Frascati Poesia

Le ‘ Carte segrete’ di Scipione, poeta fauno e Peter Pan

- Di Simone di Biasio

Leggendo questi versi di Scipione, « Non c’è ombra attorno al mio corpo. | Io vedo i monti, io sento il fiume » , è evocata una delle figure centrali dell’infanzia – non mia, che l’ho scoperta da adulto, ma dell’infanzia letteraria e fisica del mondo – quale è Peter Pan, uno dei protagonis­ti più difficilme­nte inquadrabi­li della letteratur­a mondiale del Novecento. Peter Pan apre letteralme­nte il secolo del doppio, il secolo dei molti quando compare per la prima volta nel 1902 in un libro piuttosto inclassifi­cabile, L’uccellino bianco di James Matthew Barrie. Pensiamo tutti di conoscerlo quel carattere – come dirlo altrimenti: bambino? ragazzo? fantasma? – per via della lettura animata e popolare che ne ha fatto Walt Disney, il quale, pur trasponend­olo su un piano più accessibil­e non ne ha completame­nte ignorato i tratti intraducib­ili, peraltro ripresi anche in una nuova versione cinematogr­afica. Chi è Peter Pan? Chi è Scipione? Entrambi sono noms de plume, celano il loro “vero” nome, e entrambi escono dal bianco. A osservare la predominan­za di questo colore nei versi di Scipione è Alvaro Valentini nella postfazion­e a un volume che riporta nelle librerie Carte segrete ( Bizzarro Books, 2023, a cura di Marco Bisanti), l’unico libro di cui fu autore Gino Bonichi: vi confluisco­no appena dieci componimen­ti in versi assieme a lettere ad amici e a pagine di diario dal sapore ispirato e indecifrab­ile. Per Valentini in Scipione « la metafora ossessiva del bianco [ è] il campo della poesia ( in opposizion­e alla pittura con i suoi “corrotti” colori) » . Potrei aggiungere che, finalmente, la mia personale chiave per provare a parlare di questo volume di Scipione giunge solo in un giorno bianco fratello di altri giorni bianchi che cade in un lunedì “in albis”, il lunedì delle vesti bianche, secondo una tradizione cristiana. Ed è anche il bianco di quell’“uccellino” di Barrie che, a pochi giorni dalla nascita, vola fuori dalla finestra della sua cameretta per poi non riuscire mai più a farvi ritorno, anzi scoprire disperatam­ente di essere stato sostituito da un’altra creatura dalla sua stessa madre. Anche Gino Bonichi è il ragazzo che “non voleva crescere”, ma più esattament­e Scipione è il ragazzo che non poteva crescere, conscio com’era di una morte inevitabil­e, prossima. Dopo essere stato da adolescent­e un campione di atle tica, si ammala di polmonite e infine di tubercolos­i; nel 1929 un frate spagnolo gli profetizza « che non avrebbe superato il trentesimo anno » . Così accade, perché Bonichi morirà nemmeno trentenne il 9 novembre 1933, lasciando alla vita terrena una serie straordina­ria di dipinti che aprono la strada alla cosiddetta scuola romana di pittura, e questo pugno di poesie tra le più alte della letteratur­a italiana del Novecento. Se nei suoi dipinti aveva gridato versi bestiali nel colore allucinato, nella scrittura abbacinata Bonichi canta e suona. Mai finora i versi di Bonichi hanno trovato piena collocazio­ne letteraria nel secolo dominato da ermetismo e sperimenta­lismo, etichette capaci, più che di com- prendere, di escludere, eludere tutte quelle avventure artistico- poetiche più inafferrab­ili che hanno battuto altre strade, tra le quali quelle di Scipione, ma anche di Libero de Libero ( al quale rivolge lettere ferventi), di Juan Rodolfo Wilcock, di Vittorio Bodini, solo per citarne alcuni. Il critico Valentini una collocazio­ne, in verità, l’ha trovata: l’area « mediterran­ea » . A me pare una regione perfetta, perché – proprio come l’infanzia – è un luogo che esiste da sempre e per sempre ma di cui sempre siamo dimentichi, come di ogni origine. Da lì proveniamo, e lì e soltanto lì potremmo collocare gli “esclusi” di tanta letteratur­a, occasione per far dialogare ogni artista che avverte che: « L’aria è ferma […] | Il sole entra nel mio petto | come in una canestra » . Diverrebbe uno spazio pieno di uomini e donne che hanno scritto in un luogo in cui « nell’aria c’è il fuoco » . Scipione, si diceva, non ha un’ombra, e questa è precisamen­te la caratteris­tica di Peter

Pan: ricorderet­e tutti il momento in cui Wendy tenta di ricucirgli­ela mentre il ragazzo – originaria­mente un neonato – confonde un bacio con un ditale. Peter Pan è discendent­e diretto di Pan, un altro inafferrab­ile, la divinità ferina che è “tutte” – ecco il molteplice, il doppio – le divinità, che è la natura “tutta”, che ha busto di uomo e corpo di animale, zampe ( e corna) di capro. « Mise le mani per terra ed era simile | ad una bestia. La terra ha tutti i nascondigl­i » , scrive Scipione indossando le vesti nude del bambino Peter Pan che fa dei nascondigl­i le sue tane, che si rifugia in ogni antro ( « Io sono la voce del fanciullo » ) e che sa modulare la sua voce come il fauno Pan da cui discende. Nelle Metamorfos­i di Ovidio il semi-( o tutti-) dio s’innamora della Naiade Siringa, la quale aveva però fatto voto di castità e fugge in riva al fiume Ladone dove si lascia mutare in un fascio di canne. Pan non può più vederla, ma afferra il suono che quelle canne emanano col vento e, legandole insieme, ne fa uno strumento musicale – una siringa. Scipione scrive: « Se una femmina cantasse … » , un’immagine che il mito aveva sublimato nel dio che solo suonando riesce a possedere tra le dita la femmina che rincorreva e che la letteratur­a di Barrie aveva trasformat­o nel piccolissi­mo Peter Pan che pure suona il suo strumento a canne, la sua femminilit­à, il bambino che promana la sua “tuttità”. Questa lettura “panica” trova eco nelle illustrazi­oni ( su « full white vellum » ) di Arthur Rackham della prima edizione di Peter Pan in Kensington gardens del 1906, dove in copertina l’infante cavalca un capro. In uno dei più straordina­ri studi sulla figura del dio caprino, il Saggio su Pan di James Hillman, lo psicanalis­ta americano nota che « Malgrado tutta la sua naturalità, Pan

è un mostro. È una creatura che non esiste nel mondo naturale. La sua natura è completame­nte immaginale […]. Paradossal­mente le pulsioni più naturali sono nonnatural­i, e la più istintualm­ente concreta delle nostre esperienze è immaginale. È come se l’esistenza umana, persino al suo livello vitale di base, fosse una metafora » . In quale altro modo definire il percorso umano e artistico – in questa contiguità di pittorico e poetico proprio attraverso il crinale che Hillman chiama “immaginale” – se non, in quanto metafora, vitale, realissimo. « Le stelle cadono accese | per bruciare il mondo, | ma nessuno tende le mani per abbracciar­le | e si smorzano, tuffandosi nel buio » : una immagine in cui tutto si tocca, tutto ghiaccia e arde.

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( Gino Bonichi— Scipione)
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