False questioni ontologiche
Si sono sprecati fiumi di parole, nel corso degli anni, per cercare di definire cosa sia il videogioco e quali siano le caratteristiche che lo rendono quello che è: dall’analisi della parola stessa, “video-gioco”, cioè gioco fruito tramite uno schermo, fino ad arrivare a definizioni ben più complesse e articolate come quella che la stessa Game Pro sposa, cioè opera multimediale interattiva. La polemica sulla natura del mezzo nasce da un assunto sbagliato: il preconcetto che l’intrattenimento sia un’attività il cui solo scopo è far trascorrere il tempo catturando l’interesse del fruitore per indirizzarlo verso qualcosa di distrattivo. Detto in soldoni, il videogioco deve divertire. Mai affermazione fu più sbagliata. Nato dalla pura sperimentazione tecnologica, e dopo una prima fase che lo lega all’educazione universitaria, è proprio quando il nostro medium diviene a tutti gli effetti “intrattenimento”, che comincia la sua storia d’amore con lo storytelling. Se da un lato abbiamo Pong, uscito in edizione arcade nel 1972, dall’altro, una manciata di anni dopo, nel 1975, abbiamo Colossal Cave Adventure. Praticamente fin dagli esordi il videogioco ha sviluppato una doppia natura, tecnologico-pratica e fantastica-narrativa, analogamente a come quanto accaduto agli esordi del cinema, con l’asimmetrico competizione a distanza tra i rigorosi fratelli Lumière e il visionario George Méliès. Negare una di queste due nature significherebbe non aver capito niente non tanto del videogioco, quanto dell’arte tout court, come espressione della creatività umana ancor prima che come impulso primordiale a condividere le emozioni. Il nostro è un medium incredibile, uno dei rari casi in cui all’interno di un unico ambito possiamo trovare entità come Bye Sweet Carole, Ultros e Mewgenics, che nulla hanno in comune se non il fatto di essere tre prodotti interattivi fruiti attraverso uno schermo. Si passa da un opera che attraverso un racconto interattivo vuole veicolare un potente messaggio, ad un’altra che mette alla prova la coordinazione oculo manuale in un tripudio esplosivo di colori, per finire con… beh, ancora devo riuscire a inquadrare Mewgenics. Ma è proprio questo l’aspetto più interessante del videogioco, o meglio dell’opera multimediale interattiva: la sua malleabilità. L’arte, quella con la A maiuscola, ci ha messo secoli ad arrivare alla consapevolezza che le ha permesso di vedere la nascita di una Abramović, mentre il medium videoludico ne ha impiegati “solo” poco più di 60 per passare da Spacewars! a Alan Wake 2, e chissà cosa accadrà da qui ad altri 60. Non fraintendetemi, non sto facendo un confronto tra la performance art e Mewgenics, sarei sciocca (e anche blasfema) se mi lanciassi in un tale azzardo, ma mi stupisco di come ancora oggi ci siano persone che rimangono impassibili davanti alle immense possibilità espressive che questo mezzo fornisce alla creatività umana.