Fuoristrada e motocross d'epoca
LA ‘PANTERA ROSA’ DEL MOTOCROSS
Questo soprannome gli fu dato per il colore, alquanto inusuale all’epoca, della divisa che indossava in gara; lo scorso 18 luglio ha spento 60 candeline e questa intervista, realizzata 35 anni dopo il suo successo nel Campionato del mondo classe 250, è il nostro modo di fargli… tanti auguri!
Jacky Vimond è stato il primo francese a fregiarsi di un Titolo iridato nella storia del Mondiale di Motocross, ma soffermarsi su questo record sarebbe riduttivo, perché la vita sportiva del fuoriclasse transalpino è intrisa di momenti ricchi di valore umano. L’asso d’oltralpe è diventato, inoltre, un precursore in vari campi, dimostrando lungimiranza e decisione in alcune scelte non semplici da prendere all’epoca. Per celebrare il suo 60esimo compleanno, l’abbiamo intervistato ripercorrendo le tappe principali della sua carriera, a 35 anni esatti da quel successo nel Campionato del mondo classe 250 che l’ha consegnato per sempre alla storia del Motocross.
Jacky è un uomo che, a più riprese, ha sfidato e vinto il destino… soprattutto quando riuscì a riprendersi dallo sfortunato infortunio patito nel corso dei festeggiamenti per il suo trionfo nel torneo iridato del 1986.
Era il 10 settembre quando al ‘Paradis Latin’ di Parigi, Jacky precipitò da un’altezza di circa cinque metri mentre stava per essere calato a terra con una piattaforma ideata per realizzare un’entrata in scena spettacolare; uno dei tiranti si staccò e Vimond riportò numerose fratture in varie parti del corpo. Dopo un calvario lungo un anno, arrivò per lui il momento della rivalsa. Anche in quel caso il francese mise in campo l’ardore e la passione che sono insite nel suo cuore, diventando con pieno merito un personaggio cardine di questo sport, tanto da essere celebrato ancora oggi, con molto entusiasmo, dagli appassionati.
Jacky, dove ha preso forma la tua passione per il Motocross? “Tutto è nato da mio padre, colui che ha fatto conoscere lo Speedway e, in parte, il Motocross in Francia. Abitavamo in Normandia, molto vicino quindi all’Inghilterra, e dato che nel nostro Paese il Motocross non era ancora diffuso, lui decise di portarci oltremanica per far intraprendere a me e ai miei fratelli l’avventura nel fuoristrada. Avevo 7 anni quando iniziai a prendere parte alla ‘School Boy’; ero ancora un bambino e mio padre voleva anche dimostrare alla Federazione Motociclistica transalpina che questo sport poteva essere praticato già in tenera età. Oltre a correre, in quel periodo seguii da vicino mio fratello più grande Denis, che poco tempo dopo vinse il primo Campionato Francese Junior classe 125 della storia. Entrambi eravamo in sella a mezzi che, in origine, erano di tipo stradale e, in seguito, venivano modificati da mio padre. Non potevamo gareggiare alla pari, ma fin da quei primi momenti compresi che questo mondo avrebbe fatto parte della mia vita”.
Cosa ricordi delle tue prime gare?
“Ci sono tanti momenti che porto ancora con me di quel periodo. Dopo aver disputato le prime corse in Inghilterra, riuscii a gareggiare anche in Francia con la moto di mio fratello. Il mio debutto in casa fu una sorpresa, perché alla vigilia della prova non pensavo di correre. In programma c’era una gara di Campionato regionale e mio padre aveva portato con sé
1. CLASSE 1961, JACKY VIMOND HA PARTECIPATO AI CAMPIONATI MONDIALI DI MOTOCROSS DAL 1979 AL 1990, ED È NOTO ANCHE PER ESSERE STATO IL PRIMO PILOTA FRANCESE A VINCERE UN TITOLO IRIDATO IN QUESTA SPECIALITÀ OFF ROAD.
una moto in più: pensavo fosse per un amico, ma in realtà fu preparata proprio per me. Disputai quella corsa sottotraccia… avevo, infatti, 15 anni e a norma di regolamento non avrei potuto scendere in pista. Rimasi in testa alla prova per svariati giri, prima che una caduta mettesse fine alle mie velleità di classifica. Pochi mesi più tardi, a 16 anni, presi parte al Campionato Junior portando a casa il primo Titolo della mia carriera agonistica. Quel successo fu il frutto della notevole formazione fatta in Inghilterra nel periodo giovanile”.
Il successo conseguito portò cambiamenti degni di nota… “Esatto! Fui contattato dalla Yamaha per gareggiare nella categoria ‘élite’ del Campionato nazionale. Essendo ancora minorenne, il contratto fu firmato anche da mio padre; c’era una clausola che lo impegnava a lasciarmi libero al mattino per potermi allenare, mentre nel pomeriggio avrei continuato a lavorare nell’officina di famiglia. Da semplice hobby, la mia attività nel Motocross stava mutando, divenendo una cosa sempre più professionale”.
La crescita esponenziale ti portò in breve tempo a disputare il Mondiale classe 125.
Quanto fu importante quel periodo per la tua carriera?
“Furono anni significativi per la mia vita sportiva. Nel 1981 corsi la prima stagione completa in un torneo iridato, mentre nell’annata seguente conclusi al sesto posto. All’inizio del 1983, per colpa di una peritonite che mi causò un’embolia polmonare, fui costretto a saltare la preparazione invernale. Rimasi a letto un mese intero, persi 15 chili e dovetti ricorrere a vari farmaci anticoagulanti che mi impedirono di continuare l’attività. Decisi di andare in montagna nel tentativo di riprendermi un po’ a livello fisico. Da lì partii per disputare il primo GP della stagione. Non avevo mai visto e provato la nuova Yamaha… per giunta ero senza allenamento, ma non mi diedi per vinto! I responsabili della Casa non volevano farmi correre, ma ero troppo deciso… niente e nessuno mi avrebbe fermato!
I giapponesi, però, non mi diedero la moto ufficiale, bensì quella standard; m’importò poco, perché volevo solo tornare a gareggiare.
La prova inaugurale si disputò in Olanda, sulla terribile sabbia che contraddistingueva quelle zone. Conclusi nono nella prima manche, prendendo addirittura punti in Campionato. Lasciai tutti a bocca aperta, tanto che dopo quell’impresa, mi fu dato il soprannome di ‘Maximum’.
Quella prova fu fondamentale per ricominciare e da lì iniziai sempre più a crescere, tanto da capire fino in fondo qual era il mio vero potenziale. Terminai il Mondiale in settima posizione, un risultato che mi rinfrancò dopo le problematiche fisiche patite. Di diverso avviso fu il responsabile della Yamaha Sonauto, che annotò solamente la mia retrocessione nella classifica finale rispetto al 1982…”.
Le sorprese però non erano ancora finite, perché ti fu imposta la partecipazione alla Parigi-Dakar…
“Già, in pratica ci fu una sorta di ricatto nei miei confronti. Il numero uno della Yamaha Sonauto, Jean Claude Olivier mi disse che, per avere il supporto del team anche nella stagione successiva, avrei dovuto correre la celebre corsa nel deserto africano che partiva dalla capitale francese. La squadra era orfana del loro pilota di punta e il mio compito era quello di sostituirlo. Così, a ottobre, mi recai in Marocco per svolgere i test e il primo gennaio 1984 iniziai quell’esperienza inedita. Percorsi tredicimila chilometri nell’arco di venti giorni… e fu la mia preparazione in vista della nuova stagione agonistica”.
Il 1984 segnò il tuo approdo alla classe 250. Da cosa dipese quel passaggio di categoria e quale fu il bilancio di quell’annata?
“Fu una mia decisione, scaturita anche dagli ottimi risultati colti nel Campionato francese 1983 della quarto di litro, dove agevolmente avevo vinto il Titolo in palio. All’esordio rimasi abbastanza sorpreso della vittoria ottenuta nella manche d’apertura che si disputò sul tracciato di casa di Saint Jean d’Angely. Nella manche successiva ero nuovamente in testa, ma per colpa di un problema meccanico, caddi e persi terreno. Nonostante le avversità, continuai la gara, riuscendo comunque a prendere punti. Fu una stagione caratterizzata da alti e bassi e, proprio per questo motivo, la stampa francese mi diede un nuovo soprannome, 50%... dovuto alla continua altalena di risultati incamerati nel corso del Campionato. Non ero ancora
pronto per il Titolo, ma quel secondo posto finale mi lasciò preziosi insegnamenti in vista del 1985”.
La stagione seguente ti vide arrivare a un passo dalla gloria, dopo un gran duello con l’austriaco Heinz Kinigadner. “Sentivo che mi era mancato qualcosa per raggiungere il successo assoluto nel 1984, tant’è che nell’inverno seguente mi allenai come non mai, recandomi anche negli Stati Uniti d’America per intensificare la preparazione. Analizzandolo a posteriori, questo sovraccarico di lavoro fu una scelta eccessiva che mi costò il trionfo in favore del pilota austriaco. Mi presentai a inizio Campionato in forma smagliante, raccogliendo affermazioni e piazzamenti da podio che mi installarono subito al vertice della classifica generale. A partire dal mese di luglio, però, mi accorsi che i rivali iniziavano a recuperare punti. Mi sentivo al limite ed ero in debito d’ossigeno, mentre gli altri progredivano sempre più. Alla vigilia dell’ultima prova, in Germania, decisi di isolarmi, preparandomi intensamente per quella gara decisiva. Credevo di essere forte e pronto, ma quando scesi in pista per le qualifiche, compresi che sarebbe stata molto dura.
Nella prima manche, alla partenza fui coinvolto in una caduta e questo condizionò ulteriormente la situazione. Al via dell’ultima frazione, io e Kinigadner eravamo divisi da un solo punto: pertanto, chi fosse arrivato davanti all’altro, si sarebbe assicurato il successo finale. Purtroppo mancai quel Titolo per due sole lunghezze. Compresi fino in fondo che ogni singolo punto vale molto più di quanto si può capire e ne pagai il prezzo sulla mia pelle. Dopo quella sconfitta, secondo una parte dell’opinione generale avrei dovuto intraprendere una nuova esperienza nella classe 500, altri addirittura mi dissero di appendere il casco al chiodo… ma non ascoltai nessuno e tirai dritto per la mia strada”.
A quel punto arrivò un’offerta davvero prestigiosa.
“Poco dopo la chiusura della stagione, la KTM mi propose un contratto molto importante, perché dopo il passaggio di Kinigadner nella classe 500, era alla ricerca di un altro pilota per la quarto di litro. Ero consapevole delle pecche commesse negli ultimi mesi ed ero altresì consapevole che non erano dipese dalla moto, con cui mi trovavo a mio agio. Cambiare avrebbe significato trovarmi davanti a un punto interrogativo, con il rischio di non sentirmi più in sintonia con il mezzo meccanico. Nonostante la lauta proposta, rifiutai l’offerta e mi concentrai sul Campionato del mondo 1986”.
Le accortezze avute per evitare gli errori del passato diedero in breve tempo i loro frutti. Cosa fu modificato nel dettaglio per raggiungere la vittoria iridata? “La preparazione fu impegnativa come sempre, ma questa volta prima dell’avvio del Mondiale mi concessi un paio di settimane di riposo: staccare la spina, pur non dimenticando l’attività fisica, mi diede modo di dosare le energie. Questo mi evitò il calo accusato nell’annata appena trascorsa e mi permise di essere più regolare nel corso di tutta la stagione. Riuscii, inoltre, a reagire con più vigore alle battute d’arresto subite, mettendo in campo un grande carattere dopo momenti non facili da gestire”.
Il Mondiale 1986 ti vide assoluto protagonista, con un dominio netto che ti permise di conquistare il Titolo con largo margine sugli avversari. Che valore ha avuto per te?
“È un qualcosa che non si può dimenticare, soprattutto se ripenso al modo in cui fu costruito e ottenuto. Era quello che
volevo: vincere e convincere, dimostrando una superiorità inappellabile. Le cose andarono proprio così e ciò mi regalò una soddisfazione enorme. Conquistare la matematica certezza dell’alloro iridato con due GP d’anticipo sul finire del Campionato, fu la dimostrazione autentica del lavoro che svolsi incessantemente nel corso di quei mesi”.
Come fu accolta quella vittoria dalla stampa francese? “Paradossalmente ci fu più risalto nel 1985 che in quella circostanza, forse perché molti si aspettavano quel successo e sapevano che, ormai, era alle porte. Certo, fu messo in risalto e mi invitarono diverse emittenti televisive, ma mancò quell’effervescenza che c’è sempre in questi frangenti. Proprio per questo motivo, la Yamaha decise di rilanciare l’interesse per il trionfo nel Mondiale 250 con l’evento al ‘Paradis Latin’, dove intervennero più di 300 giornalisti: una serata che cambiò la mia vita”.
Dai festeggiamenti alla grande paura per l’incidente che rischiò di porre fine alla tua carriera. Come furono i mesi seguenti allo sfortunato infortunio che patisti?
“Un momento di festa si era trasformato quasi in un dramma… Dopo l’infortunio patito nel grande salone situato a Parigi, il primo pensiero fu quello di poter tornare a camminare, ma quando ebbi la certezza che avrei potuto farlo, pensai immediatamente a risalire in sella. Sentivo una grande voglia di rivalsa contro un destino beffardo e assurdo. Feci tutto il possibile per accelerare i tempi di recupero e questa determinazione mi aiutò a rientrare in gara prima del previsto. Dopo quasi un anno di riabilitazione, scesi nuovamente in pista nell’ultima prova del Mondiale 1987, classe 500, in Svizzera. Se non fosse stato per un problema tecnico nella manche d’apertura, avrei potuto fare anche meglio nel GP, ma mi sentii comunque soddisfatto del terzo posto ottenuto nella frazione conclusiva”.
Il vero capolavoro, però, fu quel quinto posto assoluto nel torneo iridato 1988 della mezzo litro… “Sì, in particolar modo porto nel cuore il successo ottenuto nel
GP di Svezia: avevo sconfitto le avversità e con quel trionfo cancellai il risentimento provato negli ultimi due anni. Per molti fu una semplice vittoria, ma per me ebbe un valore che le parole non possono descrivere appieno. Fu l’unica affermazione assoluta nella 500, ma poco importa, perché avevo dimostrato il mio valore”.
A fine stagione, il Motocross delle Nazioni ti vide protagonista sul tracciato di
casa di Villars Sous Ecot, grazie alla piazza d’onore ottenuta in squadra con Jean Michel Bayle e Yanning Kervella. Cosa ricordi di quella giornata?
“Fu un momento meraviglioso, merito anche del pubblico davvero numeroso che ci incitò dal primo all’ultimo giro. Rappresentare il proprio Paese dinanzi a tutti quegli appassionati fu un impegno non da poco e, al tempo stesso, una sensazione strepitosa, capace di spingerci a realizzare cose impensabili in un contesto normale. Ripensando alla gara, mi rammarico di aver mancato la seconda posizione nella classe 500 per una piccola scivolata. Terminai comunque nella top 3, un risultato significativo nella prova più attesa dell’anno. Tutta la squadra diede il meglio di sé: del resto eravamo molto coesi e grazie anche a questo, per la prima volta nella storia del Motocross, riuscimmo a portare la Francia sul podio. Un’emozione talmente potente da sentirla ancora viva sulla pelle”.
Le due stagioni successive ti videro meno protagonista, tanto che alla metà del 1990, decidesti di appendere il casco al chiodo. Come andò quell’ultimo biennio di gare? “All’inizio del 1989 subii un nuovo intervento al ginocchio e, mentre stavo recuperando dall’operazione, la Yamaha mi comunicò l’interruzione delle attività nella classe 500, cosa che mi dispiacque molto. Mi preparai ancora meglio rispetto all’annata precedente a livello fisico, accasandomi alla Honda: il mezzo meccanico sembrava promettere bene, ma una volta in pista… la situazione si palesò piena di difficoltà. Quando mi presentai al via del Mondiale, compresi inoltre che tutta la forza fisica e mentale messa in campo nel 1988 si era esaurita. Per ritrovare quelle sensazioni, per un periodo decisi di allenarmi con una 125. La reazione fu buona, tanto che in una gara internazionale che si svolse in Francia, ottenni risultati importanti. La seguente prova iridata, a Namur, spense però ogni speranza, complice un infortunio allo scafoide.
Pensai così di tornare alla classe 250 nel 1990, ma fu un errore di valutazione. Mi rendevo conto che in gara non sceglievo più le traiettorie migliori, bensì quelle che mi avrebbero dato meno problemi alla schiena. Dopo il trauma cranico subìto nel GP della Cecoslovacchia, andai dal chirurgo per valutare cosa potevo fare per attenuare i miei problemi fisici, ma non c’era più una via d’uscita. Avevo fatto tutto quello che era nelle mie possibilità, ma presi coscienza della situazione e alla fine mi ritirai”.
A distanza di anni, qual è il bilancio complessivo della tua carriera da pilota? “Posso affermare di aver realizzato una parte del mio sogno. Non ho ottenuto la vittoria nel Mondiale 500 e di questo mi dispiaccio, ma non ho rimpianti per quanto fatto e questo penso sia la cosa più importante. Essere diventato il primo francese a vincere un Campionato del mondo è stato molto soddisfacente, ma il fulcro di tutto ciò sta nel percorso intrapreso per arrivare fino a quel punto. Un tragitto ricco di emozioni e lezioni di vita, che mi ha portato a essere l’uomo che sono. Un bagaglio interiore fatto di cose più o meno buone, frutto di un’attenta riflessione su me stesso, che cerco di trasmettere ai ragazzi che oggi seguo in pista”.
Nonostante siano passati oltre tre decenni dal tuo ritiro, nessuno ha dimenticato l’originale livrea che indossasti nel Mondiale 250: da qui nacque il soprannome ‘pantera rosa’… “Se ci penso è incredibile!
Ancora oggi, specialmente in
Italia, gli appassionati mi fermano chiamandomi così. All’epoca, quando decisi di adottare questa linea di colore rosa, la Yamaha Sonauto si oppose con forza, anche perché la mentalità era diversa rispetto a quella odierna. Portai avanti l’idea fino in fondo e alla fine ebbi ragione, tanto che anche gli scettici dovettero ricredersi. In breve tempo, infatti, divenne un segno distintivo che suscitò un grande impatto a livello mediatico”.
Sei stato un precursore sotto vari aspetti, una caratteristica che ti ha accompagnato per tutta la tua carriera…
“Sì, ma molte di queste cose
arrivarono da sole, senza studiarle a tavolino. Oltre a essere diventato il primo pilota transalpino titolato a livello mondiale e al fatto di aver adottato una linea con un colore inusuale come il rosa, sono stato anche il primo allenatore nazionale in Francia. Ho costruito con il tempo questa figura, appoggiato dalla Federazione Motociclistica transalpina, e ho creato dei protocolli per formare altri istruttori nel mio Paese, con l’obiettivo di avere almeno un preparatore per ogni Regione”.
Dei tuoi colleghi del tempo, c’è qualcuno con cui hai legato in particolar modo?
“Ho un bel legame con Renato Zocchi e Stefano Gualdani, e da qualche anno si è instaurato un rapporto bellissimo con Andrè Malherbe. Per me lui è stato un modello da seguire, capace di alzare l’asticella del Motocross a livello internazionale, anche sotto il profilo dell’immagine. La nostra amicizia ha iniziato a cementificarsi dopo il suo infortunio alla ParigiDakar avvenuto nel 1988: mi chiese il contatto dell’équipe medica che mi aveva operato due anni prima alla schiena e da quel momento il nostro rapporto è cresciuto sempre più”.
Cosa ti manca del Motocross degli anni Ottanta?
“Ho nostalgia di tante componenti, in primis quella umana. A quei tempi, poi, dalla tipologia del tracciato capivi in quale Stato ti trovavi, mentre oggi è tutto asettico. A ogni GP, il pilota doveva adattarsi ai vari fondi delle piste, anche perché ogni organizzatore aveva il suo modo di prepararle, cosa lontana anni luce dalla situazione odierna. Fuori dalle piste poi, prima di una gara, si giocava e si scherzava, fattore che favoriva un ambiente sereno e bello da vivere. Oggi il professionismo si è evoluto in maniera notevole e anche tra i piloti non c’è più il rapporto che esisteva fra noi in quegli anni”.
Oltre ai primati e alle vittorie conseguite, Jacky Vimond è rimasto nei cuori dei tifosi perché ha gettato il cuore oltre l’ostacolo in più di un’occasione. Quando tutto sembrava remargli contro, il francese ha sempre saputo rialzarsi, faticando e lottando per riconquistare quanto perso in precedenza. Il Titolo iridato lo ha consacrato in questo sport, ma negli occhi di tutti sono rimaste soprattutto le imprese ottenute in condizioni di estrema difficoltà, a partire da quel rientro in gara dopo un solo anno di lontananza dalle competizioni. Un uomo capace di valicare il limite della sofferenza, salendo di nuovo sul gradino più alto del podio dopo aver sfidato e sconfitto il destino.
Chapeau, Jacky!