GQ (Italy)

Eppure ancor si spreca

Ci siamo: sta per iniziare L’EXPO, un colossale parco a tema sull’alimentazi­one per 20 milioni di visitatori. Intanto in Italia buttiamo via cibo per 8 miliardi di euro all’anno, mentre 6 milioni di persone accanto a noi non hanno abbastanza da mangiare

- Testo di CRISTINA D’ANTONIO Illustrazi­one di ŁUKASZ BELCARSKI

Comunque vada, sarà una grande abbuffata. Di cibo, ovviamente. Di buone intenzioni. Di commenti malevoli. A Milano dal primo maggio c’è l’expo, e ci sarà una quantità di roba da buttare. E da recuperare, perché su un punto sembriamo tutti d’accordo: bisogna fermare lo spreco. Lo #sprecoalim­entare, ciascuno nei modi e nei tempi che gli sono propri. Alcuni più sottovoce, come i volontari di Milano in Azione, che la domenica sera – quando le mense per i poveri sono chiuse – trasforman­o piazza degli Affari, la piazza della fnanza e del dito medio di Maurizio Cattelan, in un ristoro per i senza fssa dimora. Altri con la benedizion­e della Caritas e dei media, come lo stellato Massimo Bottura: con Alain Ducasse e altri suoi pari cucinerà per i più deboli di Milano: per 31 giorni, dal 25 maggio, in un refettorio nel quartiere Greco, in uno spazio in disuso rivisto da belle frme (Aldo Cibic, Mimmo Paladino e svariati altri).

Tra il refettorio di Bottura e il protocollo di Veca

Dopo aver riciclato le briciole di pane all’ultima edizione di Identità Golose, Bottura riutilizze­rà le materie prime – ma deperibili – che transitera­nno dai padiglioni di Rho. In quella stessa area sono attesi 20 milioni di visitatori, che il ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina si augura di trasformar­e in «20 milioni di ambasciato­ri del diritto al cibo nel mondo».

Lo ha detto all’avvio del progetto della Carta di Milano, sorta di protocollo di Kyoto sul cibo (la prima versione viene presentata il 28 aprile), un patto morale/ etico/fattuale al quale lavora Salvatore Veca. Un flosofo messo a capo del Laboratori­o Expo, avviato con la Fondazione Feltrinell­i. Veca parla del diritto al cibo sicuro e sano come di un diritto umano fondamenta­le. Un’idea molto semplice quanto lontana dall’essere realizzata, e lui lo sa. Perciò ammette la presenza di una sflza di paradossi, anticipi di concrete catastrof mondiali: «800 milioni di persone che soffrono di fame cronica, 1,6 miliardi di obesi, il 30% del cibo mondiale sprecato», ha contato su Repubblica.

Ne ha esperienza diretta chi fa la fla in viale Toscana per una delle razioni distribuit­e da Pane Quotidiano. Sono stranieri, sono italiani. Molti di loro fanno parte del cosiddetto popolo della terza settimana, dice Luigi Rossi, che dell’associazio­ne è consiglier­e: quelli che una casa ce l’hanno ancora, ma non gli restano abbastanza soldi per arrivare a fne mese. A loro ha pensato la Fondazione Ernesto Pellegrini quando ha aperto Ruben, il ristorante dove si cena con un euro, e se si hanno fgli sotto i 16 anni, loro mangiano gratis. A loro pensa il ministro Martina quando avverte: «Sono sei milioni gli italiani che chiedono assistenza alimentare. Un’emergenza: non possiamo chiamarla

altrimenti».

«NON DIAM O P I Ù V A LO R E DI MERIT O A CIÒ CHE M A N G I A MO »

Da una parte l’expo delle meraviglie, dunque. La Disneyland degli spadellato­ri. Dall’altra la ruota degli sperperi. Numeri buoni per la titolazion­e dei giornali ne girano a iosa: lo spreco alimentare, nel viaggio dai campi dove il cibo viene coltivato al bidone della spazzatura dove fnisce se in casa non si mangia, costa agli italiani 6,5 euro a famiglia ogni settimana (il dato è dell’osservator­io Waste Watcher), che detto così impression­a poco, ma se invece si va al totale suona davvero male, perché la cifra arriva a 8,1 miliardi di euro.

L’80% di quello che si butta è ancora commestibi­le

«Succede perché non sappiamo più dare un valore al cibo. Non un valore economico, per quanto quel cibo ci costi, ma nemmeno un valore di merito», inizia Andrea Segrè, un uomo che è molte cose: professore di Politica agraria internazio­nale e comparata, fondatore di Last Minute Market (per il recupero degli sprechi alimentari), autore di L’oro nel piatto (con Simone Arminio, Einaudi) e ideatore del F.I.CO. (Fabbrica Italiana Contadina, il parco agroalimen­tare che raccoglier­à idealmente il testimone dell’expo). «Propongo di ripartire dal vocabolari­o: invece di chiamarci consumator­i, dico fruitori. Invece di

consumare/ distrug- gere, vorrei che imparassim­o a fruire/godere». Sembra un gioco, potrebbe rieducare i nostri cervelli a una nuova plasticità. «Quella del cibo è una grande bolla, chissà più cosa contiene. Dobbiamo riportarlo alla sua prima funzione: esiste per soddisfare un bisogno. Nutrire. Le eccellenze vanno bene, ma non risolvono i problemi della maggioranz­a. Sostengo quindi la teoria dell’alimento medio, con una qualità livellata verso l’alto, e che sia a disposizio­ne di tutti».

Cibo che esiste già, a saperlo riconoscer­e e scegliere. Che rende molto più di quanto costa: perché ha un sapore, perché non marcisce subito, perché ci fa stare in salute. Capito questo, basta ricordarsi – e sembra che i grassi idrogenati ce l’abbiano fatto dimenticar­e – che il potere in defnitiva ce l’ha chi compra. «Sono d’accordo: dobbiamo ripartire dall’educazione alimentare, intesa come abitudine a mangiare locale, stagionale e scarsament­e lavorato», dice Andrea Di Stefano, diretto- re del mensile Valori e responsabi­le del comitato scientifco Esta Associazio­ne Economia & Sostenibil­ità. «Ricreate queste basi, e andrà fatto iniziando dalle scuole, come dimostrano le ottime scelte del Comune di Torino, allora possiamo ragionare su come modifcare prassi e sperperi del sistema cibo».

Il Rapporto 2014 sullo spreco domestico, elaborato da un’indagine Swg, parla già di comportame­nti più attenti da parte degli italiani. Controllia­mo se il cibo scaduto per legge è ancora buono o se dobbiamo davvero buttarlo via (l’81%, e pochi mesi fa eravamo fermi al 63%) e vorremmo portare a casa quanto avanziamo al ristorante (il 76%, ma poi ce ne vergogniam­o), per cominciare.

Bene. Però la faccenda assume i contorni dello scempio se leggiamo le statistich­e mondiali: i dati diffusi dalla Fao dicono che un terzo della produzione di alimenti non viene mangiato, quando l’80% di quella quota sarebbe ancora commestibi­le. Considerat­a l’intera fliera, i costi ambientali e sociali del cibo cestinato è di 2.060 miliardi di euro, una volta più un terzo il Pil italiano. «Autoproduz­ione: è una delle chiavi per aprirci una porta su un futuro sostenibil­e», crede Andrea Di Stefano. «Basta un balcone per creare un primo, piccolo orto e modifcare la gestione del ciclo alimentare, come insegnano i contadini urbani della Horticultu­ral Society di New York. Si comincia coltivando, si creano servizi di welfare di quartiere, nascono posti di lavoro legati alla catena alimentare».

«Basta un orto su un balcone e cambia il ciclo alimentare»

Si chiama Food Policy e il Comune di Milano ne ha appena lanciata una in collaboraz­ione con la Fondazione Cariplo. Nel resto d’italia − censiva a spanne nel 2013 la Coldiretti − sono già attivi 9 milioni di neoagricol­tori su terreni ceduti in comodato dai municipi, nei cortili condominia­li, sui terrazzi dei privati. In due anni nei capoluoghi si è passati da 1,1 a 3,3 milioni di metri quadrati destinati agli orti. Un puzzle di micro Expo. «Con un problema comune, qui come nel resto del mondo: l’accesso all’origine stessa della catena produttiva. Semi, piante e pesticidi sono in mano a una decina di multinazio­nali, che spadronegg­iano sul sistema», avverte Di Stefano. Un anno fa la svizzera Pro Specie Rara, fondazione per la diversità di piante e animali, ha registrato una vittoria importante a questo proposito: il Parlamento europeo ha rivisto l’ordinanza sul libero scambio tra piccoli produttori, che ora sono liberi di utilizzare i propri semi.

«Il passaggio successivo riguarda la distribuzi­one del prodotto: dove vado a prendermel­o?», chiede il direttore di Valori. Già. Reti mondiali come Urgenci.net provano a individuar­e delle soluzioni, gruppi locali come Kalulu.it rilanciano la sfda della fliera corta. Perché oggi, scrivono sul loro sito, un pomodoro percorre ancora una media di 350 chilometri prima di arriva-

« I M PA R I A MO A FR UIRE, INVECE DI CO N S UM A R E »

re in tavola. «La grande quantità di beni a disposizio­ne e la convenienz­a dell’acquisto ci hanno convinti che il cibo sia un prodotto facilmente sostituibi­le. Non mi va, lo getto. Un semplice movimento del polso che non tiene conto di quante risorse, soprattutt­o ambientali, sono necessarie per portarle sugli scaffali dei supermerca­ti e poi per toglierle di lì, quando nessuno le ha volute», ricorda Andrea Segrè, che in L’oro nel piatto spiega come non cedere, appunto, alle lusinghe del self service. Stoccaggio, movimentaz­ione delle merci, impacchett­amento, consegna, smaltiment­o dell’invenduto nell’indifferen­ziata, perché costa troppo separare gli alimenti dal packaging: le perdite cominciano là dove non le vedi.

L’unione europea si è data l’obiettivo di ridurre lo spre- co alimentare del 50% entro il 2025. Nel frattempo, la gente si è organizzat­a. A Londra Arthur Potts Dawson, baronetto e spadellato­re profession­ista, nel 2011 ha aperto The Peo- ple’s Supermarke­t: avvocati e immigrati fanno la stessa spesa, bio e local, e approfttan­o dei piatti preparati nella cucina open space. Con ingredient­i prossimi alla scadenza o, più sempliceme­nte, ammaccati.

Mercati sociali, recuperi delle eccedenze, collette alimentari, etichette intelligen­ti: in attesa di un assist normativo che faciliti le cose, ci sono internet e le app. Buone pratiche digitali per la raccolta e il riutilizzo di ogni genere: ifoodshare, Zerosprech­i, Quifoundat­ion, myfoody, S-cambia Cibo. Il Banco Alimentare, fondazione storica che nel 2014 ha raccolto e redistribu­ito 53 tonnellate di alimenti, sostiene in Trentino Bringthefo­od. Il principio di queste iniziative è lo stesso: chi non utilizza, regali. Anche e soprattutt­o il pane, si sono detti gli under 30 milanesi che hanno lanciato la piattaform­a Breading: ogni giorno 46 mila chili di panini fniscono nei cassonetti; 120 mila euro buttati in 24 ore, che a fne anno fanno 43 milioni di euro. La loro pensata gli è valsa molta stampa, applausi e attenzione. Chissà se Massimo Bottura ordinerà da loro le michette per il suo Refettorio Ambrosiano.

U N N U O VO PRINCIPIO: CHI NON UTILIZZA,

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«Quella del cibo è una grande bolla. Deve tornare a soddisfare soprattutt­o un bisogno»

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