Fuoristrada e motocross d'epoca
IL MIO RESTAURO
Ancillotti Scarab 125 ‘Rombo’
Forse sarebbe stato più opportuno come titolo ‘Le disavventure del Brutto Ancillottolo’, ove si narra il restauro di un Ancillotti Scarab ‘rombo’ ad opera
del ‘nostro’ Simone Mazzucconi. Gustatevi il racconto appassionante, a tratti sconsolante, ma sempre entusiasmante del lavoro che l’ha portato
a ritrovare, in sella a questa moto, le sensazioni dei suoi 16 anni
Da dove cominciare? Dalla preistoria... Era il 1974 e mi avvicinavo a grandi passi a compiere la fatidica età di 16 anni. A quel punto avrei potuto realizzare il sogno di avere una moto da ‘cross’ che fosse più competitiva del cinquantino asfittico Benelli che avevo avuto due anni prima.
Volevo una centoventicinque, cilindrata pazzesca per i miei criteri di allora!
Fui a lungo indeciso tra Gilera e Ancillotti. Quest’ultimo, a parte l’intrinseca bellezza, era filante e aggressivo, e m’intrigava soprattutto per quel nome da torneo medievale (Lancillotto e la Tavola Rotonda...). E poi c’erano anche motivi di campanilismo toscano. Come potete facilmente capire, le mie preferenze motociclistiche di allora poggiavano su basi molto poco tecniche. Ho ancora il numero
di ‘Motocross’ sul Salone di Milano (dicembre 1973) che alimentava i miei dubbi e tormentava i miei sonni. La testimonianza della scelta finale è ancora lì, marcata con un asterisco a Rapidograph, molto di moda tra i liceali di allora.
Noterete che la categoria ‘cross’ era al tempo molto vasta e includeva ogni moto tassellata; sbavavo, infatti, su modelli ‘cross’ ben sapendo che avrei comprato una moto targata.
Feci anche una visita alla neonata fabbrica di Sambuca Val di Pesa, dove la ‘Costruzioni Moto G. Ancillotti’ si era spostata dall’angusta officina di Via Santa Monaca, in pieno centro storico di Firenze. Speravo, non si sa su quali basi, probabilmente dicerie fra ragazzi, che comprandola direttamente in fabbrica avrei potuto ottenere un prezzo migliore. Ovviamente, con gentilezza, fui indirizzato ai concessionari da Piero Ancillotti.
Di quel comico pellegrinaggio, molto ‘Armata Brancaleone’, ho ancora ricordi vividissimi che spero di raccontarvi un giorno su queste pagine.
Avevo lavorato durante le vacanze scolastiche per due estati di seguito, poi, come dicevo, nel 1974, con un congruo contributo di mio padre, riuscii finalmente ad acquistare un Ancillotti Scarab 125 Regolarità. Lo tenni per qualche anno divertendomi assai, in continua rivalità con un compagno di classe che aveva un Aspes Hopi 125, forse con qualche cavallo in più: mannaggia… almeno fino a quando non feci aprire qualche travaso in più e montai il mastodontico Bing da 36 mm.
Poi, fra Università, ragazze, politica e un brutto incidente del mio amico con l’Hopi su un campo da Cross, mi sembrò che le moto non mi interessassero più. Non era affatto vero, come dimostrarono gli anni a venire, ma nel 1977 vendetti il mio
Ancillotti senza neanche troppi patemi d’animo. Mio padre ha conservato l’atto di vendita; l’ho qui davanti e ancora oggi penso… non l’avessi mai fatto!
Questo succedeva molto tempo fa.
E siamo al 2017. Già da qualche anno fantasticavo sulla possibilità di ritrovare il mio Ancillotti. Proprio il mio, numero di telaio 0656: per caso ce l’ha qualcuno di voi lettori? Fra il 2017 e il 2018 intrapresi le ricerche per ritrovarlo. Grazie all’agenzia ACI del piccolo borgo in cui mi sono felicemente auto-esiliato, ero venuto a conoscenza del nome dell’ultimo proprietario prima che la moto fosse radiata. Speravo di rintracciarlo, speravo che non fosse stata distrutta, che giacesse in fondo a un garage, fra i rovi di un campo… insomma che esistesse ancora, pur malconcia, e che potessi riprendermela. L’avrei riconosciuta anche se fosse stata un rottame. Anche e soprattutto perché…
Posso aprire una parentesi?
Il mio Scarab dei 16 anni aveva ammortizzatori Girling di serie montati quasi verticali, Marca a quel tempo considerata il top. Ma negli anni immediatamente successivi, tutte le Case, Ancillotti inclusa, cominciarono a montare ammortizzatori Marzocchi a gas inclinati. Potevo restare indietro? Giammai! E allora operai una modifica che a pensarci adesso mi vengono i brividi. Forai il triangolino che univa telaio e telaietto posteriore (che asportai!), saldai due piastrine ricurve in acciaio, realizzate su mio disegno da meccanici Alitalia (mio padre era Ingegnere alla compagnia aerea nazionale) per mettere un bullone passante… e voilà, il mio Scarab poteva ora montare e vantare i Marzocchi a gas inclinati da 345 mm! Calcoli per la modifica? Nessuno. Come avevo deciso che quella era l’inclinazione e la misura giusta? A occhio. Mi dispiace solo di non avere foto di questa trasformazione, coraggiosamente eseguita quando non avevo ancora 20 anni.
Ma torniamo alla ricerca. Avevo, dunque, un nome e un cognome, un indirizzo di Roma, ma non un numero di telefono. A quell’indirizzo non risultava più nessuno con quel nome. Provai a telefonare a campione ai non pochi con lo stesso cognome trovati sull’elenco telefonico… magari beccavo un parente. Niente.
Dopo decine e decine di telefonate, a malincuore, decisi di desistere, dando mentalmente l’addio definitivo al mio Scarab giovanile. Spero sia felice, ovunque esso sia, con chiunque esso sia, o che corra felice nei polverosi cieli del paradiso del fuoristrada.
Ho cominciato così a cercarne uno analogo da restaurare, a un prezzo accessibile alle mie risorse.
Nel 2018 trovo in Rete un annuncio di uno Scarab 125 del 1976 ‘rombo’, così detto per la forma del serbatoio, in vendita a Pistoia. Modello appena successivo al mio, che aveva il serbatoio ‘siluriforme’, ma poteva andare. Vado a vederlo sfruttando un viaggio di lavoro in zona.
A parte qualche pezzo minore, era completo, aveva il suo bel Sachs e se si andava oltre l’aspetto raccapricciante, non era messo troppo male. Un modello cosiddetto ‘economico’, con forcella da 34 mm, Sachs 7 alette e punzonatura ‘solo’ A.S.C. sul telaio, senza quindi il blasonante 2 a seguire che contraddistingueva i modelli ‘competizione’. “... Con pochi mirati interventi potrai sempre elevarlo di rango…”,
AGR dixit (gli ancillottisti doc sanno a chi si riferisce quest’acronimo). “Vabbè - mi dissi rincuorato dalle sue parole - vedremo, andiamo avanti così”.
La moto, in qualche sua vita precedente, doveva aver fatto anche gare, perché aveva le classiche punzonature di vernice verde su molte parti. Particolare non da poco: era funzionante.
Una moto con una storia singolare. Chi la vendeva l’aveva ritrovata murata (viva) nella cantina dismessa di un casolare, dove era stata per una ventina d’anni. Gli ultimi ad averla utilizzata dovevano essere stati dei ‘ragazzi’ senza alcun rispetto: l’avevano malamente dipinta rosso-arancione a bomboletta e sul serbatoio avevano apposto adesivi Kawasaki da una parte e Honda dall’altra (che orrore!). Il forcellone presentava poi dei fori sulle costole di rinforzo, evidentemente per montarci le pedanine per un passeggero o, presumibilmente, una passeggera. Per non parlare dell’abbondante uso di scotch bicolore giallo-verde, della profusione di rondelle di ottone e di bulloni delle più disparate misure. Da denuncia per maltrattamenti! Lunghe trattative, prezzo dimezzato rispetto alla richiesta iniziale e, infine, nel maggio 2018, il ‘Brutto Ancillottolo’, come lo definì la mia compagna, arrivò finalmente a casa. Brutto assai, ma come si dice “... ogne scarrafone è bell’a mamma soja...”. Ed io già lo amavo!
Ora si trattava di farlo diventare nuovamente un ‘cigno’ o, meglio, un brillante scarabeo.
Stavano per iniziare molte sfide tecniche, dubbi amletici e preoccupazioni a non finire. Credevo di essermi fatto le ossa con il mio restauro precedente, l’Honda XL 500 R del 1982, peraltro raccontato nel numero di settembre-ottobre 2018 della nostra rivista. Dopotutto era una 4 Tempi, molto più complicata, ma non avevo fatto i conti con alcuni elementi:
1) il fatto che l’Ancillotti era di produzione semi-artigianale e, dunque, senza documentazione e rigidi standard di produzione;
2) il fatto che l’Honda fosse stata prodotta in decine di migliaia di esemplari, che ce ne fossero ancora una moltitudine in giro per il
mondo e, di conseguenza, ancora si trovavano facilmente tutti i pezzi di ricambio;
3) il fatto che tra l’Honda e lo Scarab ci fossero quasi 10 anni di differenza e, dunque, bisognava risalire più indietro nel tempo per trovare informazioni;
4) infine, la cerchia di appassionati del Marchio era, per forza di cose, più ristretta.
Comunque oramai era tardi per tirarsi indietro: ho fatto mio il detto che dice “un viaggio di mille chilometri comincia con un passo” e ho smontato il primo componente, la sella, rappezzata con feltro e scotch, e poi il già citato serbatoio Honda/Kawasaki, tenuto in sede da due ‘frikkettonissimi’ laccetti di cuoio, tanto per marcare il segno dei tempi.
Così è cominciata la riduzione ai minimi termini della bestiolina… Prima di smontare ogni pezzo, scatto una fotografia, nel caso non fossi poi sicuro di come dovesse essere rimontato e, come nei restauri precedenti, i pezzi più piccoli li metto via via in sacchettini debitamente etichettati e li appendo a un pannello al muro per ritrovarli facilmente.
Man mano che smontavo, scoprivo danni nascosti, pezzi raffazzonati o mancanti e aumentava la lista delle cose da fare, riparare e reperire. E comprare.
Dentro di me echeggiava una voce: “Non ce la farai mai!”. “Ti costerà una fortuna…”. Una delle due affermazioni risulterà vera, la seconda, ma siccome era la stessa voce dei precedenti restauri, cercavo di non darle ascolto.
Anche questa volta, data la mia isolata geo-localizzazione abitativa, mi sono dovuto affidare molto al Web per le ricerche di materiali da acquistare o per reperire artigiani cui affidare i lavori che non potevo fare con le mie mani. E soprattutto per chiedere consigli. E qui entrano in ballo i membri del gruppo Facebook ‘Ancillotti Moto’: senza il loro supporto e la loro sopportazione alle mie innumerevoli domande, sarei ancora lì coi pezzi in mano! Li ringrazierò tutti più avanti.
Ricordo qual è stato il primissimo atto ricostitutivo. La separazione in polipropilene fra ruota posteriore e cassetta filtro era in gran parte mancante. Mi serviva una maquette per rifarla. Ho chiesto in Rete e il gentilissimo Andrea Freschi me ne ha spedita una fatta a pennarello su carta tipo Scottex… Non avrei mai immaginato che il mio restauro cominciasse da morbidi veli di carta.
Dovevo poi pensare allo scarico: quello montato non era originale, ma un lavoro artigianale, realizzato adattando un terminale Aprilia. Mi
sono affidato a Claudio Frigeni di Nembro (Bergamo), encomiabile nel lavoro e nella gentilezza. Mi ha rifatto ex-novo uno scarico completo perfetto, modellandolo su uno Scarab analogo che aveva a disposizione, se ben ricordo di AGR. Un’azienda specializzata nel viterbese, nonostante l’ambiente da slum di Mumbai, mi ha egregiamente sabbiato il telaio, mentre per la pallinatura del gruppo termico e dei mozzi ruote, mi sono affidato ai professionisti veramente encomiabili della ditta Sabbiatura Perugia. Già, i mozzi. L’operazione di cui sopra ha ovviamente comportato lo smontaggio dei raggi, per altro molto rovinati. Il che voleva dire poi rimontarli e centrare le ruote. Lavoro da artigiani d’altri tempi. Mi tremavano i polsi solo al pensiero… Ed ecco che a quel punto interviene il deus ex-machina (è proprio il caso di dirlo): mio padre Giano Mazzucconi, il già citato Ingegnere aeronautico, classe 1925, dunque di 95 anni nel momento di cui parlo. “Li faccio io - mi ha detto - tu procurami solo i raggi nuovi”.
“Ehm… ma lo hai mai fatto?”.
“No, ma che ci vuole?!”. Conoscendo la sua manualità, pur con qualche riserva, e per dargli qualcosa da fare altrimenti si annoia… gli ho dato fiducia.
Gli procuro i raggi, gli porto i due cerchi Akront bollino giallo che avevo pulito e lucidato con tanto olio di gomito, creme speciali e WD40, i mozzi pallinati e un rozzo trabiccolo da me costruito per sospendere la ruota e centrarla. Tempo a disposizione ne aveva, erano ancora tanti i lavori che nel frattempo dovevo fare.
Una settimana dopo mi telefona (viviamo lontani) e mi comunica: “Ho finito, vieni a riprendere le ruote”. Incredibile, erano perfette!
In più c’aveva preso gusto, l’Ingegnere! Consegnandomi raggiante i cerchi raggiati, mi dice: “Oh, se hai qualche compagno che ha bisogno...”. Nel frattempo, grazie al Web, continuavano le ricerche e gli acquisti: una leva Magura che era spezzata, il parafango anteriore Preston Petty, il gas rapido Magura in sostituzione del Tomaselli che aveva sopra, un carburatore Bing da 27 più conforme al modello originale, rispetto al 32 che avevo trovato montato e tanti altri piccoli particolari.
E intanto mi davo da fare per ricostruire in casa alcuni pezzi, come la cassetta filtro Acerbis, che era malridotta, crepata e tagliata nella parte superiore, forse per far arrivare più aria. L’abitudine compulsiva di raccogliere ogni pezzo utile che trovo durante le mie passeggiate lungo le strade mi è stata di grande aiuto: non avete idea di quanti dadi e bulloni si trovano! Ogni
volta torno con le tasche piene. Ma anche pezzi di carrozzeria in plastica. Con quello di un camion Renault, trovato durante una passeggiata in Provenza, ho ricostituito, grazie alle foto gentilmente inviatemi da Andrea Freschi, le parti mancanti della cassetta filtro. È mia filosofia: se posso rifare un pezzo conforme all’originale, perché no?
Allo stesso modo, partendo dal modello originale, troppo rovinato, ho rifatto il carter paracatena usando il lamierino di alluminio che era già stato il paraspruzzi della moto da strada che usavo tanti anni fa per andare a lavorare. È venuto perfetto e sfido chiunque a distinguerlo da un originale.
A questo punto si saranno drizzati i capelli a molti lettori. Come scrive Robert M. Pirsig nello ‘Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’, grande libro che cito spesso, i motociclisti si dividono in due categorie: i ‘classici’ e i ‘romantici’. A fronte dello stesso problema, Pirsig racconta di una manopola del gas un po’ ballerina, i ‘classici’ non avranno pace finché non comprano dalla Casa madre il pezzo di ricambio originale, i ‘romantici’ taglieranno una sottile strisciolina di lamierino da una lattina di birra e la metteranno come spessore alla manopola. Entrambi risolvono, ma con un approccio radicalmente differente.
Ecco, io sono un ‘romantico’. Dunque questo mio restauro può essere definito conforme all’originale? Sì al 99,8%.
L’ho affrontato con lo spirito di fare lo Scarab il più aderente possibile all’originale, ma senza ‘mummificarlo’. Anche perché, come è stato spesso osservato e ho potuto appurare, un modello completamente standard non è mai esistito, perché i costruttori di allora facevano con quello che avevano in magazzino.
Ne avevo la riprova proprio sull’Ancillotti di quando ero ragazzo, che mi arrivò con una ‘menomazione’ che mi scocciava assai: il lato infe
riore destro della termica aveva
3-4 alette tagliate, come se ci dovesse passare lo scarico. Solo che la marmitta alta dei precedenti modelli dello Scarab passava a sinistra e sulla testata! Dunque, da dove proveniva quel motore?
Quello che ora avevo sotto mano era poi un vero complicatissimo puzzle formato da elementi non certo standard, a cui si erano aggiunte le successive modifiche dei vari proprietari precedenti.
Alcuni osserveranno, e molti non hanno mancato di osservare (il mondo del restauro è fatto anche di gente cinica e crudele), il mio troppo disinvolto utilizzo di bulloni con testa esagonale incassata, volgarmente detti ‘a brugola’: è vero, ma ai ‘miei tempi’ si usava mettere le brugole perché faceva ‘più fico’, molto SWM o TGM style. E posto davanti al dubbio mi son detto: lo faccio! E, aggiungo, mi piace che il mio attuale Scarab abbia i segni di piccoli, seppur rispettosi, interventi post-fabbrica, un po’ come se avessi tenuto, e via via migliorato, quello dei miei mitici 16 anni. È quello che, a mia modesta opinione, rende viva una moto.
Ho usato fascette in teflon e mammut per l’impianto elettrico? Sì. Ho montato gomme originali dell’epoca? No, ma ho preso quelle che, insieme alle Metzeler, montava allora, le Pirelli MT-16 ancora in produzione.
Forse ne ho diminuito il valore per un’eventuale vendita (anche se, per il momento, non ho alcuna intenzione di cederlo), ma siccome nella sostanza il modello originale è rispettato e nessuna ‘deviazione’ è irreversibile, si fa presto a colmare quei decimali di percentuale per arrivare al 100%
Dunque mi sono permesso queste ‘licenze poetiche’, perché sarete d’accordo con me che di poesia motoristica si tratta, e altre che non dico per non attirarmi altre reprimende.
Ma divago. Ho trattato l’interno del serbatoio con la Tankerite, quindi è venuta la fase di riverniciatura: anche questa volta ho preferito affidarmi ai migliori e più duraturi risultati di un carrozziere. C’era però il problema del giusto colore, guai a sgarrare al dogma! Mentre per il serbatoio c’erano tracce del colore originale che il carrozziere ha potuto riprendere, per il telaio purtroppo la vernice originale si era persa con la sabbiatura; colpa mia, ero stato imprevidente a non mantenere un campione. Per fortuna mi è venuto in aiuto Antonio Castelli, appassionato ancillottista e corridore Gruppo 5 che mi ha inviato un campione del colore giusto. Ho riverniciato da solo, invece, i carter del motore con una bi-componente datemi dal carrozziere; stesso dicasi per tutte le parti in nero. La forcella anteriore non presentava particolari problemi, tant’è che mi sono limitato a uno smontaggio per controllo, alla sostituzione dell’olio
e all’acquisto di nuovi para-polvere. Gli ammortizzatori posteriori invece, i classici Marzocchi a gas, ne avevano di problemi, eccome: innanzitutto non sembravano essere quelli di fabbrica, erano di molla viola, forse di provenienza KTM e, comunque, molto rovinati, in parte anche arrugginiti, mancanti dei tappini delle valvole e verniciati malamente a spruzzo con il solito rosso-arancio di tutta la moto. Per non sbagliare, li ho inviati alla ditta Suspensionzana di Collio Val Trompia (Brescia): il titolare Zanardini, gentilissimo, disponibilissimo e abilissimo, me li ha resi come nuovi e con la molla del colore e filo giusto.
Il ‘Brutto Ancillottolo’ era via via sempre meno brutto e cominciava a mostrare i segni annunciatori della sua intrinseca bellezza. Grazie al ‘Gran Sacerdote’ Alfredo Gramitto Ricci del Registro Storico Ancillotti Scarab, mi sono arrivati gli adesivi per il serbatoio, la borsetta porta-attrezzi (quella trovata a bordo era purtroppo irrecuperabile) e i grembialini laterali che mancavano del tutto.
Era giunto il momento di rifare la sella. Dopo aver rotto le scatole un po’ a tutti sul gruppo Facebook per avere la giusta altezza e il giusto font, l’ho fatta rifare, due volte, a un tappezziere d’auto di Viterbo: la prima volta mi aveva fatto la scritta troppo in basso e gliel’ho riportata, mentre la seconda volta, per eccesso di zelo, aveva aggiunto della gommapiuma ed era troppo lunga lato serbatoio. Devo dire, a onore del vero, che ha posto riparo a tutto con grande pazienza e senza costi aggiuntivi, con l’unica seccatura di qualche viaggio in più a Viterbo.
Sostituiti tutti i cavi e le guaine, rimaneva il problema di una leva frizione durissima… molto più dura delle più dure frizioni mai avute fra tutte le mie moto, da slogarsi le dita! Speravo che con la revisione e la sostituzione dei dischi consumati, smussando i dentini che l’usura aveva provocato alla campana e con i cavi nuovi, la situazione migliorasse, ma invano. Documentandomi e su consiglio di un amico del gruppo Ancillotti di Facebook, ho levato tre molle spingidisco su nove. Risultato: frizione morbida e impeccabile. Risolto? Illuso e principiante! “… gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!”, per citare Gino Bartali.
Si veda oltre.
Improvvisamente, magicamente, quasi senza che me ne fossi reso conto, talmente focalizzato sui dettagli da perdere di vista l’insieme, un giorno mi sono accorto che il pannello di legno al quale avevo appeso tutti i pezzi era pressoché vuoto… e ai suoi piedi si era materializzato un giallo Ancillotti Scarab ‘rombo’.
Era giunto il momento più temuto: la prima accensione della moto. Confesso che ho traccheggiato un bel po’ prima di cimentarmi, poi finalmente ho preso coraggio, l’ho tirata fuori dal mio ‘atelier’, la vecchia stalla ex-caseificio da me adibita a laboratorio meccanico e, tutto debitamente documentato in video, ho dato due-tre scalciate e… vrengedengenden (rendo bene il suono del motore?). Il Sachs ha ricantato, subito. Una bella nuvoletta azzurrina di scarico di miscela, i buoni odori di una volta e… che dire? Gioia, commozione, sensazione di pienezza...
Ancora un po’ di fine-tuning e poi la prova dinamica. Monto in sella, che impressione! Un giocattolino leggero leggero! È maneggevole, da spostare con un colpo d’anca. Abituato oramai alle Enduro 4 Tempi che ho avuto negli ultimi 30 anni, mi sembrava di cavalcare una minimoto! Vibrava tutto e mi pareva dovesse smontarsi sotto il sedere. Non ho voluto strapazzarlo troppo, ma che gusto correre intorno alla fattoria e vedere la testatona del Sachs spuntare dai lati del serbatoio e sentire il suo vreeeng, vreeeeeeeng, vevreeeeeeeng ad ogni cambio marcia!
Fine della storia.
Titoli di coda su lui - cioè io - che si allontana in moto nel tramonto lasciando una scia di fumo.
THE END
Purtroppo no...
Quando ho comprato la moto, il motore girava e bene. A parte la frizione e un’ispezione a cilindro e pistone, non gli avevo fatto altro. Mi ero voluto fidare di chi me lo aveva venduto, un meccanico che, forse anche in buona fede, sosteneva che il motore era a posto. A posteriori mi son detto: per forza diceva così, doveva vendermelo! E come ripeteva: “Se una cosa funziona, meglio non toccarla!”. Bischero, io! E apparentemente così era perché la moto, finito il restauro, andava bene, ma molto rapidamente ha cominciato a fumare, fumare, fumare sempre di più… Inutile nascondersi dietro problemi di carburazione: trattavasi, con ogni probabilità,
di rottura dei paraolio di banco. Sconforto totale. Confesso che non me la sono sentita di agire da solo e dunque, dietro consiglio di Castelli e Gramitto Ricci, ho contattato Luciano Tetoldini, valente corridore di Gruppo 5 nonché esperto meccanico che si è dichiarato disposto a occuparsi del caso clinico. E gli ho spedito il Sachs malato… Col senno di poi posso dire è stato meglio, molto meglio, non aver fatto da solo; il Buddha dei motori che mi ha illuminato sapeva in quale guaio mi sarei cacciato se ci avessi provato da solo. Infatti quando il ‘chirurgo’ Tetoldini lo ha aperto, ha “visto cose che voi umani…”.
I paraolio finiti e i cuscinetti di banco comunque da cambiare erano solo una parte del problema, ovvero la parte emersa dell’iceberg. Ha scoperto che l’albero motore era stato in qualche modo ‘saldato’ al volano ed era dunque impossibile separarlo dall’albero motore… Occorreva un nuovo albero motore. Per fortuna lui ne aveva uno. La frizione poi… era montata coi dischi al contrario. Io, che li avevo cambiati, ignorante su quale fosse il verso giusto, mi ero limitato a rimontarli esattamente come li avevo trovati. Per forza era così dura! Rimessa da Luciano nel verso giusto e con tutte le nove molle di ordinanza, è un burro!
Poi il mistero maggiore: si accorge anche che l’accensione che c’era montata era presumibilmente di un Hiro in quanto sinistrorsa. Qualcuno, chissà come, l’aveva ritarata per il Sachs. Così il ‘mago’ Tedoldini ha dovuto ritirare fuori dal suo cappello magico anche un volano/accensione.
La storia sarebbe ancora più lunga di come l’ho riassunta in queste righe… con diversi ‘anda’ e ‘rianda’ del motore attraverso l’Italia, ma alla fine del 2020 il mio ‘brutto ancillottolo’ era completo e funzionante alla perfezione. Il motore gira meravigliosamente e non fuma, e la frizione è un piacere. Siamo arrivati alla fine della storia. Spero…
THE END.
Dagli errori si impara. Col babbeo senno di poi, mi sento di dire, a chi volesse cimentarsi in un restauro, questa patente ovvietà: non tralasciate nulla!
Vi state chiedendo se ritengo che ne sia valsa la pena? La mia risposta è: “Sì, senza dubbio!”.
Ma se decidete di cimentarvi in un’impresa come la mia, non chiedetevi mai quanto vi può costare...
Ogni tanto salgo sul mio Scarab e faccio dei piccoli e cauti giri nelle campagne circostanti; devo ancora iniziare le pratiche per immatricolarlo e targarlo. Sarà banale e stupido, ma in sella provo nuovamente le sensazioni dei miei 16 anni.
A volte incrocio i compagni di Enduro del luogo, molti dei quali non erano nemmeno nati quando uscì lo Scarab. Dico ‘compagni’ ma si fa per dire, perché raramente esco con loro con la mia moto ‘moderna’: sono giovanottoni nerboruti la cui idea fissa è cimentarsi nel ‘hard’. Non fa per me, sia per età (62 anni), sia per allenamento, ma soprattutto per una diversa concezione del fuoristrada. Dall’alto delle loro endurone odierne, coloratissime KTM e Beta ultimo grido, squadrano me e questo gioiellino giallo d’altri tempi… e mi godo i loro sguardi sbalorditi e stupiti nel vedere sul porta attrezzi adagiato sul serbatoio la scritta ‘Campione d’Italia’…
Non posso concludere senza ringraziare ufficialmente tutti coloro che mi hanno aiutato, consigliato, fornito materiale, redarguito, insegnato e anche bonariamente preso in giro. Da loro ho imparato molto e ho capito quanto ancora ho da imparare: Alberto Ancillotti, Alfredo Gramitto Ricci (per tutti ‘noi’ semplicemente AGR), Andrea Freschi, Antonio Castelli, Giorgio Tomatis, Luciano Tetoldini, Massimo Raselli e i tanti altri che mi hanno aiutato rispondendo ai miei dubbi sul gruppo Facebook. Nonché Elena, che mi è stata vicino e mi ha incoraggiato dalle prime fasi di questa folle, bellissima avventura a ritroso nel tempo, fino alla revisione dei testi di questo lungo resoconto di restauro e di memorie. E ovviamente l’Ingegnere, Giano Mazzucconi, mio padre. Non so quale sarà il destino del ‘Brutto Ancillottolo’. Vorrei che restasse la moto degli anni a venire, quando per raggiunti limiti di età avrò ceduto le mie altre moto, l'Honda XL da ‘passeggio’ e l'Husqvarna ‘tosta’ per il fuoristrada… Mi piace pensare che resteremo insieme solo lo Scarab ed io, a chiudere il cerchio di una carriera motociclistica iniziata tanti anni fa.
E per finire, mi piace chiudere questo lungo racconto con una citazione dal già menzionato ‘Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’ di Pirsig, perché riassume bene lo spirito che, in particolare, ha pervaso questo restauro, nonché la mia passione ed emozione per la meccanica e le moto da fuoristrada.
“Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore”.