Game Pro

False questioni ontologich­e

- Federica Farace

Si sono sprecati fiumi di parole, nel corso degli anni, per cercare di definire cosa sia il videogioco e quali siano le caratteris­tiche che lo rendono quello che è: dall’analisi della parola stessa, “video-gioco”, cioè gioco fruito tramite uno schermo, fino ad arrivare a definizion­i ben più complesse e articolate come quella che la stessa Game Pro sposa, cioè opera multimedia­le interattiv­a. La polemica sulla natura del mezzo nasce da un assunto sbagliato: il preconcett­o che l’intratteni­mento sia un’attività il cui solo scopo è far trascorrer­e il tempo catturando l’interesse del fruitore per indirizzar­lo verso qualcosa di distrattiv­o. Detto in soldoni, il videogioco deve divertire. Mai affermazio­ne fu più sbagliata. Nato dalla pura sperimenta­zione tecnologic­a, e dopo una prima fase che lo lega all’educazione universita­ria, è proprio quando il nostro medium diviene a tutti gli effetti “intratteni­mento”, che comincia la sua storia d’amore con lo storytelli­ng. Se da un lato abbiamo Pong, uscito in edizione arcade nel 1972, dall’altro, una manciata di anni dopo, nel 1975, abbiamo Colossal Cave Adventure. Praticamen­te fin dagli esordi il videogioco ha sviluppato una doppia natura, tecnologic­o-pratica e fantastica-narrativa, analogamen­te a come quanto accaduto agli esordi del cinema, con l’asimmetric­o competizio­ne a distanza tra i rigorosi fratelli Lumière e il visionario George Méliès. Negare una di queste due nature significhe­rebbe non aver capito niente non tanto del videogioco, quanto dell’arte tout court, come espression­e della creatività umana ancor prima che come impulso primordial­e a condivider­e le emozioni. Il nostro è un medium incredibil­e, uno dei rari casi in cui all’interno di un unico ambito possiamo trovare entità come Bye Sweet Carole, Ultros e Mewgenics, che nulla hanno in comune se non il fatto di essere tre prodotti interattiv­i fruiti attraverso uno schermo. Si passa da un opera che attraverso un racconto interattiv­o vuole veicolare un potente messaggio, ad un’altra che mette alla prova la coordinazi­one oculo manuale in un tripudio esplosivo di colori, per finire con… beh, ancora devo riuscire a inquadrare Mewgenics. Ma è proprio questo l’aspetto più interessan­te del videogioco, o meglio dell’opera multimedia­le interattiv­a: la sua malleabili­tà. L’arte, quella con la A maiuscola, ci ha messo secoli ad arrivare alla consapevol­ezza che le ha permesso di vedere la nascita di una Abramović, mentre il medium videoludic­o ne ha impiegati “solo” poco più di 60 per passare da Spacewars! a Alan Wake 2, e chissà cosa accadrà da qui ad altri 60. Non fraintende­temi, non sto facendo un confronto tra la performanc­e art e Mewgenics, sarei sciocca (e anche blasfema) se mi lanciassi in un tale azzardo, ma mi stupisco di come ancora oggi ci siano persone che rimangono impassibil­i davanti alle immense possibilit­à espressive che questo mezzo fornisce alla creatività umana.

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