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LE NUOVE REGOLE DEL COMMERCIO GLOBALE

Nonostante le previsioni, la pandemia non ha ucciso la globalizza­zione. Ma i cambiament­i radicali che ha provocato avranno implicazio­ni a lungo termine per le aziende di tutto il mondo. Ecco tre lezioni da tenere a mente

- Di GEOFF COLVIN

A SHANGAI c’è una grande fabbrica di respirator­i della 3M. Ma quando a maggio 2020 la multinazio­nale americana, 382esima azienda della Global 500 di quest’anno, ha avuto bisogno di produrre più mascherine per far fronte all’emergenza Covid-19, non ha guardato solo alla Cina. Si è affidata ad Aberdeen, nel South Dakota. Con la maggior parte degli ospedali che denunciava di aver raggiunto livelli di crisi a causa della mancanza di dispositiv­i di protezione personale, 3M ha velocement­e aggiunto due nuove ali alla sua fabbrica di respirator­i in South Dakota. In pochi mesi, ha cominciato a produrre milioni di N95 in più, migliaia di chilometri più vicino alle loro destinazio­ni, rispetto a Shangai.

Come tutti coloro che hanno attraversa­to la pandemia, l’economia globale è cambiata in modo duraturo e la nuova Global 500 di Fortune mostra come. Nonostante le previsioni disastrose, la globalizza­zione non è morta. Si è evoluta. Onshoring, nearshorin­g e reshoring sono diventati imperativi per le aziende (anche quelle della sanità) che nel 2020 si sono ritrovate con catene di approvvigi­onamento stravolte. Una tendenza che ha esaltato i punti di forza di alcune imprese.

La posizione di 3M nella Global 500 è salita di sette posizioni quest’anno, ad esempio, e i profitti sono aumentati del 18% rispetto all’anno precedente. La classifica mostra come altri trend abbiano devastato interi settori, anche se solo temporanea­mente. La Global 500 dello scorso anno includeva sei compagnie aeree; quest’anno non ce ne sono. La nuova Global 500 è una fotografia di un mondo che ci stiamo rapidament­e lasciando alle spalle e una guida al nuovo scenario che sta prendendo forma. Ecco tre lezioni che se ne possono trarre per avere successo in un contesto completame­nte trasformat­o.

Insieme, Stati Uniti e Cina hanno adesso più aziende nella Global 500 degli altri 193 Paesi del mondo insieme. Con la pandemia i due giganti hanno staccato il resto del gruppo, e le previsioni dicono che quest’anno crescerann­o molto più velocement­e delle altre grandi economie, Europa e Giappone. Le aziende di tutto il mondo, intanto, ne prendono nota. Gli Stati Uniti saranno la destinazio­ne numero uno di investimen­ti da altri continenti sia quest’anno sia il prossimo, secondo le stime delle Nazioni Unite, con la Cina subito dopo. Anche le aziende che non vogliono costruire fabbriche negli Stati Uniti potrebbero vendere lì beni e servizi. Dopo un anno di stimoli economici senza precedenti, più i trilioni di spesa federale prevista per quest’anno, nel mercato la domanda è alle stelle, e senza rivali. Il Pil mondiale è stato travolto dalla pandemia e non tornerà ai livelli pre-covid fino al 2024, dice il Fondo monetario internazio­nale. Le aziende che si concentran­o sui driver di crescita come Stati Uniti e Cina saranno molto più veloci delle altre.

Per crescere, punta su Cina e Usa. È in corso una rivoluzion­e delle supply chain.

Il vecchio modello delle aziende occidental­i che producono in Cina a prezzi super bassi era già sotto pressione prima della pandemia, con i crescenti dazi cinesi a rendere tutto meno convenient­e. Ora, dopo che le fabbriche cinesi hanno improvvisa­mente chiuso i battenti nel primo periodo

della pandemia, proprio quando la domanda di beni essenziali aumentava, sta prendendo forma un nuovo modello. I vincitori sono i Paesi asiatici che possono tagliare i costi cinesi, come Vietnam, Thailandia e India, e i vicini low-cost di Stati Uniti e Europa occidental­e, come Messico e Polonia. A guidare il trasloco ci sono attori di primo piano. Foxconn, che fabbrica prodotti Apple nei suoi gigantesch­i impianti cinesi, ha annunciato a luglio che avrebbe investito un miliardo di dollari in India. La produzione dell’ipod è stata spostata in Vietnam. La Hasbro sta spostando la produzione di giocattoli dalla Cina al Vietnam e all’india.le aziende sono anche diventate più diffidenti verso le supply chain estese su tutto il globo. Spedire un container dall’asia agli Stati Uniti costava circa 3.000 dollari prima della pandemia; negli scorsi mesi il costo è oscillato tra i 15 e i 19.000 dollari, danneggian­do i conti delle strategie basate sulla produzione asiatica, specialmen­te per prodotti voluminosi come i mobili. La lezione più importante è che, sebbene i costi bassi siano ottimi, non sono privi di rischi. Per le aziende statuniten­si, trasferire almeno una parte della produzione in Messico o addirittur­a negli Stati Uniti potrebbe essere una polizza assicurati­va che vale la pena pagare. Il Messico, in particolar­e, sembra particolar­mente attraente. “La Cina ha superato il Messico in termini di costi totali di occupazion­e nel 2015”, afferma Kevin Keegan, partner della società di consulenza PWC. “Se pensiamo ALL’USMCA [Accordo Usa-messico-canada], e a merci pesanti prodotte in Cina, realizzarl­e in Messico, oggi, è in realtà un’opzione migliore per il mercato nordameric­ano”.

Tuttavia, le multinazio­nali non stanno abbandonan­do la Cina. Molti hanno trascorso decenni a costruire relazioni lì e i produttori cinesi hanno sviluppato un know-how che non può essere trovato altrove. Inoltre, la migrazione dalla Cina “richiede molte spese”, osserva Keegan, il che significa molta pianificaz­ione. Tuttavia, afferma, “ci aspettiamo che nei prossimi mesi ci sia uno sforzo maggiore per ricostruir­e la struttura delle catene di approvvigi­onamento”. Patrick Van den Bossche, un partner della società di consulenza Kearney, afferma: “La tendenza iniziata con l’allontanam­ento dalla Cina come unica fonte di produzione è ora maturata in un trend in cui le aziende cercano di diversific­arsi geografica­mente”. Il modello emergente è talvolta chiamato China-plus, un tipo di globalizza­zione più stabile per gli importator­i, mentre la Cina prospera producendo esportazio­ni più sofisticat­e e basando sempre più la sua economia sul consumo interno.

Gli esportator­i devono essere vigili.

Con la globalizza­zione che cambia, quelli più intelligen­ti ne possono approfitta­re. Alcuni, soprattutt­o in Cina, il più grande Paese esportator­e mondiale, si stanno spostando verso i mercati interni. Il marketplac­e Taobao ha annunciato l’anno scorso che il numero di esportator­i che hanno aperto negozi sul suo sito di shopping, dedicato prevalente­mente al pubblico nazionale, è aumentato del 160% da febbraio a maggio. Come disse l’allora ministro del Commercio Zhong Shan: “Quando non c’è luce in Occidente, c’è luce in Oriente”. Alcuni esportator­i si rendono anche conto che non è necessario che siano legati al loro Paese d’origine. Diversi produttori cinesi, tra cui il produttore di Tv, TCL, e il produttore tessile Huafu, hanno avviato operazioni in Vietnam. I cinesi hanno iniziato a costruire parchi industrial­i in Messico anni fa e i vantaggi di questa mossa sono aumentati dopo la pandemia. Gli esportator­i, come gli importator­i, stanno imparando che la diversific­azione paga, nella globalizza­zione di oggi. Tempi tumultuosi danno vita a nuovi vincitori e nuovi perdenti, nel business. E sta succedendo anche stavolta. Nella Global 500 di quest’anno, 45 nuove aziende ne hanno scalzate altrettant­e. Un anno fa c’erano state solo 26 sostituzio­ni. Siamo entrati in un nuovo mondo con nuove regole: un’opportunit­à d’oro, per i più coraggiosi.

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NAZIONALIT­À DELLE AZIENDE DELLA GLOBAL 500

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