Crisi senza fine
Il caso Whirlpool, ancora senza soluzione, è la fotografia di quello che non funziona nella politica industriale
ALL’APPELLO MANCANO solo il presidente della Repubblica e il Pontefice. Hanno parlato in tanti, forse in troppi, e pochi si sono realmente esposti per fermare i licenziamenti degli operai della Whirlpool di Napoli, forse la crisi industriale più sanguinosa del Meridione, tra i tanti tavoli aperti e i lavoratori in bilico. È stato scongiurato, per ora, il licenziamento collettivo che era previsto il 29 settembre per 350 dipendenti della sede della multinazionale americana degli elettrodomestici che si trova a Napoli Est, crocevia di aziende in decadenza e aree degradate. La multinazionale ha accettato di prorogare la scadenza della procedura a metà ottobre, per portare avanti una serie di incontri su un nuovo piano, anche grazie all’intervento del Consorzio per la reindustrializzazione di Napoli. Si è arrivati a questo punto dopo una sequenza di appelli, autostrade bloccate, iniziative al porto di Napoli, striscioni sui monumenti, la voce degli operai in tv, infiniti e inutili tavoli tecnici al Mise e la sfilata di politici, ministri, associazioni di categoria, sindacati che non sono finora riusciti a invertire la rotta. Ovvero, costringere la multinazionale del bianco a tener fede ai patti siglati, all’accordo quadro sottoscritto il 25 ottobre 2018 (al Mise c’era l’attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio) con Confindustria e sindacati, con l’impegno a investire 18 mln di euro per il rilancio di Napoli, produzione di lavatrici di alta gamma, ottenendo in cambio la cassa integrazione per tutta la forza lavoro di Whirlpool in Italia (circa 5500 dipendenti), assieme a un robusto pacchetto di agevolazioni fiscali e sostegni per il piano industriale. Una boccata d’ossigeno per la sede napoletana, fondata nel 1949 con il
nome di Serit, poi divenuta Siri, e quindi Ignis. Napoli era il baricentro anche della sigla del Piano industriale 2015-2018 per il percorso di integrazione tra Whirlpool Europe e Indesit Company Spa, con la ridefinizione di un nuovo assetto industriale e commerciale. Obiettivo, diventare il primo polo in Europa. Una volta fallita la mission, l’incredibile marcia indietro a sette mesi dall’accordo quadro. Motivazione ufficiale, il drastico crollo nella domanda di Omnia, il modello di lavatrici prodotto a Napoli. Così è iniziata l’odissea dei dipendenti, tra la cassa integrazione, la paura della perdita del posto di lavoro e infine il passaggio nella pandemia Covid. La storia di persone colpite nei loro diritti, private di certezze e una rivendicazione che diventa logorio quotidiano. Una fetta dei dipendenti, intorno alle 100 unità, ha scelto l’uscita concessa dall’azienda (circa 80 mila euro). Altri si sono ricollocati, qualcuno all’estero, una fetta abbondante è senza impiego. Dopo due anni di promesse, senza che i governi che si sono succeduti siano riusciti a imporre a Whirlpool il rispetto dell’accordo di tre anni, le speranze si sono rivolte al decreto delocalizzazioni del governo Draghi - una “norma complessa, che deve essere efficace e realistica” secondo il premier – che non vedrà più la luce, almeno nella sua forma originaria. “La cassa integrazione durante la pandemia ha prolungato l’agonia, siamo nella fase decisiva, non accettiamo che il nostro destino sia già scritto, è un nostro diritto chiedere per noi un piano occupazionale serio”, spiega Vincenzo Accurso, uno degli operai di Whirlpool, 43 anni, da 16 in catena di montaggio, due figli. Whirlpool nei mesi scorsi ha rifiutato anche la proposta della Regione Campania, un contributo da 20 mln di euro (con sette anni di sgravi fiscali per la formazione degli operai) per non spegnere gli impianti nella sede napoletana. In sostanza, ha rifiutato tutto, eppure il lavoro non manca, la pandemia ha accelerato la richiesta di lavatrici di alta gamma: secondo dati forniti dalla stessa Whirlpool, la multinazionale ha fatto segnare +32% delle vendite nel secondo trimestre del 2021 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. “L’accordo va rispettato, Whirlpool ha ottenuto benefici, se il governo non ottiene nulla ci sarà un effetto traino e molte aziende potranno pensare di poter stringere accordi, ottenere vantaggi fiscali e poi delocalizzare all’estero, senza conseguenze. È un segnale assai pericoloso, serve una politica industriale, una visione”, aggiunge Antonio Accurso, segretario generale aggiunto di Uilm Campania. Il caso Whirlpool è quello più significativo, ma non l’unico, in Campania e al Sud. A pochi chilometri dalla zona est di Napoli, a Marcianise, c’è Jabil, società americana che produce componenti e circuiti elettronici. Nel 2015 l’acquisto dello stabilimento di Ericsson, 400 dipendenti che si uniscono alla forza lavoro di un altro stabilimento campano, ex Marconi ed ex Nokia Siemens. Anche qui, dopo poco, inizia lo smistamento, per mancanza di commesse: erano circa 700, ora, dopo una lunga vertenza, sono in 480 e a giugno hanno ottenuto il prolungamento della cassa integrazione fino al 31 dicembre 2021. Una parte, circa 200, sono finiti alla vicina Softlab che lavora al 30-40% delle potenzialità, un’altra a Orefice Generators (generatori elettrici), che dalla multinazionale americana ha ottenuto fondi per due milioni di euro (80 mila euro per ognuno dei 23 dipendenti). Ora Orefice ha comunicato di voler chiudere l’impianto campano (a Caivano) e di voler trasferire i 23 dipendenti ex Jabil al sito produttivo di Sestu (Cagliari). “Ho ricevuto la lettera di licenziamento da Jabil a marzo 2020, a inizio lockdown e con mia moglie incinta e che lavora part-time”, racconta Giuseppe
Cerrone, 36 anni, dal 2008 in Jabil. “Molti miei colleghi monoreddito non riescono ad andare avanti, la disperazione purtroppo prevale. Ma la mia dignità lavorativa non deve essere toccata, con Jabil andrò fino in fondo, non accetto altre formule o trasferimenti in aziende senza prospettive. Sono anche pronto ad andare a lavorare da solo all’estero”.