I driver del successo
Dalla storia di Amazon al saluto del direttore di Fortune che lascia
La prima storia importante su Amazon pubblicata da Fortune risale al dicembre 1996. Il titolo di quel pezzo, ‘La prossima grande novità: una libreria?’, sembra bizzarro, guardandosi indietro. Amazon.com, come spiega l’articolo, stava “guidando un’ondata di negozi digitali alla conquista dell’industria tradizionale”, una massa di nuovi soggetti capaci di prendersi tutto, dall’editoria ai mercati finanziari fino al mercato pubblicitario inespugnabile delle Pagine gialle.
Amazon non aveva vetrine e neanche un costoso inventario da vendere e non acquistava un titolo da nessun editore o distributore prima che quel titolo fosse ordinato da un cliente. Jeff Bezos, un ex hedge founder che aveva lasciato il suo lavoro a Wall Street, si era trasferito a Seattle e stava raccogliendo il capitale necessario per lanciare la sua impresa per vendere libri online. “Stava spendendo le risorse della società per assumere programmatori che potessero rendere sempre più efficiente il suo servizio”, scrisse l’autore di Fortune Michael H. Martin. Bezos era determinato a fare in modo che gli utenti potessero avere qualsiasi libro fosse stato stampato e anche con forti sconti. Come ci ha detto dopo Bezos: “Molte imprese online falliscono perché sbagliano a stimare la value proposition”, ovvero l’offerta che riescono a rivolgere alla clientela. Bezos, chiaramente, non l’ha fatto. Sei anni dopo, nel 2002, Amazon è entrata nella Fortune 500, in sordina, al numero 492 con ‘soli’ 3 mld di ricavi. Nei sei anni successivi, l’azienda ha fatto un salto mai visto di 321 posizioni, al numero 171. Altri sei anni dopo, è diventata la 35esima per ricavi negli Stati Uniti. Oggi è al numero 2 nella Fortune 500, dietro soltanto a Walmart, con 386 mld di ricavi dalle vendite annuali. Sono arrivato a Fortune all’inizio del 2000, pochi anni dopo che Michael Martin aveva scritto di questa “prossima grande novità” nel business. La rivista - non c’era ancora il sito internet – era piena di storie sulla nuova scintillante internet economy. Importanti analisti della rudimentale industria delle dotcom parlavano della grande economia di scala che stava nascendo connettendo acquirenti e venditori via web e dei risparmi che derivavano dalla dismissione dei negozi fisici del vecchio commercio. Quello che spesso omettevano – e che Bezos capì fin dall’inizio – era che Internet offriva un analgesico e non una panacea: portò via alcuni dei problemi del commercio basato sui negozi ma non garantì il successo (si pensi alla distesa di tombe delle dotcom che sono state riempite da allora in poi). Quello che dava margine reale alle aziende, e che lo dà ancora oggi, è dare soddisfazione ai clienti. Sembra ovvio dirlo ma è ancora un messaggio che è sistematicamente dimenticato. Vuoi vendere più cose? Fai in modo che sia più facile acquistarle. Vuoi spingere la massa a spendere centinaia di dollari per il tuo rivoluzionario smartphone? Prendi una pagina dal manuale di Steve Jobs e rendila più intuitiva possibile da usare. Quando penso a cosa ho imparato del business dal mio arrivo a Fortune – e soprattutto negli ultimi quattro anni da direttore – arrivo a una semplice lezione: aiutare i clienti. Trattare bene le persone. Soddisfare i bisogni insoddisfatti. Rendere il mondo migliore. Se vuoi giudicare un business, dimentica il rapporto tra prezzi e ricavi e il tasso di crescita delle vendite. Ignora il 98% di quello che senti durante una call con gli analisti e chiedi semplicemente come l’azienda performa
nelle aree che ho appena indicato. Una parte di me avrebbe voluto dire cose più profonde nel mio ultimo editoriale. Sì, per dire le cose come stanno, lascerò questa gloriosa testata (Clifton Leaf ha lasciato il suo incarico il 16 giugno, ndr), dopo una carriera più felice e onorata di quanto avessi potuto pensare. Dire che ho amato questo posto e i miei colleghi è il più grande degli eufemismi. Il lavoro, talentuoso e dedicato, fatto da questi giornalisti splenderà ancora per decenni. Un lavoro, fatto di uno storytelling autorevole e intelligente, che è stato la missione di Fortune per gli ultimi 91 anni, durante la mia direzione così come durante quelle dei 18 direttori che mi hanno preceduto. È la nostra missione, e rende il business migliore. Questo mi porta alla seconda parte del mio arrivederci. Se penso a cosa siamo oggi come società, torno alla lezione di cui ho parlato sopra e mi chiedo come possiamo rendere il mondo migliore, soddisfare bisogni insoddisfatti e aiutare i clienti. La mia mente mi porta in un ambito in cui noi giornalisti di business ci muoviamo di rado: il governo. Il governo nella testa delle persone si confonde troppo facilmente con la politica e la politica non è mai stata in condizioni più difficili rispetto a oggi. Ma una audience di lettori interessata al business deve anche interessarsi a un aspetto cruciale del governo: come lo scegliamo. Durante le elezioni presidenziali dello scorso autunno, questa priorità – scegliere chi vogliamo che ci governi, che spenda i nostri soldi, che tenga accesa la luce e ci renda sicuri – è stata messa duramente alla prova. Fino a questo momento, 400 proposte di legge sono state introdotte in 47 Stati per mettere nuove restrizioni alle modalità di voto, riducendo l’accesso alle opzioni tradizionali come quello per posta o l’early voting, stando all’indipendente Brennan center for justice della New York University school of law. In 12 Stati queste proposte sono già state tradotte in legge. “Non c’è mai stato un tentativo così aggressivo di ridurre le possibilità di voto in America”, sostiene Wendy Weiser, che dirige il Democracy program del centro. L’intensità dello sforzo è giustificata con l’accusa infondata che il voto presidenziale sia stato in qualche modo ‘rubato’, nonostante ogni indagine abbia dimostrato il contrario. L’effetto principale, dice Weiser, è che sarà più difficile votare per decine di milioni di americani alle prossime elezioni. Molto meno evidente, dice ancora, l’ondata di assalti legislativi al funzionamento stesso delle ultime elezioni: i tentativi di usare la tecnologia per modernizzare il sistema di registrazione del voto, e renderlo più accurato, sono stati cancellati. “Nel mondo del business, nessuno accetterebbe un sistema in cui si dialoga con i clienti tramite pezzi di carta scritti a mano, che vanno controllati uno a uno e che richiedono migliaia di lavoratori per decifrarli, facendo inevitabilmente errori”, dice Wiser. “Non sarebbe mai accettato nel settore privato”. Anche se è proprio quello che succede in molti Stati. Gli elettori, ovviamente, sono i clienti del governo. Per questo i politici dovrebbero fare tutto quello che possono per rendere il voto più facile e non più gravoso. Molti business leader supportano questo obiettivo. Nel nostro sondaggio tra i Ceo della Fortune 500, l’81% è d’accordo con l’affermazione che “vada fatta qualsiasi cosa utile per rendere più facile il voto dei cittadini”. Jeffrey Sonnenfeld, senior associate dean of leadership studies e professor of leadership studies alla Yale school of management, evidenzia che ci sono buone ragioni per questo sostegno: “Perché il sistema della libera impresa duri, le persone devono sentirsi parte di quel sistema. Il sistema elettorale deve essere percepito come un sistema ancorato alla libera e leale competizione”. Lo stesso principio che deve funzionare in una economia di mercato forte.
Sembra banale da dire ma il messaggio è puntualmente trascurato: vuoi vendere di più? Rendi più facile possibile l’aquisto ai clienti