Alda Merini: la donna, il poeta
Sono nata il ventuno a primavera
Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe, sui grossi frumenti gentili e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera. In questa poesia, pubblicata in “Vuoto d’amore” all’inizio degli anni Novanta, è evidente quella che può essere considerata una caratteristica della poesia di Alda Merini: la compresenza di contrari e contrasti. Già nei primi quattro versi, la sua nascita, nel primo giorno di Primavera, apre le zolle, ma al tempo stesso porta follia e tempesta. Nella seconda parte il mito di Proserpina, nome latinizzato della dea greca Persefone, racchiude in sé la poetica dei contrari, in quanto rappresenta sì la Primavera, la vita che rifiorisce, ma è anche la dea degli Inferi. Secondo il mito la bella Persefone fu rapita da Ade che la volle al suo fianco nel Regno dei Morti, ma la madre Demetra, dea dell’agricoltura e del raccolto, per il gran dolore non riuscì ad adempiere al suo compito tanto che fame e morte piovvero sulla terra. Zeus fu allora costretto a trovare una soluzione che accontentasse sia Ade che Demetra: Persefone avrebbe trascorso sei mesi ( o un terzo dell’anno, secondo un’altra versione del mito) negli Inferi, e il rimanente sulla terra, arrivando proprio il 21 marzo ad “aprire le zolle” e portare nuova vita. Questa poesia venne interpretata da Milva e da altre voci sulle note scritte da Fabrizio De André, morto nel 1999, al quale Alda dedicò i seguenti versi:
Ci sono rose come la tua voce che sfiorano il mattino delle genti occhi che sognano, mani che si muovono per chitarre fatte di sola spiaggia.
Avrei voluto accompagnarti in cielo io che sono poeta e non ho un canto che mi addolori fino a essere sorriso.
Alda Merini è nata poeta, e lo è stata fino alla fine: lo testimoniano i suoi versi, iniziati a erompere pressocché ininterrottamente sin da quando era bambina ( ricordiamo il premio ricevuto a dieci anni come “miglior poetessa italiana”), da adolescente poi quando impressionò grandi scrittori e critici letterari che ne colsero l’originalità e la precocità ( Pasolini si dichiarò “disarmato” di fronte alla “precocità” e alla “mostruosa intuizione” della “bambina Merini”), da adulta, dopo l’internamento, e durante quella che Alda stessa definì la sua “terza età”. Insomma una vita dedicata alla poesia! E allora, “finiamola di dire: è stata vent’anni in manicomio; si dica: è stata vent’anni, o una vita, nella purezza della poesia” ( Merini in “Reato di vita”). È interessante notare come in alcuni casi i suoi versi sembrano prevedere ciò che accadrà, siano profetici: un esempio ce lo offre la poesia “Testamento”
Se mai io scomparissi presa da morte snella, costruite per me il più completo canto della pace!
Ché, nel mondo, non seppi ritrovarmi con lei, serena, un giorno.
Io non fui originata ma balzai prepotente dalle trame del buio per allacciarmi ad ogni confusione.
Se mai io scomparissi non lasciatemi sola; blanditemi come folle!
Questa poesia, pubblicata in “Paura di Dio” del 1955, in anni in cui la vita sembrava sorriderle ( il riconoscimento e l’interessamento della critica, il matrimonio, la nascita della primogenita, la pubblicazione già di tre raccolte poetiche), ben dieci anni prima dell’internamento al Paolo Pini, presagisce la sua “follia” ( ne è anzi una dichiarazione), il suo non sentirsi serena, non essere in pace, bensì nella “confusione”. Altrove, invece, la poesia può ritenersi una rivisitazione e rielaborazione del vissuto, anche se vissuto in condizione di non completa lucidità, quale può determinarsi sotto l’effetto dei farmaci pesanti che le sono stati somministrati in manicomio: è questo il caso di molte poesie in “La Terra Santa”.
Forse bisogna essere morsi da un’ape velenosa per mandare messaggi e pregare le pietre che ti mandino luce; per questo io sono scesa nei giardini del manicomio, per questo di notte saltavo i recinti vietati e rubavo tutte le rose e poi … prima di morire al mio giorno o notte, o lunga notte di solitudine assente, o devastati giardini dove io sola vivevo perché l’indomani sarei morta ancora di orrore ma la sera, oh la sera nei giardini del manicomio a volte io facevo all’amore con un disperato come me in una grotta di orrore.
Qui i “giardini del manicomio” si caricano di una valenza simbolica: diventano il luogo del possibile, dove sfuggire all’inesorabile “orrore” del giorno, dove i sogni e i desideri possono avverarsi, dove si può fare anche l’amore con un altro “disperato”. In effetti Alda in “L’altra verità” racconta di un amore nato durante l’internamento al Paolo Pini con un altro degente, Pierre, con il quale passeggiava in giardino, raccoglieva fiori, leggeva Shakespeare, insomma visse uno squarcio di luce, presto spentasi, quando lui fu trasferito in un cronicario. Molti si domandano se il dolore e l’esperienza manicomiale abbiano permesso ad Alda di trovare maggiori fonti di ispirazione, se in qualche modo siano stati una “ricchezza”. Merini ci dice che la poesia ha bisogno di libertà, di gioia, perché la poesia è bellezza: “Non so chi abbia detto che i poeti per cantare devono soffrire. Non è vero, devono star bene; se sono soffocati come fanno a cantare la bellezza femminile, la bellezza maschile?” Certo non si può negare che nella poesia ci sia anche “una compartecipazione di dolore”, e che l’esperienza manicomiale probabilmente avrà fornito ad Alda spunti di ispirazione, che altrimenti però le sarebbero stati offerti da altri squarci di vita, ma poeta lo era prima e lo è stata dopo, anzi direi che è riuscita a restare poeta, “nonostante il manicomio”, nonostante il lungo silenzio, perché Alda canta la vita, l’amore per la vita, sempre e comunque: “Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo del manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno e la vita è spesso un inferno” ( da Merini “L’eroina del caos”).
Continua …