Fuoristrada e motocross d'epoca

IL PERSONAGGI­O

Ermanno Bonacini

- Testo: Daniela Confalonie­ri Foto: Ermanno Bonacini

Dopo 13 anni di Motocross a livello regionale e nazionale, ha pensato bene di concedersi una ‘piccola’ divagazion­e motociclis­tica approdando nei Motorally, prima in Italia e poi all’estero. Era verso la fine degli anni Ottanta, quando gli appassiona­ti delle due ruote da fuoristrad­a s’incollavan­o alla television­e, ai quotidiani e alle riviste di settore soprattutt­o per sapere delle gesta dei piloti partecipan­ti alla Parigi-Dakar, la gara per eccellenza delle lunghe maratone nel deserto africano. Tra questi appassiona­ti c’era anche Ermanno Bonacini, un giovane pilota reggiano animato dal grande desiderio di coronare la sua carriera agonistica nel mondo delle due ruote mettendo la classica ciliegina sulla torta… In altre parole, voleva partecipar­e alla Parigi-Dakar.

Ma con quali mezzi? Meccanici ed economici, naturalmen­te. “All’epoca lavoravo in un salumifici­o e lo stipendio era quello che era - ha esordito Ermanno, conosciuto tempo fa a Guastalla presso il ‘Piccolo Museo della

Classe 1960, originario di Reggio Emilia, l’ex pilota di Cross e di Motorally, Ermanno Bonacini sarà tra gli ospiti del terzo Raduno Internazio­nale Honda Africa Twin Marathon che si terrà il prossimo 27 giugno a Legnano.

Noi l’abbiamo conosciuto qualche tempo fa presso il ‘Piccolo Museo della Moto’ di Guastalla, dove ci ha raccontato delle sue tre Parigi Dakar affrontate da

pilota privato

Moto’ di Emilio Bariaschi - Ma volevo fare qualcosa di diverso… nel senso che desideravo concludere la mia carriera su due ruote lasciando un segno di me nella storia del motociclis­mo. Non sono mai riuscito a fare di questo sport la mia profession­e, ma dopo 13 anni di Motocross, volevo chiudere in bellezza questa parentesi della mia vita. Cambiai specialità, sempre più attratto dalle cronache delle maratone nel deserto; soprattutt­o c’era quella gara… la Parigi-Dakar, che nella mia mente stava prendendo sempre più le sembianze di un sogno da inseguire e realizzare”. Fu così che iniziò a partecipar­e ai Motorally che si disputavan­o in Italia, soprattutt­o per impratichi­rsi con la navigazion­e su road-book; insieme a due amici, Guido Fulgoni e Stefano Masini, gareggiaro­no in sella ad altrettant­e Malaguti 125 schierando­si ai nastri di partenza di alcune prove della stagione agonistica 1987. Finché alla decima edizione della Parigi-Dakar, insieme alla propria compagna Silvia, Ermanno si recò all’imbarco dei piloti. In quell’istante scattò dentro di lui come una molla, che gli fece dire alla sua dolce metà: “L’anno prossimo mi vedrai partire da qui”. “Pensava stessi scherzando, ma quando tornai a casa, iniziai a comprare un paio di riviste di moto in francese che dispensava­no consigli e suggerimen­ti su come preparare una moto per partecipar­e, da privato, alla gara per eccellenza nel deserto africano - ha ricordato Ermanno - Feci due conti… e presi una decisione. Avevo una Yamaha XT Ténéré 600 poco robusta, mentre la mia fidanzata aveva una Suzuki 125 da Cross molto più robusta: potevo mettere insieme queste due moto realizzand­one una più performant­e, con la quale partecipar­e alla prossima ParigiDaka­r. Iniziai così ad affrontare qualcosa di più grande del solito, all’insaputa di tutti tranne che di Silvia. Non avevo nemmeno la certezza di partecipar­e, ma in attesa dell’esito della preiscrizi­one e del nulla osta della Federazion­e Motociclis­tica, dovevo mettere mano alla moto, altrimenti non avrei fatto in tempo per essere al via dell’undicesima edizione della Parigi-Dakar. All’epoca non esistevano negozi dedicati a questo tipo di competizio­ni… la mia forza finanziari­a era ridotta ai minimi termini… e in più lavoravo. Non è stato facile… e senza l’aiuto di Silvia, non avrei mai potuto realizzare il mio sogno”.

Nella sua cantina 4x3 metri iniziò a elaborare la moto che l’avrebbe portato alla partenza della gara sotto la Torre Eiffel. Sostituì l’avantreno della Yamaha XT Ténéré con quello della

Suzuki da Cross, chiese aiuto alla VRP per la realizzazi­one dei serbatoi e a Franco Picco per l’ammortizza­tore, che poi fece accorciare da una ditta di Torino perché la moto era troppo alta. Il motore aveva solo 18.000 chilometri sulle spalle, tant’è che sostituì soltanto il pistone e il cilindro coperti dalla ‘garanzia’ pirata di un suo amico concession­ario. Trascorrev­a ogni minuto libero della giornata al capezzale della sua creatura,

traendo indicazion­i soprattutt­o dalle foto delle moto ufficiali che aveva appeso alla parete della cantina, mentre il sogno di essere al via della Parigi-Dakar prendeva sempre più forma. Finché arrivò il giorno di partire alla volta della capitale francese.

“Quando il mio meccanico dell’epoca vide il mezzo a quattro ruote con cui mi sarei recato a Parigi, un furgone della Mercedes con il collaudo scaduto da cinque anni, con una velocità massima di 80 km/h e con la quarta marcia che dovevo legare con un elastico per tenerla inserita… mi disse:

“Se arrivi a Parigi con questo furgone, arrivi anche a Dakar con questa moto!” E così accadde…”. Ermanno Bonacini coronò, infatti, il suo sogno portando a termine la gara delle gare nel deserto africano e conquistan­do un onorevolis­simo 49esimo posto su 60 piloti che tagliarono il traguardo dell’undicesima edizione della Parigi-Dakar.

“Ricordo che mi portai appresso soltanto due gomme di scorta, due camere d’aria, tre filtri, un cambio di pignone, corona e catena e i raggi originali delle ruote: misi tutto nella borsa che caricai sulla moto, mentre in una cassa di un altro pilota privato, misi qualche cambio e un paio di scarpe da ginnastica. Partii così per quell’avventura tanto sognata, quanto desiderata - ha sottolinea­to Ermanno - Ricordo che il secondo giorno di gara caddi e distrussi il trip master… Da quel momento guidai senza note fino alla fine della competizio­ne, seguendo soprattutt­o le tracce di piloti come Edi Orioli e Franco Picco, la polvere e il mio istinto. Sopravvive­nza allo stato puro… soprattutt­o nelle due tappe della Guinea, le più dure affrontate in quella edizione. Nella prima, forai la ruota davanti e poi anche quella dietro; ricordo che mi diede una camera d’aria Fabio Marcaccini, pilota privato più attrezzato di me. Mentre la stavo gonfiando, saltarono fuori dal nulla due indigeni. Ero completame­nte disidratat­o e chiesi loro se avevano dell’acqua; mi diedero un pallone tagliato a metà con dentro acqua mista a terriccio, di colore giallastro… Bevvi tutto d’un fiato, dicendo a me stesso: se sopravvivo a questo intruglio, arrivo fino al traguardo! E così feci… La moto si comportò benissimo e coronai il mio sogno di arrivare al Lago Rosa di Dakar”.

Era il 1989: alla sua prima volta ne seguirono altre due, con esiti, purtroppo, ben diversi.

“Tutto avrebbe dovuto finire lì, visto che avevo raggiunto il mio obiettivo… ma quando gli sponsor bussano alla tua porta e per strada ti fermano per chiederti un autografo, non riesci a interrompe­re questo sogno stupendo - ci ha confessato Ermanno Bonacini - Nel 1990 avevo un precontrat­to con Andrea Balestrier­i per il noleggio di una delle sue Aprilia, ma tutto sfumò all’ultimo momento; la mia scelta ricadde su una Honda Africa

Twin 650 che mi fornì Roberto Boano. La moto era già preparata dalla HRC e mancavano soltanto la strumentaz­ione, le gomme e poche altre cose. Ma la mia seconda volta alla Parigi-Dakar finì troppo presto, quando alla quarta o quinta tappa, non ricordo bene, ebbi un grave incidente: ero al confine tra Libia e Niger e lì finiscono i miei ricordi… perché mi svegliai in sala di rianimazio­ne all’Ospedale Maggiore di Bologna dopo 5 giorni di coma. Riportai grossi problemi neurologic­i, ma dopo un anno di lavoro con i medici della clinica mobile del dottor Costa, tornai in sella… ancora alla Parigi-Dakar, come se avessi un conto in sospeso con questa gara, che rappresent­ò il mio più grande stimolo per tornare a una vita normale. A metà novembre avevo recuperato quasi al 100 per 100 e mi diedero l’idoneità per correre in moto. Disputai così la mia terza Parigi-Dakar nel 1991, di nuovo su un’Africa Twin 650: quella volta me la fornì direttamen­te la Honda Italia. Era stata usata al

Rally dei Faraoni, ma era in buone condizioni; a questa proposta non potevo proprio rinunciare”.

Ogni giorno di gara, doveva scrivere una relazione da consegnare ai medici della clinica mobile, che tenevano monitorate le sue condizioni psicofisic­he. Ermanno, però, non aveva più la sicurezza di prima; non cadde, ma la sua guida era molto condiziona­ta da come stava. Alla fine ci mise lo zampino anche un guasto tecnico alla pompa della benzina, che lo costrinse al ritiro alla quinta tappa. Dopo tre giorni trascorsi nel deserto dormendo accanto alla sua moto, grazie a un piccolo gruppo di piloti ritirati, è risalito fino a Tunisi per imbarcarsi e tornare in Italia.

“Se ripenso a quegli anni, non ho alcun rammarico o rimpianto… quindi, va bene così. Il sogno della Parigi-Dakar era diventato per me come una piacevole ossessione, che ho potuto soddisfare in sella alla mia moto preparata in cantina: nonostante i suoi limiti, era leggera e maneggevol­e, e mi ha consentito di mettere la classica ciliegina sulla torta della mia carriera agonistica. Laddove poi non arrivava lei con il suo motore, il mio coraggio ha fatto la differenza”, ha concluso Ermanno Bonacini.

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