Fuoristrada e motocross d'epoca
I vostri racconti
Il ‘Be(ne)llo addormentato nel bosco’ è la storia, raccontata in prima persona dal ‘nostro’ Simone Mazzucconi, della disavventura capitata alla sua prima moto quando, da adolescente, tentò l’impresa di raggiungere su due ruote la vetta del Monte Morello, in Toscana. Vi invitiamo sempre a condividere i vostri racconti insieme a noi
Questa è la storia di un’iniziazione. Delle prime esperienze, dei primi esperimenti e delle prime c… ehm corbellerie fatte in moto.
Nel 1972 raggiunsi faticosamente gli agognati 14 anni. Fino a quel momento le mie esperienze su due ruote si erano naturalmente limitate a lunghissime escursioni in bicicletta, una Ceriz verde metallizzato di cui andavo molto fiero, artigianale, con cambio a levetta a 3 rapporti e tachimetrocontachilometri, quest’ultimo costato tutti i miei risparmi di adolescente. Poi un compagno di classe ebbe finalmente accesso alla Moto Graziella Carnielli che il padre usava in campeggio… e provai, previe lunghe implorazioni per un ‘giro’, le prime sensazioni di non dover pedalare per avanzare e di avere un motore sotto il sedere. E che motore! Lo scopro ora facendo ricerche sulla Moto Graziella per questo articolo: era motorizzata Sachs! Si vede che era scritto nel destino che i Sachs ed io dovessimo avere un lungo rapporto…
Ma questa è un’altra storia. Dunque a 14 anni ottenni finalmente un cinquantino, un Benelli Cross 50 giallo uovo. Condivideva il motore con un analogo, orribile, modello della Moto Guzzi.
Aveva, chissà perché, lo pneumatico anteriore con tassello ‘trial’, mentre al posteriore montava, se ben ricordo, un Ceat con tassello crossistico. Diciamo che in Casa Benelli giocavano su due fronti, tant’è che quel modello, in alcuni documenti, è menzionato come ‘trial’.
“Un nuovo motore a testa radiale, un robusto cambio a 5 velocità, la doppia corona. Forcella oleodinamica, ammortizzatore di sterzo, ruote a diametro differenziato, sella anatomica, protezione carter motore. Il suo stile, i carter neri, il faro con griglia, le targhe portanumero; due ruote con grinta”.
Così recitava la pubblicità, ma non credo che all’epoca fossi molto interessato ai dati tecnici. Perché avessi fatto quella scelta, mi è difficile dirlo ora: era una preferenza totalmente priva di qualsiasi motivazione inerente alle prestazioni o alla meccanica. Non era nemmeno una questione di budget (di mio padre), perché nell’orizzonte mentale delle mie scelte, non ricordo che ci fossero altre moto da 50 cc. Forse apparve fugacemente il Gilera 5V Trial, quello col serbatoio giallino, ma di sicuro non modelli tecnicamente ben superiori già in commercio in quegli anni, come l’Aspes Navaho
con motore Minarelli, l’Ancilotti Scarab, il Simonini o l’SWM con motore Sachs, per citare solo alcune delle italiane. Forse non ero ancora abbastanza informato o forse fu l’effetto della pubblicità Benelli, molto presente sulle riviste di allora.
In altre parole, mi piaceva e basta… anche se a rivederlo ora mi sembra proprio goffo; i canoni estetici di allora erano altri e/o sono diventato di gusti più sofisticati. Non che i miei compagni di allora avessero molto di meglio in quanto a estetica o meccanica: ce n’era uno con un Negrini 50 Cross, un altro col Malanca Caribù 50 (era il più all’avanguardia), un altro ancora con un Caballero primo modello, quello tutto giallo, uno con un Corsarino Superscrambler, un vero dandy. Questi erano quelli fortunati: gli altri giravano con Garelli Gulpflex, Benelli City Bike, Beta 3 marce…
Erano i miei compagni di scuola e di vicinato, in quello che allora era un tranquillo quartiere residenziale a Sud di Roma, verso il mare, attorniato da campi ove pascolavano placidi gli ovini nelle prime campagne dell’agro pontino. Negli anni a seguire, questo quadro bucolico piano piano sparì; le campagne circostanti e il nostro ‘campetto’ da Cross furono inglobati, anneriti e intristiti dall’espandersi tentacolare della metropoli. Avete presente la canzone di Adriano Celentano ‘Il ragazzo della Via Gluck’? “Là dove c’era l’erba ora c’è una città…”.
Ma anche questa è un’altra storia.
Torniamo al ‘benellino’.
Passati i primi mesi di rispettosa e scrupolosa soggezione meccanica, cominciai via via e con crescente coraggio e spregiudicatezza, a infliggergli le peggiori sperimentazioni e modifiche.
Per prima cosa volli metterci le frecce! La mia coscienza fuoristradistica era ancora ai minimi. Con la connivenza tecnica di mio padre e di mio zio, modificai l’impianto elettrico per aggiungere una batteria (!), costruii dei supporti e finalmente ci montai quattro enormi frecce CEV, più adatte a una Honda CB Four che a quel moscerino di cinquantino! E visto che ero a pasticciare con l’impianto elettrico, lo dotai anche di una luce blu che di notte illuminava il motore: chissà cosa avevo in mente! Roba da auto ‘tuned’ dei chicanos latinoamericani.
Per non dire degli esperimenti sulla benzina, allora costosissima per le mie tasche (152 lire al litro, con 1.000 lire facevo il pieno!). Provai ad allungarla con nafta, alcool denaturato, diluente al nitro… Inutile che vi dica che non ebbi grandi risultati.
Era un periodo confuso: gli ormoni in subbuglio, la peluria sul labbro, gli orribili pantaloni a zampa di elefante. Osai anche sostituire gli occhiali da moto con una maschera da subacqueo con tanto di tubo!
Allora non avevo vergogna. Poi, per fortuna, questa confusione meccanico-identitaria venne meno e mi allineai per quanto mi era possibile all’ortodossia crossistica, anche grazie alla religiosa lettura di ‘Motocross’.
E allora fu tutta una serie di modifiche atte a migliorare le performances e dare a quel ‘codice’ un aspetto più grintoso, più di quanto dicesse la pubblicità. Giù le leve freno e frizione fino ad allora portate all’insù sul manubrio come corna di toro, alle ortiche le normative ‘codice’, via il diaframma della marmitta, presto sostituita con una a ‘spillo’, via i parafanghi e le tabelle porta-numero in ferro (!), sostituite con auto-costruite in vetroresina, bucherellata ogni leva per guadagnare peso, abbassata a forza di lima la testata, ridotta l’aletta lato ammissione del pistone per aumentare l’afflusso di miscela aria-benzina a ogni ciclo. E, ovviamente, via il 14-12
Dell’Orto e su un bel 19, con tanto di attacco su gomma ricavato da un comune tubo per annaffiare, per allungare il tiro ‘ai bassi’… Realizzai anche una cassetta filtro, sempre in vetroresina, raccordata all’aspirazione del carburatore con un pezzo di camera d’aria (immaginatevi il rendimento...). Tutte queste modifiche mi permisero comunque, bene o male, di raggiungere finalmente la cima del salitone del campetto di Cross di zona ed evitare lo scorno di abbandonare l’impresa a metà salita e lo scherno dei compagni di ‘cross’.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo al Benelli vergine.
Allora abitavo, come ho detto, a Roma, ma passavo i mesi delle vacanze estive a casa dei nonni nella campagna Toscana, sulle pendici mugellane di Monte Morello, ma dal momento in cui fui novello possessore di moto, mi divenne impossibile immaginare di stare in campagna senza il mezzo. Avevo fantasticato per anni che un giorno anch’io… quando davanti casa di mio nonno passavano ogni domenica dei ‘motocrossisti’. In più, nella colonica dirimpetto, dall’altra parte del ruscello, c’era un tizio con ben due moto fuoristrada 4 Tempi: una Morini e una Gilera. Il suo soprannome era ‘Il Grinta’, per il suo burbero carattere, ma per me grinta e moto erano una cosa sola. Non lo sapeva lui, e nemmeno io allora, che era già arrivato il crepuscolo dei 4T.
Così nell’estate del 1973, la prima utile dopo l’acquisto, costrinsi mio padre a caricare il Benelli sul carrello dell’auto, una fida Fiat
850, e a portarmelo in Toscana. Piccola nota per dire da che genia vengo: il carrello era stato ricavato dal cassone di una Ape Car… pesantissimo.
Erano passati pochi giorni da quando il Benelli 50, ancora in versione ‘street legal’, era finalmente arrivato in campagna, che ebbi subito il battesimo della polvere quando nella mia grande inesperienza, per risparmiare benzina, volli percorrere un discesone sterrato di alcuni chilometri a motore spento, con un amico come passeggero, ovviamente senza casco entrambi. Quando mi accorsi che la velocità era un po’ tanto elevata, diciamo pure incontrollabile, era già troppo tardi: sul ghiaione i freni peggiorarono la situazione e alla prima curva volammo nei cespugli. E meno male che c’erano! Ce la cavammo solo con qualche graffio.
Ma questa è un’ulteriore altra storia.
L’importante era che finalmente ero moto-dotato. Nei torridi pomeriggi dell’agosto toscano, ronzavo, rivaleggiando in stridore con le cicale, nello scosceso campo di olivi di mio nonno, mio personalissimo crossdromo allestito in giornate di lavoro matto e caparbio con l’amico di cui sopra, quello alla cui vita avevo attentato. Il suo soprannome era (non si è mai saputo perché) ‘il Baco’, alla toscana ‘I’bbaho’.
C’era una curva parabolica di terra, c’era una salita che ora, col mio endurone ‘moderno’, farei con una sgasata, mentre allora m’impegnava almeno in due scalate di marcia (all’insù perché, curiosità tecnica, il Benelli 50 aveva la leva del cambio a destra e le marce all’incontrario, ovvero prima in su e tutte le altre in giù) e c’era un salto, realizzato con una vecchia porta messa inclinata su dei tronchi.
L’intenzione era di gareggiare su quel campetto col mio amico, meno fortunato di me, sul suo Beta 3 marce, poco più che un ciclomotore da lui stesso definito ‘abortocicletta’. Mi piaceva ‘vincere facile’, per citare una pubblicità odierna. All’inaugurazione del percorso, anche ‘il Baco’ volle cimentarsi nel salto della porta. All’atterraggio gli si spezzarono entrambe le
pedanine. Betino out! Risaldò le pedane, ma non ci provò più, e io rimasi solo per tutta l’estate a girare come un bischero fra gli olivi, o al massimo a spingermi verso il colle dirimpetto ove villeggiava una ragazzina coetanea che mi piaceva tanto, ma che non sembrava affatto impressionata dal mio possedere cotanto mezzo. Infatti preferiva spietatamente rotolarsi nel fienile con ‘I’bbaho’, dal quale riemergevano pieni di paglia nei capelli e con un’aria stranita. Colonna sonora di quei pomeriggi di calura e turbamenti, ‘La canzone del sole’ di Lucio Battisti e ‘Jesahel’ dei Delirium sul mangiadischi arancione, marca ‘Irradiette’. Ma questa è sempre più un’altra storia.
I conoscitori sanno che il Benelli 50 Cross aveva la doppia corona, una per l’uso più stradale e l’altra per il fuoristrada. La moto era, infatti, fornita di maglie di catena aggiuntive per quando si usava la corona maggiore. Ai miei occhi inesperti era, insieme all’ammortizzatore di sterzo
(!), uno dei punti di forza (o di marketing riuscito) della moto. La doppia corona era una soluzione allora adottata da vari produttori di moto da fuoristrada ‘light’, o presunte tali, quali ad esempio il Malaguti Cavalcone, il Garelli Tiger Cross, il Motobi 50, il Negrini, il Benelli Leoncino 125 e mi piace citare anche il Testi Trail King, pubblicizzato come moto ideale per ‘la caccia per la pesca’. Dunque, con tanta campagna a disposizione, con “le discese ardite e le risalite” che mi aspettavano, fu gioco forza che lo configurassi con corona grande. Ora immaginatevi un 50 strettamente ‘codice’, col 14-12, marmitta diaframmata già limitato di suo a 40 Km/h o poco più, con un’enorme corona da trial… Era praticamente fermo in qualsiasi delle sue cinque marce!
A quel punto, però, ero finalmente in grado, almeno in teoria, di salire fino al ‘limite del ribaltamento’. Quante volte avevo letto questa frase nelle riviste di moto, nelle prove, nelle schede tecniche e nelle pubblicità! Una moto da fuoristrada non poteva fare a meno di riferire questa caratteristica (un po’ ridicola a rileggerla oggi).
Per chi non è della zona, bisogna che spieghi che Monte Morello ha la particolarità di avere la cima piatta, un largo spiazzo, qualche albero, una grande croce di ferro e, se ben ricordo, un grosso avvallamento al centro. Sembra un vulcano, ma non ha questa origine. Wikipedia recita: “... è prevalentemente formato da rocce di tipo calcareo. Probabilmente nasce circa 70 milioni di anni fa come formazione sottomarina. Circa 12 milioni di anni fa è poi emersa assumendo, circa un milione di anni addietro, la forma attuale”.
Conoscevo bene il sentiero che mi avrebbe portato in cima (934 slm), perché c’ero andato a piedi più volte negli anni precedenti. Dalla casa del nonno era un’ascesa relativamente facile, di un’oretta circa.
Ora volevo tentare la grande avventura: raggiungere la vetta di Monte Morello in moto. Erano 12 milioni di anni che quel brullo cocuzzolo attendeva una spedizione epica come quella da me progettata! In teoria era possibile ed io avevo il mezzo adatto.
Dunque una mattina, senza dir nulla a nessuno, mi cimentai. Arrivai abbastanza facilmente al valico che scollinava percorrendo un’antica via romana selciata, verso la fattoria di Volmiano, per noi ragazzi un luogo mitico, come dire Shangri
La. Era uno dei confini del nostro mondo abituale e per noi aveva il fascino della frontiera. Nei campi attorno pascolavano vacche dalle corna lunghissime che sembravano essere lì da tempi immemorabili, armenti di antichi dei pagani. Da lì partiva il sentiero che passando per un bosco di conifere mi avrebbe portato alla vetta. Se fossi arrivato al bosco, era fatta!
Cominciai a salire per sentieri sempre più stretti, sempre meno marcati, con quel motorino 50 cc che dava quel che poteva. Tutto sembrava andare bene finché il percorso che a piedi mi era sembrato facile da trovare, in moto non mi risultava più… Tentai di ritrovarlo inoltrandomi fra la folta vegetazione, per lo più cespugli e sterpi pungenti, tentando passaggi sempre più angusti… ma niente, sembrava come sparito!
Come in tutte le grandi imprese, era arrivato il momento delle decisioni drastiche: gettare il cuore oltre l’ostacolo o rinunciare. A malincuore optai per la seconda.
E lì cominciarono i guai… A forza di girare e rigirare non trovavo nemmeno più la via a ritroso.
Una certa ansia cominciava a prendermi. Ricordiamoci che avevo solo 15 anni e un Benellino 50... Dopo vari tentativi infruttuosi, oramai sulla soglia di una crisi di nervi, mi buttai a capofitto
nella costa scoscesa tra la fitta vegetazione, puntando semplicemente a valle. Se fossi sceso così, prima o poi avrei incontrato almeno una parvenza di sentiero percorribile in quella macchia. O la va o la spacca!
La pendenza via via aumentava, i rovi mi graffiavano le braccia (ovviamente avevo solo una
T-shirt) e mi laceravano i pantaloni. Non ricordo se avevo il casco, ma opterei per il no. Non era più uno scendere, tutti i freni tirati, ma un precipitare senza stile e senza controllo alcuno, finché
(e a posteriori fu una fortuna) la ruota anteriore non si incastrò tra i tronchi a V di un alberello, e la mia ‘discesa’ s’interruppe.
Ripresomi dallo shock, tentai di ‘disincagliare’ la moto, ma era in posizione quasi verticale e in una pendenza tale che era difficile il solo stare in piedi.
Disperazione! Cominciai a pensare che la soluzione più onorevole sarebbe stata quella di essere seppellito lì, accanto alla moto tanto desiderata, come un antico guerriero con la sua montura…
Poi, a piedi, e cercando di prendere dei punti di riferimento per poterla ritrovare, decisi di abbandonarla e di scendere per chiedere aiuto. Mi buttai a capofitto, correndo, inciampando, cadendo, rotolando fra gli sterpi… e finalmente, lacero e sanguinante, arrivai al gruppo di case coloniche di cui quella avita faceva parte.
“Aiuto! Ho perso la moto!”.
Alle mie grida uscirono tutti… cani, gatti, galline, familiari e contadini a chiedere cosa fosse successo, ma io ero incapace di dare una versione coerente.
“Come persa? - fece mia madre -
Come si fa a perdere una moto?”. “La moto… il monte… persa… le frasche… non so più dove… bisogna andare!”.
Venne subito organizzata una battuta di ricerca. Nonno, zia, madre, cugini e contadini vari, tutti su per il monte alla ricerca del Benelli perduto. Ma c’era un problema: ero totalmente incapace di dare indicazioni sul dove avessi abbandonato la moto. Non mi ricordavo più nulla e i miei punti di riferimento erano del tutto vaghi e fallaci.
“Potevi metterci un calzino per segnare il punto!”, mi redarguì mia madre.
“Non ce li ho i calzini!”. L’impresa era stata condotta in Superga di tela, ovviamente.
Dopo quello che a me, sempre più disperato, parve un tempo infinito di ricerca, finalmente una voce irruppe dal folto gruppo:
“E gliè qui! L’ho tro’atha!”. L’italiano da Accademia della Crusca difettava al ragazzo che aveva finalmente scorto il relitto di cotanto naufragio. Non era quello il momento di fisime linguistiche e anche un becero toscanaccio contadinesco era musica per le mie orecchie se annunciava la lieta novella. Aveva anche qualche rotella in meno quel giovane contadino, ma per me in quel frangente era un genio!
Così, in quattro la liberammo dalla tenaglia di quei due tronchi e la portammo di peso verso un punto in cui potessi rimontare in sella e tornare, con la coda fra le gambe, ma felice, a casa.
Da quella disavventura mi limitai a giri meno ‘hard Enduro’, per usare un termine in voga ai giorni nostri. Fino al giorno in cui, guardando il lungo e brullo monte di fronte a Monte Morello, la Calvana, non mi venne l’idea di organizzare il ‘Calvana Safari’.
Ma questa è proprio tutta un’altra storia... ■