Eppure ancor si spreca
Ci siamo: sta per iniziare L’EXPO, un colossale parco a tema sull’alimentazione per 20 milioni di visitatori. Intanto in Italia buttiamo via cibo per 8 miliardi di euro all’anno, mentre 6 milioni di persone accanto a noi non hanno abbastanza da mangiare
Comunque vada, sarà una grande abbuffata. Di cibo, ovviamente. Di buone intenzioni. Di commenti malevoli. A Milano dal primo maggio c’è l’expo, e ci sarà una quantità di roba da buttare. E da recuperare, perché su un punto sembriamo tutti d’accordo: bisogna fermare lo spreco. Lo #sprecoalimentare, ciascuno nei modi e nei tempi che gli sono propri. Alcuni più sottovoce, come i volontari di Milano in Azione, che la domenica sera – quando le mense per i poveri sono chiuse – trasformano piazza degli Affari, la piazza della fnanza e del dito medio di Maurizio Cattelan, in un ristoro per i senza fssa dimora. Altri con la benedizione della Caritas e dei media, come lo stellato Massimo Bottura: con Alain Ducasse e altri suoi pari cucinerà per i più deboli di Milano: per 31 giorni, dal 25 maggio, in un refettorio nel quartiere Greco, in uno spazio in disuso rivisto da belle frme (Aldo Cibic, Mimmo Paladino e svariati altri).
Tra il refettorio di Bottura e il protocollo di Veca
Dopo aver riciclato le briciole di pane all’ultima edizione di Identità Golose, Bottura riutilizzerà le materie prime – ma deperibili – che transiteranno dai padiglioni di Rho. In quella stessa area sono attesi 20 milioni di visitatori, che il ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina si augura di trasformare in «20 milioni di ambasciatori del diritto al cibo nel mondo».
Lo ha detto all’avvio del progetto della Carta di Milano, sorta di protocollo di Kyoto sul cibo (la prima versione viene presentata il 28 aprile), un patto morale/ etico/fattuale al quale lavora Salvatore Veca. Un flosofo messo a capo del Laboratorio Expo, avviato con la Fondazione Feltrinelli. Veca parla del diritto al cibo sicuro e sano come di un diritto umano fondamentale. Un’idea molto semplice quanto lontana dall’essere realizzata, e lui lo sa. Perciò ammette la presenza di una sflza di paradossi, anticipi di concrete catastrof mondiali: «800 milioni di persone che soffrono di fame cronica, 1,6 miliardi di obesi, il 30% del cibo mondiale sprecato», ha contato su Repubblica.
Ne ha esperienza diretta chi fa la fla in viale Toscana per una delle razioni distribuite da Pane Quotidiano. Sono stranieri, sono italiani. Molti di loro fanno parte del cosiddetto popolo della terza settimana, dice Luigi Rossi, che dell’associazione è consigliere: quelli che una casa ce l’hanno ancora, ma non gli restano abbastanza soldi per arrivare a fne mese. A loro ha pensato la Fondazione Ernesto Pellegrini quando ha aperto Ruben, il ristorante dove si cena con un euro, e se si hanno fgli sotto i 16 anni, loro mangiano gratis. A loro pensa il ministro Martina quando avverte: «Sono sei milioni gli italiani che chiedono assistenza alimentare. Un’emergenza: non possiamo chiamarla
altrimenti».
«NON DIAM O P I Ù V A LO R E DI MERIT O A CIÒ CHE M A N G I A MO »
Da una parte l’expo delle meraviglie, dunque. La Disneyland degli spadellatori. Dall’altra la ruota degli sperperi. Numeri buoni per la titolazione dei giornali ne girano a iosa: lo spreco alimentare, nel viaggio dai campi dove il cibo viene coltivato al bidone della spazzatura dove fnisce se in casa non si mangia, costa agli italiani 6,5 euro a famiglia ogni settimana (il dato è dell’osservatorio Waste Watcher), che detto così impressiona poco, ma se invece si va al totale suona davvero male, perché la cifra arriva a 8,1 miliardi di euro.
L’80% di quello che si butta è ancora commestibile
«Succede perché non sappiamo più dare un valore al cibo. Non un valore economico, per quanto quel cibo ci costi, ma nemmeno un valore di merito», inizia Andrea Segrè, un uomo che è molte cose: professore di Politica agraria internazionale e comparata, fondatore di Last Minute Market (per il recupero degli sprechi alimentari), autore di L’oro nel piatto (con Simone Arminio, Einaudi) e ideatore del F.I.CO. (Fabbrica Italiana Contadina, il parco agroalimentare che raccoglierà idealmente il testimone dell’expo). «Propongo di ripartire dal vocabolario: invece di chiamarci consumatori, dico fruitori. Invece di
consumare/ distrug- gere, vorrei che imparassimo a fruire/godere». Sembra un gioco, potrebbe rieducare i nostri cervelli a una nuova plasticità. «Quella del cibo è una grande bolla, chissà più cosa contiene. Dobbiamo riportarlo alla sua prima funzione: esiste per soddisfare un bisogno. Nutrire. Le eccellenze vanno bene, ma non risolvono i problemi della maggioranza. Sostengo quindi la teoria dell’alimento medio, con una qualità livellata verso l’alto, e che sia a disposizione di tutti».
Cibo che esiste già, a saperlo riconoscere e scegliere. Che rende molto più di quanto costa: perché ha un sapore, perché non marcisce subito, perché ci fa stare in salute. Capito questo, basta ricordarsi – e sembra che i grassi idrogenati ce l’abbiano fatto dimenticare – che il potere in defnitiva ce l’ha chi compra. «Sono d’accordo: dobbiamo ripartire dall’educazione alimentare, intesa come abitudine a mangiare locale, stagionale e scarsamente lavorato», dice Andrea Di Stefano, diretto- re del mensile Valori e responsabile del comitato scientifco Esta Associazione Economia & Sostenibilità. «Ricreate queste basi, e andrà fatto iniziando dalle scuole, come dimostrano le ottime scelte del Comune di Torino, allora possiamo ragionare su come modifcare prassi e sperperi del sistema cibo».
Il Rapporto 2014 sullo spreco domestico, elaborato da un’indagine Swg, parla già di comportamenti più attenti da parte degli italiani. Controlliamo se il cibo scaduto per legge è ancora buono o se dobbiamo davvero buttarlo via (l’81%, e pochi mesi fa eravamo fermi al 63%) e vorremmo portare a casa quanto avanziamo al ristorante (il 76%, ma poi ce ne vergogniamo), per cominciare.
Bene. Però la faccenda assume i contorni dello scempio se leggiamo le statistiche mondiali: i dati diffusi dalla Fao dicono che un terzo della produzione di alimenti non viene mangiato, quando l’80% di quella quota sarebbe ancora commestibile. Considerata l’intera fliera, i costi ambientali e sociali del cibo cestinato è di 2.060 miliardi di euro, una volta più un terzo il Pil italiano. «Autoproduzione: è una delle chiavi per aprirci una porta su un futuro sostenibile», crede Andrea Di Stefano. «Basta un balcone per creare un primo, piccolo orto e modifcare la gestione del ciclo alimentare, come insegnano i contadini urbani della Horticultural Society di New York. Si comincia coltivando, si creano servizi di welfare di quartiere, nascono posti di lavoro legati alla catena alimentare».
«Basta un orto su un balcone e cambia il ciclo alimentare»
Si chiama Food Policy e il Comune di Milano ne ha appena lanciata una in collaborazione con la Fondazione Cariplo. Nel resto d’italia − censiva a spanne nel 2013 la Coldiretti − sono già attivi 9 milioni di neoagricoltori su terreni ceduti in comodato dai municipi, nei cortili condominiali, sui terrazzi dei privati. In due anni nei capoluoghi si è passati da 1,1 a 3,3 milioni di metri quadrati destinati agli orti. Un puzzle di micro Expo. «Con un problema comune, qui come nel resto del mondo: l’accesso all’origine stessa della catena produttiva. Semi, piante e pesticidi sono in mano a una decina di multinazionali, che spadroneggiano sul sistema», avverte Di Stefano. Un anno fa la svizzera Pro Specie Rara, fondazione per la diversità di piante e animali, ha registrato una vittoria importante a questo proposito: il Parlamento europeo ha rivisto l’ordinanza sul libero scambio tra piccoli produttori, che ora sono liberi di utilizzare i propri semi.
«Il passaggio successivo riguarda la distribuzione del prodotto: dove vado a prendermelo?», chiede il direttore di Valori. Già. Reti mondiali come Urgenci.net provano a individuare delle soluzioni, gruppi locali come Kalulu.it rilanciano la sfda della fliera corta. Perché oggi, scrivono sul loro sito, un pomodoro percorre ancora una media di 350 chilometri prima di arriva-
« I M PA R I A MO A FR UIRE, INVECE DI CO N S UM A R E »
re in tavola. «La grande quantità di beni a disposizione e la convenienza dell’acquisto ci hanno convinti che il cibo sia un prodotto facilmente sostituibile. Non mi va, lo getto. Un semplice movimento del polso che non tiene conto di quante risorse, soprattutto ambientali, sono necessarie per portarle sugli scaffali dei supermercati e poi per toglierle di lì, quando nessuno le ha volute», ricorda Andrea Segrè, che in L’oro nel piatto spiega come non cedere, appunto, alle lusinghe del self service. Stoccaggio, movimentazione delle merci, impacchettamento, consegna, smaltimento dell’invenduto nell’indifferenziata, perché costa troppo separare gli alimenti dal packaging: le perdite cominciano là dove non le vedi.
L’unione europea si è data l’obiettivo di ridurre lo spre- co alimentare del 50% entro il 2025. Nel frattempo, la gente si è organizzata. A Londra Arthur Potts Dawson, baronetto e spadellatore professionista, nel 2011 ha aperto The Peo- ple’s Supermarket: avvocati e immigrati fanno la stessa spesa, bio e local, e approfttano dei piatti preparati nella cucina open space. Con ingredienti prossimi alla scadenza o, più semplicemente, ammaccati.
Mercati sociali, recuperi delle eccedenze, collette alimentari, etichette intelligenti: in attesa di un assist normativo che faciliti le cose, ci sono internet e le app. Buone pratiche digitali per la raccolta e il riutilizzo di ogni genere: ifoodshare, Zerosprechi, Quifoundation, myfoody, S-cambia Cibo. Il Banco Alimentare, fondazione storica che nel 2014 ha raccolto e redistribuito 53 tonnellate di alimenti, sostiene in Trentino Bringthefood. Il principio di queste iniziative è lo stesso: chi non utilizza, regali. Anche e soprattutto il pane, si sono detti gli under 30 milanesi che hanno lanciato la piattaforma Breading: ogni giorno 46 mila chili di panini fniscono nei cassonetti; 120 mila euro buttati in 24 ore, che a fne anno fanno 43 milioni di euro. La loro pensata gli è valsa molta stampa, applausi e attenzione. Chissà se Massimo Bottura ordinerà da loro le michette per il suo Refettorio Ambrosiano.
U N N U O VO PRINCIPIO: CHI NON UTILIZZA,
R EGA L I L’ E S E M P I O A M E R I CA N O
«Quella del cibo è una grande bolla. Deve tornare a soddisfare soprattutto un bisogno»