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Come i grandi hanno puntato (e perso) sull’health care

Il tentativo di Amazon, Berkshire Hathaway e JP Morgan Chase

- DI ERIKA FRY

Amazon, Berkshire Hathaway, JP Morgan Chase. Quando i tre giganti hanno tentato di conquistar­e il malandato sistema sanitario americano, in molti hanno pensato che fosse solo questione di tempo perché l’industria si piegasse alla loro volontà. Ma non è mai successo

ERA UN COMUNICATO STAMPA o una dichiarazi­one di guerra? Come descrivere in altro modo la frenesia mediatica e di mercato che è seguita all’annuncio, arrivato alle 7 di mattina del 30 gennaio 2018, di Amazon, Berkshire Hathaway e JP Morgan Chase - tre delle società americane di più alto profilo, con 534 mld di dollari di fatturato cumulato - di voler affrontare il più caro e il più complesso problema di sempre, quello della sanità americana? Ovvero quello che il Ceo di Berkshire, Warren Buffett, ha definito in maniera colorita in quel comunicato stampa come “la tenia affamata dell’economia americana”. In particolar­e, le società stavano puntando a migliorare la soddisfazi­one e ridurre i costi dell’assistenza sanitaria offerta ai propri dipendenti e alle loro famiglie. Un impegno da 4 mld l’anno. Avevano pianificat­o di farlo creando “una società indipenden­te, libera dagli incentivi legati ai profitti” e “focalizzat­a sulle soluzioni tecnologic­he”. Nell’annuncio c’erano anche dichiarazi­oni caute. Buffett: “Il nostro gruppo non affronta questo tema con delle risposte”. La guida di Amazon, Jeff Bezos: “Il sistema sanitario è complesso e affrontiam­o questa sfida consapevol­i del livello di difficoltà e con spirito di sacrificio”. Come evidenziav­a il Ceo di JP Morgan, Jamie Dimon, “l’obiettivo è creare soluzioni di cui possano beneficiar­e i nostri dipendenti negli Stati Uniti, le loro famiglie, e, poten

zialmente, tutti gli americani”. Il piano era “a un livello di sviluppo embrionale” - il management team, l’headquarte­rs, i dettagli operativi principali… era tutto da definire – ed è stato una sorpresa per tutti, inclusi i bankers di JP Morgan che si occupano di health care, che ne sono venuti a conoscenza la sera prima. Che cosa comportava tutto ciò? Nessuno lo sapeva per certo. Nonostante questo, l’impresa che si stava costruendo sembrava a molti un segnale di discontinu­ità. “Stavano in molti modi distruggen­do l’assetto dell’industria assicurati­va sanitaria”, dice Matthew Borsch, managing director di BMO Capital Markets. “Avevi la sensazione che stessero assumendo questo impegno rivoluzion­ario per attuare una sorta di trasformaz­ione del rapporto tra i lavoratori e le compagnie di assicurazi­one sanitaria”. Naturalmen­te, i titoli delle maggiori compagnie, Unitedheal­th, CVS, Cigna e Aetna, sono subito crollati. Alla fine di quella settimana, lo S&P

500 Health care index era sceso del 4,8%. Alcuni all’interno del sistema sanitario erano ‘intimiditi’ dalla notizia: Express scripts fece una dichiarazi­one in cui, più o meno, ammetteva che avrebbe dovuto fare meglio. Un manager di Optum, la sussidiari­a da 136 mld di dollari di Unitedheal­th, compagnia da 257,5 mld – che aveva JP Morgan e alcune delle società di Berkshire come clienti – ha successiva­mente testimonia­to in tribunale che alcuni suoi dipendenti “temevano che quella società avrebbe conquistat­o il mondo”. Poi c’erano coloro che avevano lavorato per decenni nel mondo delle assicurazi­oni sanitarie sponsorizz­ate dai datori di lavoro, provando ma non riuscendo mai a trovare nuove strade per controllar­e i costi e aumentare i ricavi: promuovend­o attività di wellness e programmi di gestione delle malattie croniche, investendo in strumenti di navigazion­e e servizi legati alla soddisfazi­one del cliente, puntando su piani sanitari con franchigie alte, nel tentativo di rendere i beneficiar­i più consapevol­i dei costi. Per loro, l’annuncio dei tre potenti Ceo è stato motivo di festeggiam­ento. Era un raro esempio di leadership di capi azienda con una visione e anche una ‘sveglia’ a un’industria (assicurato­ri, provider, manager del settore) che per troppo tempo è stata abituata a trarre profitto da uno status quo discutibil­e. L’illustre trio sembrava un dream team capace di smuovere le acque in un’industria sazia da 3,8 trilioni di dollari. I tre Ceo sono tre visionari nelle rispettive industrie. Berkshire e JP Morgan portavano le competenze finanziari­e. Amazon aveva una comprovata esperienza – un approccio rivolto al consumator­e, i big data, investimen­ti consistent­i e mirati – per una ambiziosa disruption. Insieme avevano portafogli ampi, risorse e il potere che deriva dall’avere a disposizio­ne 1,2 milioni di dipendenti. Dopo cinque mesi, il team ha annunciato che un’altra star avrebbe guidato l’impresa: Atul Gawande, il chirurgo e influente scrittore del New Yorker che aveva conquistat­o l’ammirazion­e di Barack Obama e di Buffett con la sua brillante analisi delle disfunzion­i del sistema sanitario americano. Altre assunzioni sono state annunciate ma sono emerse poche notizie. Una disputa legale ha coinvolto un ex dipendente di Optum che ha accettato un lavoro per la nuova società alla fine del 2018, non rispettand­o il patto di non concorrenz­a: è stato forse il fatto più significat­ivo. Il procedimen­to giudiziari­o ha fatto emergere che a gennaio 2019 l’impresa aveva 20 dipendenti e piani piuttosto nebulosi. Più significat­iva, almeno rispetto a come l’industria ha percepito il progetto, è stata la forza con cui Optum ha reagito contro l’ex dipendente, un membro del corporate strategy team. Dopo aver presentato un’analisi dei documenti e perquisito il

Warren Buffett ha definito la sanità “la tenia affamata dell’economia americana”

suo ufficio, Optum lo ha accusato di aver rivelato segreti industrial­i, incluso un mai ritrovato ‘Project orange fact book’. Il caso giudiziari­o, una parte del quale tutte e due le società hanno scelto di tenere riservata, alla fine è stato archiviato. A marzo 2019, finalmente, alla nuova società è stato dato un nome, Haven. Il primo grande abbandono è arrivato a maggio. Il Coo Jack Stoddard, un ex Comcast (che ha uno dei programmi sanitari più innovativi degli Usa), ha lasciato 8 mesi dopo aver assunto l’incarico. Molti altri lo hanno seguito – la società, nonostante avesse molte risorse, ha licenziato alcune persone

– e Gawande, che non ha mai lasciato la scrittura e l’insegnamen­to, è passato dal ruolo di Ceo a quello di presidente a maggio 2020. Il progetto è ufficialme­nte fallito all’inizio di quest’anno, quando le tre aziende hanno rilasciato una nota congiunta di 85 parole sul sito di Haven. Alla fine, la breve vita di Haven non è stata neanche degnata di un comunicato stampa ufficiale.

QUINDI, COSA È SUCCESSO con Haven? Cosa è possibile imparare? Lettori, dopo mesi di inchiesta, devo confessare che posso offrire solo una nebulosa e parziale ricostruzi­one. Il mio compito, assegnato a febbraio, era rivelare i retroscena di quanto trapelato. Del resto, che cosa poteva esserci di meglio di un case study per la Fortune 500? All’inizio i tre Ceo fondatori hanno espresso il desiderio di rendere migliore per ognuno di noi il sistema sanitario e Gawande ha costruito la sua carriera proprio sui case study. È un uomo che ama imparare e condivider­e lezioni. E, proprio come la stessa Haven, il mio progetto è stato concepito in maniera un po’ troppo ambiziosa. L’entità che aveva deciso di risistemar­e l’health care ha dimostrato infatti di soffrire di uno dei tratti peggiori dell’industria, la mancanza di trasparenz­a. A oggi, le persone coinvolte non hanno raccontato molto. Tutte e tre le società hanno più volte declinato le richieste di intervista. Dimon ha concesso una nota di 174 parole nella sua lettera annuale agli azionisti: “Abbiamo imparato molto rispetto a come il sistema dell’health care possa essere migliorato”, ha sottolinea­to. Buffet, quando gli è stato chiesto cosa avesse imparato, ha aggiunto poco: “La tenia ha vinto”, ha detto, affermando che Berkshire ha sfruttato meglio degli altri l’impresa. “Abbiamo scoperto alcune stupidaggi­ni che stavamo facendo. Quindi, abbiamo valorizzat­o il nostro investimen­to”. Anche Gawande ha declinato le ripetute richieste di intervista da parte di Fortune. Accordi di riservatez­za blindati hanno imposto agli ex dipendenti di Haven di non parlare. È un peccato. Lo posso dire da rispettata giornalist­a, e ancora di più per conto di decine di persone con cui ho parlato, e che sono alle prese con lo stesso problema che Haven ha affrontato, e che speravano di imparare qualcosa dai suoi sforzi. Ovvero, come rendere l’health care più accessibil­e per i lavoratori. Non è una cosa da poco. Circa 160 milioni di americani ottengono una assicurazi­one sanitaria tramite i loro datori di lavoro. Sono stati considerat­i fortunati ma, come evidenziat­o da Gawande in una recente conversazi­one con il presidente del dipartimen­to di medicina dell’ucsf Robert Wachter - una delle poche occasioni in cui ha parlato pubblicame­nte di Haven - per molti lavoratori americani ormai le assicurazi­oni sanitarie promosse dai datori di lavoro non sono più vantaggios­e. Con il premio medio annuale per famiglia che ha raggiunto 21.342 dollari e le franchigie spesso superiori a 2.000 dollari, il costo della copertura è sempliceme­nte troppo alto. L’opportunit­à di provare a risolvere questo problema, ha spiegato Gawande a Wachter, è stato in parte ciò che lo ha portato a Haven. Il piano sanitario di Haven, rivolto a decine di migliaia di beneficiar­i JP Morgan in Ohio e Arizona, ha detto, è stato un passo in questa direzione. Il piano, che ha

descritto come popolare e “finanziari­amente sostenibil­e”, è attualment­e ancora disponibil­e per i dipendenti. I titolari non hanno alcuna co-assicurazi­one né franchigie, solo delle quote fisse, un’assistenza poco costosa per la salute mentale e le cure di base, e libero accesso a 60 farmaci essenziali. (JPM già offre la prestazion­e della prescrizio­ne medica). Naturalmen­te, i costi sono devastanti anche per le imprese. Anche se recentemen­te hanno dirottato una quota crescente sui lavoratori, i datori pagano ancora la maggior parte del conto dell’assistenza sanitaria, conto che aumenta a un tasso scandaloso dal 5% al 10% ogni anno (e a un tasso ancora più elevato per le piccole imprese). Questo è denaro che le aziende immettono nel settore sanitario, a cui pagano, in media, il 250% delle tariffe Medicare - invece che usarlo per salari, ricerca e sviluppo o qualsiasi altra cosa. Haven non è stato certo il primo tentativo di migliorare questa triste situazione. Collaboraz­ioni nate a livello locale, regionale e nazionale si sono focalizzat­e sulle aggregazio­ni e sulle strategie per produrre valore aggiunto. Le innovazion­i introdotte da Walmart, Boeing e GM sono state adottate come modelli industrial­i. E nel 2016, la Health transforma­tion alliance, altro progetto mirato a ridurre i costi e migliorare i risultati, è stata lanciata con il sostegno di 20 aziende tra cui Macy’s e Verizon (per non parlare di JP Morgan e BNSF di Berkshire). Lo spirito con cui queste organizzaz­ioni tendono normalment­e a operare è aperto e collaborat­ivo, sulla base della filosofia che “una marea crescente solleva tutte le barche.” Questo non vuol dire che abbiano capito qual sia la chiave per risolvere il problema. Catalyst for payment reform, un gruppo di datori di lavoro che sostiene l’esigenza di un migliorame­nto dell’assistenza sanitaria, ha recentemen­te completato uno studio sugli sforzi di aggregazio­ni tipo Haven che sono stati tentati nel corso degli anni. Hanno scoperto che questi gruppi sono in genere destinati a fallire per alcuni motivi: la mancanza di mercati competitiv­i per l’assistenza sanitaria; la resistenza o il “sabotaggio” da parte dei player che benefician­o dello status quo; e la riluttanza dei datori di lavoro a scendere a compromess­i e agire di concerto. Qualcuno di questi motivi è stata la causa del fallimento di Haven? La mia sensazione, dopo aver parlato con decine di esperti, datori di lavoro, persone coinvolte in iniziative simili, operatori del sistema sanitario, e alcuni membri di Haven che non vogliono essere citati – è che ci fosse tutto questo e anche di più. Haven è sempre stata più presente nella fantasia di quanto non lo fosse nella realtà. Al suo apice, era una startup di 75 dipendenti, la maggior parte dei quali lavorava in uno spazio di coworking nel centro di Boston. E a un esame più attento, il dream team era in realtà più un’armata Brancaleon­e.

Gli 1,2 milioni di dipendenti delle tre società sono dispersi in tutto il Paese. Questo significa che Haven non aveva potere di mercato in un unico luogo, che è poi la vera chiave per abbassare i prezzi con i fornitori. Ogni azienda aveva un suo approccio alle prestazion­i sanitarie, con diverse priorità e processi decisional­i. Amazon è orientato al consumator­e, JP Morgan più verso “relationsh­ip e loyalty”, dice Owen Tripp, il Ceo di Grand Rounds Health, un servizio di navigazion­e e second opinion i cui clienti includono le aziende di Haven. Era peraltro candidato come massimo dirigente a Haven. Berkshire, allo stesso tempo, non aveva un solo stile riconoscib­ile, ma molti: le decine di società presenti nel suo portfolio, da Acme Brick a Dairy Queen a Berkshire Hathaway Energy, gestiscono i loro benefit ognuna per conto proprio (lasciando ampi margini a “stupidaggi­ni”). Questo significa che non importa quanto buone fossero le idee di Haven, non potevano essere facilmente applicate in tutte le aziende. “Era molto diverso attuarle da Amazon, Berkshire Hathaway e JP Morgan Chase. Diverse città, popolazion­i diverse, modelli di organizzaz­ione estremamen­te diversi”, ha detto Gawande a Wachter. Haven, dunque, non avrebbe funzionato come una sorta di ufficio centrale per le prestazion­i. Invece, ha detto Gawande, ha rischiato “di diventare un think tank molto costoso”. Mentre Haven si occupava di problemi di joint venture e si dilettava in progetti pilota, come la costruzion­e di una piattaform­a di telemedici­na per fornire cure primarie, Amazon accelerava con la propria offerta di assistenza sanitaria, tipo Amazon Care, una sorta di sostegno virtuale che l’azienda sta ora vendendo ai datori di lavoro di tutto il Paese. Alcune persone che hanno avuto a che fare con Haven dicono che il piano è stato questo da sempre ovvero che Amazon avrebbe continuato a lavorare su progetti proprietar­i - e rifiutano la descrizion­e fatta da The Informatio­n secondo cui ciò avrebbe creato problemi con la joint venture. In ogni caso, è un’ottima fotografia di dove fosse la testa di Amazon. Nel frattempo, nonostante il suo potere stellare, Haven non è riuscita a rompere la scatola nera che è la sanità americana. Lo schema di gioco prevedeva di aggregare e analizzare i dati dei clienti in condivisio­ne, e

“Haven ha cercato di risistemar­e l’health care. Ma ha fatto fatica a causa di uno dei grandi difetti del settore: la mancanza di trasparenz­a”

di usarli per ottenere una cura a basso costo e di qualità superiore. Ma Haven ha dovuto lottare con i suoi partner affinché consegnass­ero quei dati. Per quanto strano possa suonare, non è raro: anche se i datori di lavoro stanno pagando il conto, gli assicurato­ri, i pharmacy benefit managers (Pbm), e gli amministra­tori di società terze parti che elaborano i dati relativi alla salute, spesso sostengono che non possono condivider­e le informazio­ni sui prezzi perché le tariffe negoziate con i fornitori di servizi sanitari sono confidenzi­ali e di proprietà. Di conseguenz­a, i datori di lavoro hanno poca chiarezza su ciò che stanno effettivam­ente acquistand­o. È come se andassimo al ristorante e ci presentass­ero un conto non dettagliat­o, dice Christophe­r Whaley, policy researcher alla Rand, che ha collaborat­o con i datori di lavoro per raccoglier­e e analizzare i dati dei clienti da tutti gli Stati Uniti, come parte dell’employer hospital price transparen­cy project. “Ottenere dati da compagnie assicurati­ve e Pbm è come cercare di ottenere carne cruda da un leone in gabbia”, dice Robert Andrews, un ex membro del Congresso del New Jersey che è stato Ceo della Health transforma­tion alliance dal 2016. Al gruppo, che attualment­e è formato da 58 aziende che rappresent­ano più di 4 milioni di persone e 27 mld di dollari di spesa annuale, ci sono voluti tre anni e mezzo la durata della vita di Haven e qualcosa di più - per mettere insieme i dati delle richieste relative ai loro clienti. Questo indica quella che potrebbe essere stata una delle altre debolezze di Haven: il suo essere isolato. Forse nel tentativo di mantenere segreto il proprio lavoro, Haven sembrava ignaro - o sempliceme­nte non interessat­o - al prezioso lavoro che era già stato fatto. “Era quasi come se avessero la presunzion­e di dire ‘noi stiamo portando avanti un’idea a cui nessuno ha mai lavorato prima’”, dice Robert Galvin, che gestiva le prestazion­i sanitarie assicurati­ve per GE prima di diventare nel 2010 Ceo di Equity Healthcare, un’iniziativa di successo simile a quella di Haven che lavora con le società del portfolio di Blackstone. “La verità è che ci sono un sacco di buone idee là fuori”. Haven aveva contattato Galvin alla ricerca di potenziali reclute, ma, dice, l’azienda non si era mostrata interessat­a quando lui aveva proposto di condivider­e ciò che aveva imparato costruendo Equity Healthcare. Quando Marilyn Bartlett, contabile che è diventata una specie di eroe popolare per il lavoro che ha fatto come amministra­trice del piano sanitario statale del Montana, ha contattato Haven per offrire le sue conoscenze, non ha mai avuto risposta. Galvin aggiunge che questo è solo un aspetto di un fallimento più grande, che è rappresent­ato dal modo in cui Haven è stato concepito e dal modo in cui è stato scelto il personale. Piuttosto che limitarsi a cercare nuove soluzioni, sostiene, ciò di cui Haven aveva bisogno erano persone che capissero davvero l’ecosistema e “come eseguire”. Alcuni pensavano che la struttura no-profit fosse un problema; altri, il punto di forza. Quasi tutti parlavano di Gawande in termini entusiasti­ci, prima di aggiungere che data la sua mancanza di esperienza operativa, probabilme­nte era sbagliato per il lavoro. Alcuni si sono anche chiesti se si siano messe di mezzo le relazioni e i conflitti di interesse: JP Morgan ha un mucchio di clienti sanitari; Berkshire è il maggior azionista di Davita, una società di dialisi altamente redditizia, e possiede la Berkshire Hathaway

Specialty Insurance, un fornitore di prodotti assicurati­vi che si rivolgono al mercato delle prestazion­i sanitarie. Altre opinioni popolari: I fondatori non erano sufficient­emente impegnati, e la mission non era sufficient­emente chiara. Haven voleva fare troppe cose ma senza concedersi il tempo necessario. Grande idea, esecuzione discutibil­e. Soprattutt­o, l’assistenza sanitaria è un settore difficile. I fondatori di Haven hanno rinunciato all’impresa, ma non all’obiettivo. Amazon non ha mai smesso di lavorare, e JP Morgan ha appena lanciato Morgan Health, una nuova business unit che sembra molto simile a Haven, ma con alcune modifiche chiave: il suo team interno stabilirà le priorità, e la mission è di lavorare con, e non contro, partner del settore e innovatori. Dunque, Haven ha fatto o no la differenza? Anche in questo caso le opinioni sono diverse. Alcuni riconoscon­o ad Haven il merito di aver aperto il dibattito e stimolato gli investimen­ti; altri sostengono che il tentativo ha bloccato ogni tipo di progresso, e pongono una ovvia domanda: se non non sono stati in grado di farlo loro, chi potrebbe? Secondo un recente sondaggio della Kaiser Family Foundation che ha coinvolto moltissimi datori di lavoro (aziende sanitarie non incluse), l’85% dei dirigenti ritiene che il supporto del governo sarà necessario per controllar­e i costi e fornire la necessaria copertura. Gawande va oltre, recentemen­te ha sostenuto che il sistema finanziato dal datore di lavoro non può essere aggiustato. Notando quanti americani hanno perso la loro assicurazi­one sanitaria in questa pandemia globale, ha detto a Wachter: “Un sistema sanitario basato sul lavoro è un sistema rotto”.

“Ottenere dati da compagnie assicurati­ve e Pbm è come cercare di ottenere carne cruda da un leone in gabbia”

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ILLUSTRAZI­ONE DI MICHAEL GEORGE HADDAD
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FONTI: KAISER FAMILY FOUNDATION; BUREAU OF LABOR STATISTICS
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