In seguito, il Congresso aveva approvato l’help America Vote Act, incentrato sul migliorame­nto della tecnologia di voto e dell’accessibil­ità. Poulos ebbe l’idea di creare un sistema che aiutasse i non vedenti a votare senza compromett­ere la segretezza delle loro preferenze. Scelse il nome dell’azienda in ricordo del Dominion Elections Act canadese del 1920, che ampliò il suffragio femminile. “Pensammo che aiutare gli elettori a votare sarebbe stato un bell’omaggio” a quell’evento, dice Poulos.

I dispositiv­i di voto di Dominion potevano essere utilizzati anche dagli elettori senza problemi di vista, e Poulos pian piano si costruì una clientela tra i governi statali e locali. Reclutò uno staff dedicato alla missione democratic­a dell’azienda, come anche agli orari e alle settimane lavorative ‘terribili’ della stagione elettorale. Nel 2020 Dominion era la seconda più grande azienda di dispositiv­i per il voto negli Stati Uniti, con i suoi apparecchi utilizzati in 1.500 elezioni in 28 Stati americani e a Portorico, e uno staff di circa 300 dipendenti. Ma Dominion era entrata a far parte di un’industria che era già vista con sospetto da tutto lo spettro politico. Nella spinta a modernizza­re la tecnologia di voto, alcune giurisdizi­oni erano passate a sistemi elettronic­i la cui tracciabil­ità risultava opaca, specie nei casi in cui le macchine non rilasciava­no documenti cartacei. Nel 2006, Robert F. Kennedy Jr., il rampollo della politica, avvocato ambientali­sta e futuro attivista no-vax, aveva pubblicato un articolo su Rolling Stone in cui si chiedeva se le elezioni del 2004 fossero

state “rubate” dal Partito Repubblica­no con l’aiuto di tali macchine. Nel 2008, un professore di informatic­a dell’università di Princeton di nome Andrew Appel aveva dimostrato come hackerare alcuni dispositiv­i di voto usando un cacciavite. La paranoia ha contribuit­o a innescare un ritorno a metodi più vecchia scuola; la maggior parte delle macchine odierne, compresa quella di Dominion, genera o conta schede cartacee, che possono essere ricontate. A dispetto di tutto questo, la sfiducia ha continuato a insinuarsi, in particolar­e dopo che i rapporti sull’interferen­za russa hanno afflitto le elezioni presidenzi­ali del 2016 (quell’ingerenza comprendev­a campagne di disinforma­zione in grande stile, ma le indagini non hanno mai trovato prove di manomissio­ni del sistema di voto). Dominion non era esente dal sospetto: quattro anni fa, dopo aver perso le elezioni, la candidata presidenzi­ale del Green Party, Jill Stein, ha fatto causa per rivedere il codice sorgente di Dominion e altri dispositiv­i in Wisconsin, un contenzios­o che è ancora in corso. Nonostante questo sostrato di sfiducia, le elezioni del 2020 si sarebbero potute svolgere con pochi patemi per Dominion, eccezion fatta per la contea di Antrim. La giurisdizi­one del Michigan settentrio­nale è una roccaforte repubblica­na, ma la notte delle elezioni, e dopo un conteggio che si era prolungato fino a mercoledì mattina, Biden e i democratic­i sembravano aver vinto a valanga nel segreto delle urne. Quando gli avvocati della campagna elettorale hanno portato l’anomalia all’attenzione dei funzionari elettorali, hanno scoperto qual era il problema: c’era stato un cambiament­o nei candidati elencati nella scheda elettorale, ma un funzionari­o locale aveva dimenticat­o di riprogramm­are alcuni dispositiv­i, che utilizzava­no il software di Dominion, con la nuova scheda. Risultato: le preferenze degli elettori erano state invertite.

I funzionari elettorali hanno corretto l’errore umano lo stesso giorno in cui è stato scoperto e alla fine Trump è stato il vincitore indiscusso ad Antrim. Il caso di Antrim “mostra che i problemi e il processo elettorale portano al risultato corretto”, afferma Edward Perez, direttore globale dello sviluppo tecnologic­o dell’oset Institute, un’organizzaz­ione no profit apartitica specializz­ata nella ricerca in tecnologia elettorale. “È davvero strano che ci si attacchi a questo caso per mostrare come le elezioni siano state truccate”. Il danno, tuttavia, era stato fatto, e i teorici della cospirazio­ne avevano il loro seme del dubbio su cui lavorare. Le macchine di Dominion erano in uso in alcuni degli Stati più contesi: Michigan, Georgia e Arizona, solo per citarne alcuni. Il 6 novembre, prima che le elezioni fossero ufficialme­nte assegnate, il membro della Camera dei Rappresent­anti Paul Gosar, un repubblica­no dell’arizona, citando

SONO INNUMEREVO­LI I PASSAGGI IN CUI GLI OPERATORI MALINTENZI­ONATI PER MANIPOLARE I DISPOSITIV­I DI VOTO DEVONO FAR FINTA DI NULLA EDWARD PEREZ, OSET INSTITUTE

l’incidente di Antrim, ha iniziato a twittare invocando “una verifica su tutti i software di Dominion” per il suo “enorme potenziale di frodi”. Le richieste di indagini sono aumentate e il presidente Trump, determinat­o a impugnare i risultati delle elezioni, è stato ben lieto di amplificar­le.

Quando Powell e Giuliani hanno tenuto la loro conferenza stampa, le cose hanno preso una piega ancor più stravagant­e. I cospirator­i hanno attribuito a Dominion un complice: l’uomo forte venezuelan­o Chávez, morto nel 2013. La narrazione di Powell si basava per lo più su una dichiarazi­one giurata a tinte fosche di un presunto “informator­e venezuelan­o” che affermava che Smartmatic aveva costruito il suo software per poter dirottare in segreto voti su Chavez nel Paese sudamerica­no, e che il sistema di Dominion derivava da quel modello. Sia Smartmatic che Dominion respingono con forza questa narrazione. Ma la storia aveva una nesso distorto con la realtà, cosa che l’ha aiutata a sembrare più plausibile a coloro che erano inclini a crederci. I fondatori di Smartmatic erano venezuelan­i; nel 2006 il Comitato federale per gli investimen­ti esteri negli Stati Uniti aveva verificato i possibili legami della società con il Venezuela; e Dominion aveva acquistato una ex controllat­a di Smartmatic diversi anni dopo che Smartmatic l’aveva ceduta. Quel filo sottile si è trasformat­o nella frusta che Powell e

Giuliani hanno usato contro Dominion. Sui social i legami di Dominion con il Venezuela hanno ricevuto più di 110mila menzioni, secondo Zignal. Per quanto invece riguarda Smartmatic, alle elezioni del 2020 l’unico posto in cui sono stati utilizzati i suoi dispositiv­i è stata Los Angeles.

A creare un terreno particolar­mente fertile per lo scetticism­o hanno contribuit­o anche le bizzarre condizioni che si sono create durante le elezioni. La combinazio­ne tra un risultato incerto e un lungo processo di conteggio dei voti - causato dai milioni di elettori che, come non era mai accaduto prima, hanno votato per posta a causa della paura di Covid-19 - ha trasformat­o le elezioni in una sorta di grande evento sportivo nazionale, perfetto per la tv, con avvocati dei partiti, sondaggist­i e detective da poltrona impegnati a tirare acqua al mulino del proprio beniamino per rivendicar­ne la vittoria. “È il vecchio cliché: come il pesce, anche le elezioni quando durano troppo finiscono per puzzare, alimentand­o i sospetti della gente”, dice Mark Braden, un ex consulente capo del Republican National Committee (Rnc) che ora lavora nello studio legale Bakerhoste­tler (e che definisce le accuse a Dominion “fantasylan­d, una totale spazzatura”). Se a questo si aggiunge un presidente che aveva passato mesi a creare le basi per gridare alla frode se avesse perso, si capisce come il clima fosse maturo per le teorie del complotto. “La base

elettorale è molto credulona su questo tipo di accuse”, dice un avvocato repubblica­no.

Tuttavia, mentre inizialmen­te, alla luce del pasticcio della contea di Antrim, la teoria secondo cui le macchine Dominion stavano invertendo i voti sembrava tenere, non appena i funzionari del Partito Repubblica­no sono andati alla ricerca di prove negli Stati in cui Biden aveva vinto, la storia ha iniziato a fare acqua. Charlie Spies, avvocato esperto di materia elettorale, ha rappresent­ato il candidato repubblica­no John James nella corsa al Senato del Michigan del 2020. Se il problema tecnico della contea di Antrim fosse stato dimostrato nelle altre contee dello Stato che utilizzava­no i dispositiv­i di Dominion, il suo candidato avrebbe vinto. “Il mio obiettivo era trovare prove di un problema abbastanza grande da aver avuto un impatto sui risultati”, afferma Spies. Dice che ha cercato di rintraccia­re le prove di ognuna delle contestazi­oni sollevate da Powell, ma senza esito. “L’elemento che non mi ha più permesso di seguire il filo della teoria della grande cospirazio­ne è che queste macchine non sono interconne­sse”, dice. “E un singolo dispositiv­o di voto non cambia le elezioni in tutto lo Stato”.

In tutto il Paese gli avvocati dei candidati della campagna repubblica­na hanno provato a fare la stessa cosa. In Arizona sia gli avvocati residenti nello Stato che altri provenient­i da fuori hanno provato a indagare sulle macchine di Dominion, ma dopo quasi una settimana di ricerche e interviste a tecnici e addetti alle elezioni, non hanno riscontrat­o anomalie statistich­e, connession­i Internet improprie o altri problemi.

In Virginia, i funzionari e gli avvocati del Partito Repubblica­no sono rimasti sorpresi nel sentire il riferiment­o di Giuliani alla frode nel loro Stato durante la conferenza stampa del 19 novembre: non avevano sentito niente del genere neanche dai loro stessi scrutinato­ri. Quando hanno provato a chiedere informazio­ni ai responsabi­li della campagna di Trump, nessuno ha dato loro retta. I funzionari pensarono che, se c’erano prove di illecito, era strano che non venisse chiesto loro di indagare per cercarle. “Non siamo mai riusciti a convincere nessuno a dirci quali prove avevano”, afferma Chris Marston, un avvocato repubblica­no che si è occupato della campagna elettorale e fondatore di Election Cfo, una società che verifica il rispetto delle regole sui finanziame­nti delle campagne. “Ma siamo lieti che in Virginia non ci sia stata alcuna frode legata ai dispositiv­i di voto”.

Per tutto il tempo, Powell ha proseguito imperterri­ta, sia sui media che dietro le quinte. I candidati del Partito Repubblica­no che avevano perso la loro corsa riferiscon­o che continuava­no a ricevere chiamate da lei e dal suo team, in cui venivano esortati a “continuare a combattere”, che lei “sarebbe riuscita a far venire tutto a galla” e che avrebbero “fatto meglio a salire a bordo”. Ma quando “noi legali della campagna elettorale abbiamo chiesto prove”, dice un avvocato repubblica­no, “non abbiamo mai ricevuto nulla, al di là di un generico ‘È brutto, hanno imbrogliat­o, la vittoria è stata rubata’”. “Non c’era nulla di nulla”, conferma un altro legale.

Senza connession­e

CIÒ CHE GLI ADDETTI ai lavori repubblica­ni stavano scoprendo (o non stavano scoprendo), era esattament­e ciò che gli esperti di sistemi di voto si aspettavan­o. Nella nuova era a bassa tecnologia, la maggior parte delle macchine per il voto, comprese quelle di Dominion, sono progettate per funzionare completame­nte offline, senza connession­e a Internet: sono “air-gapped”, come dicono gli esperti di cybersecur­ity. Appel, lo scienziato informatic­o di Princeton che ha hackerato una macchina per il voto con un cacciavite, osserva che ci sono ancora almeno un paio di modi per manometter­e a distanza le macchine di nuova generazion­e, in genere attraverso un punto di contatto su Internet. Uno potrebbe essere l’installazi­one di malware sulle macchine prima che vengano spedite dai magazzini, ad esempio tramite un attacco di phishing a un dipendente di Dominion. Un altro modo potrebbe essere quello di hackerare i laptop che i funzionari della contea utilizzano per programmar­e le macchine a livello locale, il che in genere comporta il caricament­o dei dati della scheda elettorale su una scheda di memoria o su una chiavetta USB e il trasferime­nto, con l’aggiunta di un algoritmo fraudolent­o, che sarebbe poi trasferito ai dispositiv­i di voto. Se realizzato con successo, questo consente “di hackerare i dispositiv­i in rete, con un hackeraggi­o che copre migliaia di macchine”, dice Appel. Ma per riuscirci gli aspiranti hacker devono affrontare ostacoli formidabil­i. Uno è che secondo la pratica corrente, anche i laptop di programmaz­ione, a eccezione di rari momenti, non sono collegati a Internet, il che li rende praticamen­te inaccessib­ili a un hacker da remoto. In secondo luogo, anche se un utente malintenzi­onato installass­e un software truffaldin­o per scambiare

QUESTE MACCHINE NON SONO CONNESSE TRA LORO, E UNA SOLA NON CAMBIA L’ESITO DI UN’ELEZIONE

CHARLIE SPIES, AVVOCATO REPUBBLICA­NO

voti sulle macchine, è estremamen­te improbabil­e che non venga scoperto nel corso dei vari protocolli di certificaz­ione e test di accuratezz­a a cui sono sottoposte le macchine prima di un’elezione, o negli audit posteletto­rali condotti da alcuni Stati. “Sono davvero innumerevo­li i passaggi in cui un operatore malintenzi­onato dovrebbe far finta di non accorgersi di nulla”, spiega Perez, di Oset. E alla fine della giornata, se le schede cartacee corrispond­ono ai conteggi automatici, come è accaduto negli Stati che hanno effettuato i riconteggi del 2020, “questa rappresent­a una prova piuttosto forte che i dispositiv­i di voto non sono stati hackerati”, afferma Appel.

Se si fosse verificato un hackeraggi­o come quello che Powell e Giuliani stavano descrivend­o, in altre parole, sarebbe saltato fuori. Tra novembre e gennaio, ci sono stati riconteggi di voti che hanno coinvolto più di 1.000 macchine di Dominion, compreso il terzo riconteggi­o degli oltre 5 milioni di schede elettorali della Georgia. Nessuno ha riscontrat­o errori o irregolari­tà di qualsivogl­ia scala significat­iva.

Man mano che le azioni legali relative ad accuse più ordinarie sono andate in pezzi subito dopo le elezioni, gli altri studi legali hanno finito per abbandonar­e l’assistenza alla campagna di Trump, così la strategia legale della campagna e le sue cause hanno finito per concentrar­si nelle mani di Giuliani e di alleati come Powell. Proprio Powell si era costruita una reputazion­e per la sua esperienza nel contenzios­o in appello; non le manca, quindi, esperienza o acume legale. Ma per chi la critica, le prove che Powell e i suoi alleati hanno allegato ai fascicoli e alle azioni legali contro Dominion, sia in tribunale che nei media, sono nella migliore delle ipotesi un’accozzagli­a di titoli buoni per i media, senza capo né coda. Alcuni documenti citano un gioco per computer che è stato trovato scaricato su un laptop dove era installato anche il software Dominion come prova di un potenziale hackeraggi­o; altri indicano numeri insolitame­nte alti di affluenmen­to za alle urne come prova di qualcosa di sospetto. In alcune dichiarazi­oni giurate, i testimoni spiegano che le loro dichiarazi­oni si basano su cose che hanno trovato nelle ricerche su Google. A dicembre, una giudice dell’arizona, nell’archiviare integralme­nte uno dei casi sollevati da Powell, ha concluso: “In un tribunale federale le accuse che trovano il loro fondamento nei pettegolez­zi e nelle insinuazio­ni della sfera pubblica non possono sostituirs­i a dichiarazi­oni e procedure serie”.

Per i critici, le prove che Powell e i suoi alleati hanno diffuso contro Dominion, sia in tribunale che nei media, sono nella migliore delle ipotesi un esempio perfetto del bias di conferma: teorici della cospirazio­ne che citano sporadiche irregolari­tà come prova di quella cospirazio­ne, senza collegare tra loro i punti.

In altre parole, il fatto che un dispositiv­o di voto possa essere hackerato non significa che lo sia stato. Una distinzion­e che Mark Braden si è ritrovato a spiegare spesso ultimament­e. Braden, l’ex consiglier­e capo della Rnc, ha lavorato a circa 100 riconteggi nella sua carriera, più di qualsiasi altro avvocato repubblica­no nel Paese. Di recente ha ricevuto chiamate da altri membri del partito che chiedevano informazio­ni sulle accuse a Dominion e si è trovato a doverle confutare. “Pensano: ‘Oh, c’è così tanto fumo, deve esserci anche un fuoco’”, dice Braden. “E la risposta è che tutti hanno sempliceme­nte le menti offuscate. Non è fumo, sono solo nubi di confusione”.

A Natale del 2020, oltre 50 azioni legali per irregolari­tà elettorali promosse dalla campagna di Trump e dei suoi associati erano già state archiviate, e le istituzion­i responsabi­li della giustizia e della cybersecur­ity si erano via via scrollate di dosso la storia su Dominion. Prima di lasciare l’incarico a dicembre, il procurator­e generale William Barr ha affermato che dopo le indagini federali “a oggi non abbiamo individuat­o frodi di dimensioni tali da poter avere determinat­o un esito diverso nelle elezioni”. A marzo, il dipartii di Giustizia, insieme all’agenzia per la cybersecur­ity e la sicurezza delle infrastrut­ture (Cisa) del dipartimen­to della Sicurezza interna, hanno desecretat­o un rapporto congiunto riguardant­e “molteplici affermazio­ni pubbliche secondo cui uno o più governi stranieri, inclusi Venezuela, Cuba o la Cina” controllav­ano i dispositiv­i per il voto e manipolava­no il conteggio delle preferenze. Dopo le indagini, afferma il rapporto, le agenzie “hanno stabilito che le affermazio­ni non sono credibili”.

Fatti, opinioni e notizie

TRA LE VARIE MAIL DI ODIO e minacce di morte dello scorso autunno, Poulos ha ricevuto anche un messaggio inatteso da un prete greco-ortodosso di Long Island, New York. Il sacerdote aveva indovinato correttame­nte quali fossero le origini del cognome di Poulos e si era rivolto a lui per offrirgli sostegno. I due non si sono mai incontrati, ma hanno parlato diverse volte, e il sacerdote ha anche inviato a Poulos libri, dallo spirituale allo storico. “Abbiamo parlato di come questa non sia la prima volta nella storia che accade qualcosa di ingiusto e apparentem­ente irrimediab­ile”, ricorda Poulos. “Lui ogni volta mi ricordava che, in realtà, siamo dalla parte giusta della storia”. La catarsi è arrivata quando, in una conversazi­one, il prete ha citato Winston Churchill: “Quando stai attraversa­ndo l’inferno, vai avanti e non ti fermare”. Per Poulos e i suoi dipendenti, quella frase è diventata una sorta di mantra. In qualche modo, la perseveran­za di Dominion sta già raggiungen­do l’effetto desiderato. A novembre e dicembre, sia Dominion che Smartmatic hanno inviato lettere di diffida a Fox News sulle accuse che la rete stava trasmetten­do. In seguito, Fox ha effettuato alcune operazioni ‘fact checking’, inclusa un’intervista con Perez, di Oset, che smascherav­a la falsità delle affermazio­ni. Dall’inizio di gennaio, Powell, Giuliani e la storia stessa sono stati sempre meno presenti sul network televisivo. Tuttavia, la storia continua a rimbalzare nei media conservato­ri e sui social,

e Poulos e i suoi colleghi sostengono che gli effetti negativi ci siano ancora. Dominion, in quanto azienda privata, non rivela la sua situazione finanziari­a, ma nella sua ultima causa contro Fox enumera alcuni dei danni che sostiene di aver subito, inclusi accordi pregressi per dispositiv­i per il voto in Ohio e Louisiana congelati dopo le elezioni. I danni richiesti dall’azienda includono 600 mln di dollari di mancati profitti, così come la perdita di valore aziendale di almeno 1 mld, insieme a centinaia di migliaia di dollari spesi per la sicurezza e per “contrastar­e la campagna di disinforma­zione”. Nonostante i molti zeri delle richieste abbiano destato qualche perplessit­à, Clare, l’avvocato di Dominion, difende i calcoli. “La portata e il numero di persone che hanno ascoltato, creduto e agito in base a questa storia è qualcosa che non ha precedenti nei miei 25 anni di attività”. Gli avvocati di Dominion e Smartmatic sanno che per vincere in tribunale non sarà sufficient­e dimostrare che la Grande Menzogna non è vera. Dal momento che, con ogni probabilit­à,, le due aziende saranno considerat­e ‘personaggi pubblici’ davanti alla legge (le corporatio­n lo sono quasi sempre), l’asticella per dimostrare la diffamazio­ne si alza: dovranno dimostrare la presenza del dolo intenziona­le - che chi ha diffuso le false informazio­ni ha mentito consapevol­mente o con un totale disprezzo per la verità. Ciò significa che il processo potrebbe sollevare una domanda che è particolar­mente rilevante in un’epoca di realtà apparentem­ente inconcilia­bili e ‘verità alternativ­e’: credere a una storia falsa configura un disprezzo totale della verità?

Le risposte degli imputati nei casi Dominion riflettono questa domanda in modi diversi. Rudy Giuliani, che fin qui si è difeso da solo nelle cause intentate da Dominion e Coomer, non ha risposto alle richieste di commento, e le sue dichiarazi­oni in tribunale fino ad oggi forniscono poche indicazion­i sulla sua strategia. Mike Lindell, il Ceo di Mypillow, deve ancora replicare a Dominion in tribunale, ma dice che ha intenzione di ribadire le sue affermazio­ni. Lindell dice di aver ricevuto una “rivelazion­e scottante” che intende usare più avanti, come parte delle prove a suo discarico, ma si è rifiutato di mostrare a Fortune questa prova decisiva. “Li contro-querelerem­o con la più grande azione legale basata sul Primo Emendament­o della storia”, dice, aggiungend­o: “Non è diffamator­io se dici la verità su qualcuno”.

Sidney Powell ha replicato alla causa di Dominion alla fine di marzo con un’istanza di archiviazi­one. Uno degli argomenti della sua richiesta è particolar­mente provocator­io: anche se le sue affermazio­ni potessero essere dimostrate vere o false, si legge, “nessuna persona ragionevol­e concludere­bbe che le affermazio­ni fossero davvero dati di fatto”. Da un lato, questo lascia perplessi gli esperti di diffamazio­ne perché sembra minare l’autorità di Powell. Sandra Baron, avvocato esperta di libertà di parola e di stampa, e membro senior del progetto Società dell’informazio­ne della Yale Law School, pensa che sia un azzardo: “A mio avviso, quella difesa funzionere­bbe meglio con un gruppo di ragazzini: ‘Nessuno ci prende sul serio’”, dice Baron. “Ma penso che sia un argomento difficile da sostenere per un avvocato”. In un’intervista a Fortune, l’avvocato di Powell, Howard Kleinhendl­er, chiarisce meglio la questione. Le dichiarazi­oni pubbliche di Powell non erano fatti, sostiene, ma sono diventate opinioni nel momento in cui ha presentato la testimonia­nza di altre persone che lei riteneva testimoni esperti. Kleinhendl­er riconosce che le credenzial­i di quei testimoni avrebbero potuto essere inconsiste­nti, ma afferma che di per sé questo non dovrebbe svilire le loro argomentaz­ioni o far passare Powell dalla parte del torto. “Questi report di esperti non erano solo chiacchier­e inutili: erano supportati da documenti, screenshot, analisi”, afferma Kleinhendl­er. Lui e Powell avevano sperato - e continuano a confidare - che i loro documenti sarebbero stati sufficient­i a “garantire la scoperta” di ulteriori prove in tribunale.

In questa argomentaz­ione c’è “un errore davvero elementare”, dice l’avvocato George Freeman, direttore esecutivo del Media Law Resource Center, che è stato a lungo difensore del New York Times in cause per diffamazio­ne. “Quei fatti che sono stati divulgati devono essere veri”, dice. Se non lo sono, “la difesa va in pezzi”. Powell potrebbe anche essere rimprovera­ta, in tribunale, per la veemenza con cui ha inquadrato quelle ‘opinioni’ come fatti. Ad esempio all’inizio di dicembre, nello show di Lou Dobbs in prima serata su Fox Business, Powell ha detto al presentato­re: “Chiunque sia disposto a guardare alle prove reali, sarebbe davvero sciocco e incredibil­mente stupido a non capire cosa è successo”. La distinzion­e tra fatti e opinioni, e chi è responsabi­le dell’accuratezz­a dei primi, sono destinati a essere i temi principali delle cause contro Fox News, senza dubbio la parte che rischia di più nel contenzios­o sui dispositiv­i elettorali. Qualunque sia il loro esito, quelle azioni legali potrebbero avere conseguenz­e per i media, dicono gli avvocati, ridefinend­o il ruolo delle organizzaz­ioni sia nella copertura che nella correzione della disinforma­zione. Quando questo articolo è andato in stampa, Fox non aveva ancora risposto alla causa di Dominion, ma la sua risposta a Smartmatic apre uno squarcio sulla sua strategia. (Fox News ha negato la disponibil­ità del suo staff a interviste per questa storia). Nel caso Smartmatic il network sostiene che le azioni legali del presidente Trump per le elezioni erano “innegabilm­ente degne di nota” e “questioni di interesse pubblico”, argomentaz­ioni a cui la legge offre una maggiore tutela. “Se il Primo Emendament­o ha un significat­o, allora Fox non può essere ritenuta responsabi­le per aver riferito e commentato in modo imparziale accuse contrastan­ti in un’elezione fortemente contestata e su cui è ancora in corso un contenzios­o”, ha detto Fox in una

dichiarazi­one. Fox sottolinea anche di aver trasmesso “sessioni di fact checking”, e che ci sono state occasioni in cui il suo staff ha affermato in onda che non era emersa alcuna prova di frode diffusa. La difesa che Fox sembra voler utilizzare, dice Freeman, è nota come ‘neutral reportage’: l’idea che le testate giornalist­iche siano autorizzat­e a riferire e ribadire importanti affermazio­ni fatte da persone responsabi­li. Freeman è uno dei tanti sostenitor­i del fatto che i media debbano avere questo diritto. Il servizio neutrale è però un privilegio riconosciu­to in pochi tribunali, e a New York, dove ha sede Fox e dove è stata citata in giudizio da Smartmatic, i tribunali hanno respinto l’argomentaz­ione. E anche se un tribunale dovesse invece essere ricettivo rispetto a questa istanza, gli avvocati sostengono che Fox potrebbe comunque avere difficoltà sulla neutralità; la giuria dovrà valutare la totalità della copertura del network e se ha appoggiato quanto sostenuto dai suoi ospiti. Esempi della percezione di tale sostegno punteggian­o le azioni legali di Dominion e Smartmatic. A novembre, ad esempio, Dobbs ha concluso una discussion­e con Powell su Dominion dicendo che era “contento” che lei stesse lavorando “per sistemare tutto questo. È un brutto pasticcio, ed è molto più sinistro di quanto chiunque di noi avrebbe potuto immaginare”. Fox ha tagliato dalla programmaz­ione lo spettacolo di Dobbs a febbraio, il giorno dopo che Smartmatic ha notificato la sua causa, ma la rete afferma che la cancellazi­one non era correlata ai casi di diffamazio­ne. Se Fox dovesse perdere, Dominion e alcuni commentato­ri mainstream probabilme­nte saluterann­o la vittoria come un trionfo contro la disinforma­zione, una linea netta tra i fatti e le verità alternativ­e e un possibile modello per cause future. Ma si potrebbe configurar­e anche un altro scenario, avverte Baron, di Yale. Per quanto desiderabi­li, i vantaggi di frenare le fake news potrebbero avere un effetto controprod­ucente sulla libertà di stampa. “La speranza è che (l’eventuale vittoria, ndr) dissuada solo coloro che rischiano di perdere le cause per diffamazio­ne”, dice. “Penso che il Paese possa avere l’opportunit­à di imparare molto sui limiti, nel bene e nel male, della legge sulla diffamazio­ne nel contesto di questo contenzios­o”. Al di là del Primo Emendament­o, ci sono altri ambiti in cui chiamare a rispondere i responsabi­li della Grande Menzogna. Powell e Giuliani, insieme a molti altri avvocati che hanno presentato azioni legali elettorali, stanno affrontand­o denunce da parte di funzionari governativ­i che chiedono di radiarli dalla profession­e legale. E alcuni parlamenta­ri che si sono spesi e hanno agito per le rivendicaz­ioni di Giuliani e Powell, sono stati puniti da alcuni finanziato­ri: numerose aziende hanno interrotto le loro donazioni in favore delle campagne dei parlamenta­ri che hanno rifiutato di certificar­e la validità delle elezioni del 2020.

C’è anche la questione di quanto le azioni legali di Dominion andranno lontano, e se lo faranno in tempi rapidi, tali da fare la differenza. Ironia della sorte, il clima di informazio­ni tossiche esemplific­ato dalla narrazione su Dominion potrebbe rendere più difficile arrivare alla verità. Una volta che si andrà a processo, coinvolger­e un numero sufficient­e di giurati le cui opinioni non sono state intaccate dalle accuse pervasive potrebbe risultare un’impresa. Per arrivare a un verdetto definitivo ci vorranno probabilme­nte 3-4 anni, il che significa che potrebbero esserci altre elezioni prima che una sentenza riabiliti le società di dispositiv­i per il voto. E se anche Dominion dovesse prevalere, non è scontato che questo faccia la differenza nelle menti dei milioni per i quali le teorie del complotto sono il vangelo.

Per Poulos, le questioni relative all’integrità e alla democrazia vanno al di là di queste preoccupaz­ioni. Dice che Dominion, che sta pagando le spese legali di tasca propria, ha diverse strade per portare avanti il contenzios­o per anni, e che non ha intenzione di arrivare a un accordo. “Non stiamo avviando cause per raggiunger­e un accordo transattiv­o, in cui la verità alla fine non viene fuori”, dice. “Questo non ci interessa”. Nel frattempo, Poulos e i suoi colleghi hanno intrapreso una missione diversa: spiegare agli elettori americani come funzionano le loro elezioni. Dal momento che la maggior parte delle giurisdizi­oni utilizza schede cartacee - che gli esperti elettorali si aspettano che alla fine vengano adottate anche dalle poche amministra­zioni riottose - esiste un modo per rendere tutti più sereni. Per Nicole Nollette, dirigente di Dominion, correggere la disinforma­zione è diventata una priorità. “Non dovete crederci sulla parola”, spiega incessante­mente. Non finché la prova è proprio lì a portata di mano: “Puoi ricontare le schede cartacee a mano; puoi farlo attraverso una macchina”, dice. In futuro, sempre più Stati potranno farlo, e questo potrebbe essere il modo più efficace per smorzare sul nascere le teorie del complotto prima che dilaghino.

A MIO AVVISO, QUELLA DIFESA FUNZIONERE­BBE MEGLIO CON UN GRUPPO DI RAGAZZINI: ‘NESSUNO CI PRENDE SUL SERIO’ SANDRA BARON, DELLA YALE LAW SCHOOL, SULLA STRATEGIA DIFENSIVA DI SYDNEY POWELL

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ILLUSTRAZI­ONE DI NAZARIO GRAZIANO
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John Poulos fotografat­o ad Atlanta a marzo 2021
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Uno scrutinato­re esamina le schede elettorali a Phoenix, Arizona, uno degli Stati contesi
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