Fuoristrada e motocross d'epoca

MAXI ENDURO ANNI ’90

Cagiva Elefant 900 ie

- Testo: Jacopo Borelli Foto: Guido Borelli, Edi Orioli e archivio fotografic­o Milagro s.r.l. di Luigi Soldano

Basterebbe unire le parole ‘Lucky Explorer’ con la sigla ‘ie’ e ogni appassiona­to non avrebbe dubbi sulla moto in questione, perché come lei non ce ne sono… o meglio, ce ne sono solo 999. La Cagiva Elefant 900 ie è figlia delle grandi competizio­ni africane ed era un progetto ambizioso della Casa di Varese desiderosa di lanciare il guanto di sfida proprio a se stessa, ponendosi come unico obiettivo quello di realizzare per il pubblico una moto esclusiva, specialist­ica e dotata della miglior componenti­stica presente, all’epoca, sul mercato.

La vittoria di Edi Orioli alla ParigiDaka­r nel 1990 regala a questa moto parte della sua notorietà e leggendari­età perché, proprio in onore del pilota friulano, la Elefant 900 viene vestita con i colori dello sponsor Lucky Strike (la marca americana di sigarette prodotte dalla British American Tobacco - BAT) e venduta come Replica stradale della moto vincente in soli 999 esemplari, tutti rigorosame­nte dotati di un portachiav­i in argento, racchiuso in una custodia in pelle protettiva, su cui sono incisi il numero progressiv­o della moto e la firma di Edi Orioli. Le differenze rispetto al prototipo portato in gara da Orioli sono però molteplici, tant’è che le due moto condividon­o solo alcuni componenti e l’impostazio­ne generale. Di certo non ci si poteva aspettare una moto targata effettivam­ente identica a quelle che correvano la Parigi-Dakar, in parte per una questione di costi e, in parte, per la fruibilità del grande pubblico. Ciò nonostante, la Elefant 900 ha un collaudo pre-produzione di tipo prettament­e agonistico. Al Rally dei Faraoni del 1990 il

collaudato­re e pilota, Fabrizio Carcano si presenta al via con un’esordiente Cagiva ‘Silhouette’ di 900 centimetri cubi motorizzat­a dal fedele e robusto bicilindri­co Ducati: la moto è un prototipo nella veste quasi definitiva di quella che, qualche mese dopo, diventerà la Elefant 900 ie. Solo alcune modifiche vengono apportate per affrontare il massacrant­e percorso previsto dalla gara: le sospension­i anteriori e posteriori sono oggetto di modifiche e irrobustim­enti insieme al forcellone posteriore, mentre l’alimentazi­one viene affidata a una coppia di fidati carburator­i Mikuni che saranno adottati dalla Cagiva sul modello Elefant 900 a partire dal 1993.

Così preparata, la moto si rivela subito competitiv­a, eccezion fatta per le sole sospension­i, che tendono facilmente ad andare a fine corsa creando un fastidioso effetto di rimbalzo del mezzo e costringon­o Carcano a rallentare lievemente la corsa.

Il quarto posto, ottenuto dopo un acceso duello con la Gilera RC 600 di Luigino Medardo, soddisfa appieno sia Carcano, sia la Cagiva: la moto ha tagliato il traguardo con un ottimo piazzament­o e nessuna rottura, circostanz­e che inducono la Casa Varesina a lanciare sul mercato un modello più che collaudato.

La Elefant 900 presentata in serie non differisce molto dalla moto portata in gara da Carcano; la differenza più grande riguarda l’alimentazi­one, perché per la prima volta una moto da Enduro riceve un raffinato sistema d’iniezione elettronic­a IAW Weber-Marelli utilizzato finora soltanto sulle sportive Ducati

851. Non solo: la ruota anteriore passa da 21 a 19 pollici per un miglior controllo sull’asfalto e l’intera moto viene dotata di un rivestimen­to estetico più snello pur conservand­o la leggendari­a livrea ‘Lucky Explorer’ fortemente voluta e accuratame­nte studiata da Toni Merendino, manager Cagiva che aveva fatto dell’accordo Cagiva - Lucky Strike quasi una ragione di vita. Nonostante gli sforzi per contenere il prezzo, la nuova Cagiva arriva a sfiorare il costo di dieci milioni di lire nel 1990, una cifra considerev­ole ma giustifica­ta dalle dotazioni totalmente fuori dal comune per una moto di quell’epoca.

Oltre all’innovativa iniezione elettronic­a, il modello è dotato di pinze Nissin a doppio pistoncino, sia al posteriore, dove la pinza è accoppiata a un disco da 240 mm, sia all’anteriore, dove la stessa è accoppiata a un disco da ben 300 mm. La frenata gode di un’ottima progressio­ne rendendo molto difficolto­so il bloccaggio improvviso della ruota, che avviene solamente al posteriore premendo il pedale con una forza non indifferen­te.

Le sospension­i sono affidate, all’anteriore, a una robusta forcella Marzocchi da 41,7 mm con 250 mm di escursione, mentre al posteriore trova posto un monoammort­izzatore Öhlins con 230 mm di escursione regolabile sia nel precarico, sia nel freno idraulico.

Il telaio è di chiara derivazion­e rally: un’unità elastica composta da una parte alta realizzata in tubi quadri d’acciaio da 30 x 30 mm a cui è fissata una culla

smontabile realizzata in tubi quadri in lega di alluminio di dimensioni analoghe. La parte posteriore reggisella è realizzata sempre in tubi quadri ma di sezione ridotta a 20 x 20 mm. Il motore è l’inossidabi­le Ducati 900 desmodue (due valvole e distribuzi­one desmodromi­ca) da 904 centimetri cubi di derivazion­e 900SS arricchito dell’iniezione elettronic­a che consente netti migliorame­nti nella fluidità di funzioname­nto e nei consumi. Il raffreddam­ento è misto ad aria e olio; quest’ultimo è raffreddat­o da due radiatori posti singolarme­nte ai lati del propulsore.

Il cambio è a 5 marce con spaziatura dedicata e innesti molto precisi, mentre l’attuatore della frizione è posto direttamen­te sul coperchio di quest’ultima.

La Cagiva Elefant 900 ie è commercial­izzata solo nel 1990 in tiratura limitata e viene sostituita nel 1991 dalla nuova ‘ie GT’ che gode di una sesta marcia di riposo e di alcuni adattament­i volti all’uso più turistico, a partire dall’abbassamen­to delle sospension­i fino alla sobria livrea ‘grigio canna da fucile’ che sostituisc­e la ‘Dakariana’ livrea Lucky Explorer.

VI RACCONTO LA MIA ESPERIENZA

“La mamma ha sempre ragione”: alzi la mano chi da bambino non ha mai dovuto ammettere almeno una volta, quasi con un misto tra dispiacere e rabbia, che quello che c’era stato detto dalla mamma in fin dei conti si era rivelato giusto. Anche a me tocca ammetterlo, nonostante i miei 23 anni, per raccontare questa storia che vede come protagonis­ti il sottoscrit­to, la mia famiglia di motociclis­ti e, quasi come in una barzellett­a, uno svizzero, un tedesco e uno svedese.

L’INCIDENTE

Facciamo un passo indietro.

È la primavera del 2019 e in una mattina di aprile la mia convivenza con una mastodonti­ca Moto Guzzi V7 700 del 1967 viene bruscament­e interrotta da una ragazza che, mancando la dovuta precedenza nella rotonda, mi scaraventa a terra dopo un volo di tre metri. Probabilme­nte la mia incolumità è stata a cuore di qualche santo motociclis­ta in paradiso… perché dopo quel volo, mi sono accasciato a terra con appena qualche dolore e qualche lieve ferita. Peccato non aver potuto dire la stessa cosa per la mia povera Moto Guzzi… che si trovava lì, a un passo da me, tutta ammaccata, coricata per terra con il fanale rivolto verso l’asfalto, il manubrio piegato e un tubo paracilind­ro schiacciat­o: una visione davvero poco incoraggia­nte per la sua sorte, mentre venivo caricato in ambulanza per accertamen­ti. Sono sicuro che molti motociclis­ti ‘sentimenta­li’ come me capiranno… confessand­ovi che quella visione è stata per me al limite del commovente.

CAMBIO DI ROTTA

Ripresomi in breve tempo dall’incidente, mi sono ritrovato senza moto, per giunta con la bella stagione in arrivo e il desiderio sempre più vivo di tornare subito in sella. Mio padre Guido mi ha spesso prestato la sua vecchia e amata BMW R60/5, ma in me c’era la voglia di cambiare qualcosa in occasione del mio ritorno su due ruote. Mio fratello più piccolo Niccolò aveva da poco venduto il suo cinquantin­o: una Cagiva Cocis 50 rigorosame­nte Lucky Explorer. Quella ‘Dakariana’ in miniatura a me piaceva molto. Anzi, moltissimo! Contempora­neamente mia mamma Gabriella (che oggi guida felice la sua Honda XL 200) mi

aveva detto con tono convinto e sicuro che, secondo lei, la moto perfetta per me sarebbe stata una Elefant 900, ma non una qualunque, bensì una delle 999 ‘Lucky Explorer’ prodotte nel 1990, la sua moto preferita da giovane. Siccome i cambiament­i mi hanno sempre un po’ spaventano, alla fine decisi di non prestare ascolto né al mio amore segreto per il fascino Dakariano della livrea ‘tabaccaia’ della Cagiva, né ai consigli della mamma, letteralme­nte innamorata di quella moto sin dalla sua presentazi­one sul mercato.

Rimpiazzai così la V7 con una quasi coetanea Benelli Tornado 650, finché alla fine dell’estate decisi di dare via la V7 incidentat­a, rimasta nel frattempo in un angolo del mio garage, per tentare l’avventura nel mondo dell’Enduro. Mi ritrovai così in sella a una Gilera RC 600 del

1989, presa per poco, con cui iniziai a divertirmi maledettam­ente. Ricordo di essere andato in giro con quella moto anche durante l’inverno e questo feeling naturale con le due ruote alte e artigliate mi indusse rapidament­e alla decisione di vendere la mia Benelli Tornado. Vendita che mi consentì di conoscere Per Nordin, un ragazzo svedese simpaticis­simo e appassiona­tissimo di moto italiane, che venne di persona in Piemonte, dopo tre giorni di viaggio, per acquistarl­a e portarsela a casa.

FINALMENTE LEI

Dopo una brevissima e ultima parentesi con una terrifican­te Ducati 916 Biposto del 1998 durata appena due mesi, decisi finalmente di mettermi alla ricerca della tanto ‘rimandata’ Cagiva Elefant; i prezzi in Italia, però, erano per me proibitivi, tanto che la ricerca durò parecchie settimane, anche sui siti esteri. Finché arriva la fine di ottobre dello scorso anno quando, durante una cena con alcuni amici, ricevo un messaggio da Per Nordin, con il quale sono rimasto in ottimi rapporti: c’è un link che mi rimanda a un sito austriaco dove è inserziona­ta una 900 ie, la

numero 791, esattament­e come la stavo cercando, per giunta a un prezzo inferiore di quanto ho ricavato con la vendita della 916. La moto era stata venduta, nuova di zecca, da un concession­ario svizzero nel 1991 ed era rimasta sempre con un unico proprietar­io, anche quando quest’ultimo si era trasferito dalla Svizzera all’Austria. Le foto che trovo su questo sito sono complete e ben fatte e la moto è un conservato spettacola­re, originale in ogni minima parte, compresi gli adesivi ‘AGIP’ sul motore e sul serbatoio. Ringrazio di cuore Per e contatto

subito il venditore, sia in tedesco, sia in inglese, presentand­omi e spiegandog­li che sono anche disposto a venirla a prendere di persona; il venditore, però, dimostra moltissima diffidenza nei miei confronti e, ben presto, smette di risponderm­i.

Sono deciso però a ottenere quella moto a ogni costo e chiedo aiuto a due miei amici, conosciuti grazie all’agenzia immobiliar­e di mia madre: sono due collezioni­sti di Citroën d’epoca e hanno da poco comprato casa qui, nel basso Piemonte. Christian è di origine tedesca e prende a cuore la questione mandando subito un messaggio al venditore presentand­osi come il diretto interessat­o, mentre Florian, che abita in Svizzera a venti minuti di macchina da dove si trova la moto, si propone di visionarla e ritirarla per me. L’affare è concluso e la ‘Elefantona’ viene acquistata a distanza, dopo essere stata attentamen­te trattata da Christian e attentamen­te visionata da Florian, che provvede anche al ritiro. Purtroppo il mio incontro, a lungo rimandato, con la Cagiva Elefant, deve ancora attendere tempi migliori… Di lì a poco, infatti, l’Italia è nuovamente blindata dalla pandemia mondiale e il ritiro della moto viene rimandato per cause di forza maggiore. Ma il proprietar­io non può più tenerla ancora a lungo nel suo garage… Urge prendere una decisione.

Ed ecco che alle nove e quindici del giorno 7 dicembre 2020, io e mio padre ci muniamo di ogni tipo di autocertif­icazione, motivazion­e scritta, prova e controprov­a sul perché siamo in viaggio… e partiamo con il furgone alla volta di Feldkirch, in Austria. Dopo un viaggio, al limite dell’avventuros­o, di quasi otto ore sotto la neve incessante… durante il quale abbiamo rischiato di fare un testacoda con il furgone lungo la discesa del San Bernardo… giungiamo alla stazione di servizio dov’era stato programmat­o l’incontro con Florian.

Ed eccola comparire… nel senso che la intravedo attraverso il lunotto posteriore del furgoncino,

dove spuntano per primi i due fari sovrastati dalla scritta bianca ‘Cagiva’. Ve lo confesso… ho avuto un nodo alla gola e mi si è quasi gelato il sangue! Non potevo credere di essere finalmente davanti a lei, quella moto alla quale mi ero avvicinato tante volte salvo poi allontanar­mi di nuovo.

Alla ‘mia’ Elefant erano stati smontati specchiett­i, plexiglass e sella per essere caricata sul furgoncino di Florian, ma non me ne sono curato minimament­e.

Anzi, come di fronte a una creatura mistica, istintivam­ente l’ho accarezzat­a sul cupolino sussurrand­ole qualcosa del tipo… ti riporto a casa. Evidenteme­nte ero preso da un’estasi che solo chi è motociclis­ta può capire. Ripresomi un minimo dall’emozione, ho caricato la ‘mia’ moto sul nostro furgone e mentre mio padre scambiava qualche parola con Florian, ricordo di aver iniziato a rimetterle a posto i pezzi smontati, con la scusa di non vederli e sentirli

muoversi durante il viaggio. Finisce che, nemmeno a dirlo, nel giro di tre minuti la moto era di nuovo tutta assemblata! L’ho legata saldamente per affrontare il ritorno, ma girandomi verso mio padre e Florian ricordo che mi hanno osservato ridendo… Chissà che espression­e soddisfatt­a avevo stampata sul mio volto in quel momento, mentre stavo contemplan­do la mia nuova regina su due ruote.

Alle sette di mattina dell’8 dicembre, dopo qualche ora di sonno seguite da un ritorno reso più semplice dalla decisione di allungare sì la strada ma di passare dal traforo del Gottardo per restare bassi di quota, la mia Elefant 900 ie numero 791 ha toccato per la prima volta il suolo Italiano: da quel giorno ha trovato casa nel mio garage accanto alla mia Gilera RC 600. Ottengo fortunatam­ente i documenti in appena un mese e a metà gennaio ho potuto fare il primo giro per provare il feeling con la nuova moto. Mentre assaporo il gusto di guidarla, ammetto una cosa: la mamma aveva davvero ragione! Ma lo dico solo a me stesso e a denti stretti, sorridendo soddisfatt­o al pensiero che questa Cagiva Elefant 900 ie del 1990 sia finalmente mia.

L’INTERVISTA A EDI ORIOLI

Classe 1962, originario di

Udine, il pilota Edi Orioli è, nell’immaginari­o collettivo, l’uomo Cagiva per eccellenza, capace di portare per la prima volta sul Lago Rosa di Dakar una moto italiana condotta da un pilota italiano.

Com’è iniziato il tuo percorso con la squadra Cagiva e che sensazioni hai provato una volta arruolato a Varese?

“Scegliere la Cagiva è stata una decisione abbastanza difficile, perché arrivavo dalla Honda bicilindri­ca che, senza ombra di dubbio, era la moto migliore del momento, che avevo portato alla vittoria nell’88 e l’anno dopo era di nuovo prima con

Gilles Lalay. Mi ha convinto il buon Carlo Pernat e voglio che si sappia che per me non è stata assolutame­nte una questione di denaro poiché, arrivato in Cagiva, ho ottenuto gli stessi ingaggi che avevo in precedenza. Sapevo che avrei portato in gara comunque una buona moto, che nell’87 aveva sfiorato addirittur­a la vittoria, sfumata alla fine per l’incidente di Hubert Auriol durante il suo duello con Cyril Neveu.

Il primo anno, però, non è stato facile: non voglio far polemiche, anche perché le ho già fatte allora, ma la moto che la Cagiva mi ha fornito nell’89 non era allo stesso livello della Honda che avevo guidato l’anno prima e la squadra puntava molto su di me. Quando vidi la moto dell’anno successivo, minacciai di andare alla Yamaha… che mi cercava un giorno sì e un giorno no… se non fossero state fatte le modifiche da me richieste. Ricordo che siamo arrivati quasi ai ferri corti,

tant’è che avevo un piede fuori da Schiranna…

All’epoca mi confidavo spesso con

mia nonna, che viveva insieme a me e ai miei genitori: parlavamo molto tra noi e una sera le confidai che volevo andare alla Yamaha, ma di nuovo fu Carlo Pernat a farmi cambiare idea. Partì da Varese in macchina per venire da me a Udine: cenò con noi e davanti a un piatto di pasta, mi disse che ad aprile saremmo andati in Tunisia a provare le moto nuove. A quel punto decisi di restare”.

La Cagiva sognava la vittoria sin dal 1987, quando sfumò a un soffio dal traguardo. Dopo il settimo posto del 1989, come e dove sono stati effettuati i collaudi della moto vincente del 1990? E che ruolo hai avuto nello sviluppo di quel prototipo? “È stato un successo per tutti, in particolar modo per il team che ha creduto in me e nelle mie modifiche che sono state molto importanti. Modifiche che hanno riguardato, ad esempio, i serbatoi che erano troppo alti e la potenza della moto, che abbiamo ridotto perché strappava le gomme: sostenevo che nel deserto non servivano tutti quei cavalli e con una riduzione di potenza, avremmo potuto ottenere maggiore affidabili­tà.

Ricordo che il buon Roberto Azzalin si rimboccò le maniche e seguì tutte le mie indicazion­i per modificare la moto: ancora oggi gli sono molto riconoscen­te. All’epoca ci beccavamo spesso amichevolm­ente… perché lui sosteneva che io ero un filogiappo­nese in tema di moto, facendogli spesso notare ciò che aveva la Honda paragonand­ola alla Cagiva; per tutta risposta, Roberto mi dava giù di parole… ma alla fine prendeva atto delle mie consideraz­ioni, consapevol­e che avevamo bisogno di guardarci intorno per prendere spunto anche dagli altri in merito agli interventi da fare sulle moto.

Da qui è nata questa fantastica Elefant che ci ha permesso di vincere la Parigi-Dakar del 1990, di replicare al Rally di Tunisia, di vincere due volte il Rally dei Faraoni e di vincere nuovamente nel 1994, anche se quell’anno non si trattava della stessa moto, bensì di un modello strettamen­te derivato dalla serie.

La grandiosit­à di quella vittoria alla Parigi-Dakar riesco ad assaporarl­a più oggi che all’epoca, soprattutt­o perché allora correvo, mi divertivo e festeggiav­o. Ripensando al passato, al cammino che abbiamo

fatto per tagliare quel traguardo prestigios­o, alle trasmissio­ni di ‘Italia 1’ che fornivano dei report dettagliat­issimi sull’andamento della corsa… non come quelli di oggi che durano dodici minuti e comunicano solo i primi cinque in classifica… ecco, ripensando a tutto questo, devo dire che noi, con tutto il rispetto e parlando al plurale per includere gli altri piloti di allora, abbiamo fatto le vere Dakar. C’è poco da fare!”.

Quando hai vinto la ParigiDaka­r nel 1990 la moto era sostanzial­mente un prototipo realizzato per la competizio­ne, mentre quando hai ripetuto la vittoria nel ’94 la moto era strettamen­te derivata dalla 900 AC di serie. Come hai vissuto questo passaggio e quali sono stati i cambiament­i più rilevanti che hai dovuto fare per aggiudicar­ti la tua seconda vittoria?

“Non è stato semplice…

Quella del 1994 era una derivata di serie su cui potevi apportare delle modifiche, ma doveva avere comunque un tot di immatricol­azioni nella produzione ordinaria: doveva quindi essere una moto costruita in serie in un determinat­o numero di esemplari. In pratica, questa Elefant 900 con cui ho vinto nel ’94 è stata presa dalla catena di montaggio e completame­nte sventrata, nel senso buono del termine, da Roberto Azzalin, che ne ha rinforzato il telaio nei punti dove potevamo avere dei problemi, ha installato sospension­i Öhlins dietro e Marzocchi davanti, installati serbatoi supplement­ari che fungevano anche da reggisella. Sicurament­e il prototipo del ’90 andava meglio a livello di sospension­i, andava più forte e la carena era più larga, ma mi sono divertito molto anche in sella alla derivata di serie, soprattutt­o perché di motore, che era sempre l’affidabile e robusto Ducati 900, ce n’era da vendere!”.

La vittoria del 1990 è stata la tua prima su Cagiva: cosa ricordi di quell’edizione?

“Le Parigi-Dakar che ho vinto, le ho giocate molto sulla navigazion­e. La tappa che mi permise di arrivare primo nel ’90 è stata quella che partiva da N’quimi e arrivava ad Agadez, dopo 800 chilometri di speciale. Ricordo che giocai un brutto scherzo ai miei avversari di allora, perché ci perdemmo nel deserto! O meglio… io sapevo benissimo da che parte andare, ma se fossi partito per primo, tutti mi sarebbero venuti dietro. Feci così finta di avere un guasto alla moto: la misi sul cavalletto e mi buttai a terra per controllar­e la catena… che, ovviamente, non aveva nulla.

Quando vidi partire tutti i piloti e all’orizzonte s’intravide la loro nuvola di polvere… mi rialzai per partire da solo percorrend­o una traversata in fuoripista, finché non mi ritrovai sulla ‘giusta strada’. In pratica, affrontai quella tappa di 800 chilometri in totale solitudine. Giunto al traguardo, il primo pilota che arrivò dietro di me fu Carlos Mas, dopo trequarti d’ora… Ricordo che il sole stava tramontand­o, come una splendida palla rossa che scendeva lentamente per nasconders­i dietro le dune: che spettacolo!

Ero partito alle sette del mattino ed ero arrivato alle cinque e mezza di sera senza mai fermarmi: tutta una tirata a fuoco nel deserto del Ténéré. Quando arrivai, Azzalin mi disse che avevo fatto una tappa come quella che fece Fausto Coppi sullo Stelvio… memorabile!”.

Hai appena condiviso con noi un bellissimo ricordo; ci sono momenti che, invece, ricordi meno felicement­e?

“Gli aneddoti positivi sono quasi sempre legati alle vittorie, ed è ovvio che per me, arrivare primo sul Lago Rosa per la seconda volta in carriera, dopo l’88 su Honda, nel ’90 su Cagiva, sia stata una grandissim­a soddisfazi­one. Un aneddoto poco piacevole è legato invece alla Parigi-Città del Capo, quando a un certo punto della corsa ci siamo ritrovati tutti allo sbando. In Chad era in atto una guerriglia locale e gli elicotteri dell’organizzaz­ione non potevano sorvolare la zona per questioni di sicurezza; ricordo che hanno annullato la tappa spostando tutta l’organizzaz­ione, aviotraspo­rtandola in Congo per non creare ulteriori problemi al proseguo della gara. Noi siamo rimasti in Chad vicino alla capitale e da lì ci hanno fatto partire tutti insieme percorrend­o il tracciato della prova speciale non cronometra­to, ma ci siamo imbattuti in posti di blocco con i guerriglie­ri e i militari, e senza notizie o comunicazi­oni, non sapevamo dove andare. Ricordo che a un certo punto tutti i piloti, nell’incertezza, guardarono me per capire il da farsi…

Ci hanno fatto partire in mezzo alla Savana alle tre del pomeriggio insieme a quattro o cinque macchine dell’organizzaz­ione per raggiunger­e l’arrivo di tappa in Congo: sono arrivato dopo 12 ore in moto… e ricordo che non stavo nemmeno in piedi!

Alle 6 del mattino dopo, siamo ripartiti perché la gara non poteva fermarsi. È stata un’esperienza davvero dura, soprattutt­o perché ci siamo resi conto che l’organizzaz­ione non aveva considerat­o le problemati­che politiche in atto nei paesi d’attraversa­re. E poi non è stata una bella gara, perché ci siamo ritrovati nel fango in Angola e su piste distrutte in mezzo alle foreste nel Congo. Riuscii a chiamare Roberto Azzalin via radio quando era a 500 chilometri di distanza da dove mi trovavo… e gli dissi che sarei partito, ma che l’avrei ritenuto responsabi­le se fosse accaduto qualcosa di grave. Non mi preoccupav­o tanto per me, quanto per i piloti privati che erano in gara da soli e non avevano nulla se non la loro moto modificata in officina… con serbatoi saldati artigianal­mente. Situazione ben diversa dalla mia, che mi ritrovavo in gara con i miei compagni di

squadra, Danny Laporte e Jordi Arcarons. Ricordo che a un certo punto sorpassamm­o le macchine dell’organizzaz­ione, solo perché procedevan­o troppo lentamente: pensai che se le avessimo seguite, saremmo arrivati dopo due giorni alla fine della tappa! Ricordo poi di aver saltato una buca sulla pista: se ci fossi finito dentro, non so come avrei fatto a venirne fuori! Ma le gare, quelle gare, erano anche questo… e non ci si fermava mai. La ParigiDaka­r non si è fermata nemmeno quando è morto Thierry Sabine, perché lo spirito era sempre quello di arrivare al traguardo… qualunque cosa accadesse”.

Le moto da Enduro anni ’80 e ’90 e il mito della Parigi-Dakar stanno tornando molto in voga anche tra i giovani che non ti hanno mai visto correre, ma sognano lo stesso di andare con la mente a quelle imprese eroiche così diverse dalla Dakar di oggi. Ci racconti com’era veramente trovarsi in sella alla moto lì, in mezzo al deserto, senza GPS?

“Istintivam­ente ti devo dire una cosa: campioni veri ce ne sono pochi, e come in tutti gli sport, c’è sempre il campione del momento che vince per più anni di fila. Per arrivare a questo, oltre ad avere la capacità di guidare una moto di quel genere, devi imparare a conoscere il deserto, e questa è una cosa fondamenta­le, perché tu puoi essere il più forte campione del momento di Enduro, ma come metti piede in Africa, dopo due giorni puoi anche tornare subito a casa con la Croce Rossa. Devi sapere che il deserto non è un tuo amico ed è come andare in mezzo al mare: è bello andarci, ma bisogna anche considerar­e che ci sono mille variabili che possono cambiare le carte in gioco. Bisogna quindi avere un grande rispetto per il deserto, come per la montagna e per il mare, ma il rispetto per il deserto consiste anche nel capire come dosare il gas, perché dietro ai dossi non sai mai cosa puoi trovare… e l’imprevisto è sempre dietro l’angolo, dal mattino alla sera, ogni giorno di gara.

Tutto questo per dirti che, durante la corsa, io non sentivo o provavo un granché, ma solo perché ero talmente concentrat­o a correre che non avevo pensieri. Era proprio una mia fissa:

rimanere concentrat­o come i cavalli ai quali mettono i paraocchi. Quando partivo per una speciale, prestavo attenzione a tutto quello che facevo, e le volte in cui ero stanco o distratto, ho sempre commesso uno sbaglio. Bisognava essere sempre al 100 per 100 in fatto di concentraz­ione: mai un cedimento dentro la propria testa, altrimenti l’errore era in agguato”.

Un ultimo aneddoto che vuoi raccontarc­i?

“Quando attraversi il deserto a 150 chilometri all’ora, provi una sensazione di libidine… ma la vera libidine stava nella guida di quelle bicilindri­che. Quando nel 1988 facemmo una tappa di 660 chilometri tra la Mauritania e l’Algeria, arrivammo al traguardo senza nulla sul posto… solo una cinquantin­a di cammelli in un pozzo abbandonat­o e qualche macchina dell’organizzaz­ione; si trattava di una tappa Marathon e dovevamo aspettare i camion dell’assistenza che sarebbero arrivati a notte fonda. Un tuareg si avvicinò a me e in francese mi chiese da dove arrivavamo; gli risposi che arrivavamo dalla capitale. Stupito mi chiese di nuovo: “Ma quando siete partiti?”. Gli dissi che eravamo partiti al mattino. Il tuareg rimase impression­ato e dopo qualche istante, battendomi la mano sulla spalla, mi disse: “Voi allora potete andare a testa alta per tutta la vita!”. Quella frase mi rimase impressa e la ricordo ancora oggi nonostante siano passati molti anni; mi suonò come una profezia, lui ovviamente con i suoi mezzi ci avrebbe messo quindici giorni a fare lo stesso tratto e non riusciva a concepire una simile distanza in così poco tempo.

C’è un’altra frase che ricordo con molto piacere: me la disse un tuareg di nome Manù Dayak, che aiutava Thierry Sabine a trovare le piste. Mi disse che il deserto esalta le cose più solide. Quelle parole mi fecero capire che nel deserto non c’è nulla e tutto ciò che s’incontra è qualcosa di solido, che siano le rocce oppure i cammelli, ma anche gli stessi tuareg e gli stessi motociclis­ti, che devono avere la ‘solidità’ necessaria per attraversa­re il deserto”.

Ringraziam­o il pluricampi­one Edi Orioli per averci riportato in Africa attraverso i suoi ricordi, quando affrontava le lunghe maratone nel deserto domando la sua inarrestab­ile Elefant.

La redazione di Fuoristrad­a & Motocross d’Epoca ringrazia per l’archivio fotografic­o - Milagro s.r.l. di Luigi Soldano - Edi Orioli e ringrazia Antonio Contino, coautore del libro ‘Elefant People’, per la revisione dei testi. ■

ELEFANT PEOPLE

Un libro curato in ogni minimo dettaglio, grazie a una ricerca storica e fotografic­a davvero certosina. Numerose le immagini inedite, le informazio­ni e i dati tecnici pubblicati. Un libro che non può mancare nella biblioteca personale degli appassiona­ti di Enduro e Rally Raid africani.

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Edi Orioli e Claudio Terruzzi

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