Siniša Mihajlović
L’ALLENATORE ELEGANTONE CI HA APERTO L’ARMADIO
« Il solito, grazie » . Per Siniša Mihajlovic´, 46 anni, serbo di Vukovar, “il solito” è uno Spritz con ghiaccio in coppa grande. Di stuzzichini, però, non ne sfora mezzo: pur avendo smesso di giocare nove anni fa, continua a tenere molto alla linea. Così come allo stile: collanina e braccialetto spuntano dall’abito di alta sartoria napoletana (la stessa di Roberto Mancini), nell’elegante stanza dell’hotel di Genova dove vive da un anno e mezzo. Gli occhi profondi gli danno un’aria da duro, sotto la quale, però, si nasconde una vena ironica. Campione ribelle quando era in campo, oggi Mihajloviic´ è uno dei migliori tecnici del calcio italiano, sul quale, dopo due buone stagioni con la Sampdoria, hanno puntato gli occhi diversi grandi club.
«Ho inventato io la moda della sciarpa in panchina»
Un duro in panchina oppure un buono, come la descrivono i suoi amici?
« L’uno e l’altro. Il valore dell’amicizia è fondamentale per me: all’inizio sono spesso diffdente, non ho mai scelto un amico per i soldi o per il suo livello sociale. Non appena percepisco il minimo interesse in chi vuole diventare mio amico, evito di costruire qualsiasi rapporto. Ho amicizie che durano da una vita e dureranno per sempre. Nel lavoro, è vero, sono esigente e talvolta infessibile, perché ho provato sulla mia pelle l’importanza della disciplina. Il talento, senza regole, è inutile».
Quando lo ha provato?
«Ho giocato nella Jugoslavia più forte della storia, una nazionale con tante stelle che avrebbe potuto vincere tutto e non ha vinto nulla. Perché mancavano, appunto, disciplina e regole: se non le hai, nel calcio e nella vita non vai da nessuna parte».
Quando è arrivato in Italia, nel ’92, aveva 20 anni e l’aria ribelle. Oggi è il ser-
gente di ferro dei tecnici. In questi 23 anni, è cambiato di più lei o l’italia?
«Tutti e due, ma seguendo percorsi opposti. Mi spiace dirlo, ma l’italia ha subìto un’involuzione, mentre io ho cercato sempre di crescere. D’altra parte, non c’è da stupirsi, visto che voi chiamate “zingari” noi dell’est Europa. Eppure in questa definizione c’è anche una dote: lo “zingaro” è sveglio, sa cambiare luoghi, contesti, abitudini. Lo puoi mettere dove vuoi, tanto saprà sempre cavarsela, migliorando».
Nel suo sapersi adattare, ha iniziato persino a far tendenza: la sciarpa in panchina, il gilet, le citazioni letterarie… Merito del suo “vate” Mancini?
«Roberto è un grande amico, un fratello. Andiamo in vacanza insieme da 15 anni e lui mi ha iniziato al mestiere facendomi fare il suo vice all’inter. Gli sarò sempre grato, anche se, essendo una persona intelligente, avrà visto in me la stoffa giusta per lanciarmi. E questo vale anche per la carriera di calciatore, per la quale devo tanto a un altro grande: Vujadin Boškov, l’allenatore di quella grande Samp. Per il resto, diciamo che con Roberto ci siamo copiati a vicenda: la moda della sciarpa l’ho iniziata io e lui l’ha ripresa, la Bentley l’ho comprata prima io e poi lui, il sarto napoletano che veste entrambi ce lo ha presentato un amico comune, Dario Marcolin…».
Ha vissuto a Roma, Genova, Milano, Bologna, Catania e Firenze. Qual è la sua città preferita?
« Vivo a Roma con la mia famiglia e non soltan-
« ILTALENTO, SENZA REGOLE E DISCIPLINA, È INUTILE»
to perché mia moglie Arianna è romana: penso sia una delle città più belle del mondo, anche se mi sono trovato benissimo dovunque in Italia».
A Genova vive in hotel...
«Perché non so lavare, non so cucinare, non so stirare, non so fare niente di quello che serve per tenere una casa. I miei ragazzi hanno un’età in cui non si può più trasferirli in blocco come quando erano piccoli. Così ho scelto l’albergo, dove non manca nulla e mi posso concentrare sulla Sampdoria».
Ripensa mai alla sua vita ai tempi del conflitto nei Balcani?
«Certo, chi ha vissuto quella tragedia non potrà dimenticarla. Quando sono tornato a Vukovar, subito dopo la guerra, non riuscivo a orientarmi perché non c’era un edificio integro, era stato tutto raso al suolo. Fui accompagnato da alcuni solda- ti che, davanti a me, rilevavano le mine lungo la strada con un metal detector. L’immagine di quella devastazione non riuscirò a cancellarla mai: neanche oggi, che è stato tutto ricostruito, riesco a trovare la forza per tornarci. È lo stesso sentimento che ho provato quando ho perso mio padre: l’ultima volta in cui l’ho salutato era già morto; adesso, quando ripenso a lui, continuo a rivedere i suoi occhi chiusi e non le altre immagini belle della nostra vita».
In quegli anni prese alcune posizioni molto forti sulla guerra, per cui fu criticato... «Soffrivo all’idea che in tanti parlassero dei Balcani senza conoscere, senza aver visto con i propri occhi o aver perso la casa, gli amici, gli affetti, com’era invece accaduto a noi. E non mi riferisco solo ai serbi: anche ai croati, ai musulmani, a tutti. In guerra non ci sono buoni e cattivi, vincitori e vinti, è solo una tragedia che riguarda chiunque e ha un solo colore, il rosso del sangue. Ogni guerra dovrebbe insegnare al mondo intero a non ripetere più certi errori, invece continuano a scoppiare confitti, anche vicino a noi. Però, sia chiaro, non ho mai fatto politica: sono sempre stato uno sportivo che parlava del dramma di casa sua».
Ricorda il suo primo stipendio da calciatore?
«Era il 1988, avevo 18 anni e giocavo a Novi Sad. Tornato a casa dopo un allenamento avevo buttato quel mucchio di soldi nella roba da lavare raccolta da mia madre. Lei li vide e sbiancò: pensava che avessi fatto una rapina. Nessuno in casa credeva che il calcio avrebbe potuto aiutarci economicamente. Con quei soldi comprai a mio padre una versione serba della Fiat 128. Da allora, per alcuni anni, consegnai sempre gli stipendi ai miei genitori: non eravamo proprio poveri, ma, come tanti, facevamo fatica a tirare avanti».
Com’è stata l’infanzia?
«Felice, spensierata. Giocavo sempre a pallone e speravo di diventare ricco per comprarmi un camion di banane: io e mio fratello ne andavamo ghiotti, ma ne ricevevamo solo una a testa, giusto per le feste. Eravamo sotto il comunismo più duro, ma non mi mancava nulla, mi bastava giocare e sognare. Per questo mi faceva sorridere quando cercavano di affbbiarmi a tutti i costi un’etichetta politica: ho le mie idee
« SOGNAVO DI DIVENTARE RICCO PER COMPRARE UN CAMION DI BANANE»
«Ci chiamate “zingari”, ma uno zingaro puoi metterlo dove vuoi e saprà sempre cavarsela»
ma le tengo per me. Io mi occupo di calcio, io voglio vincere le partite».
Come si vede tra 20 anni? Ancora ad allenare o su un’isola a godersi la pensione?
«Non mi è mai piaciuto oziare. Se non sarò del tutto rincoglionito mi vedo ancora a fare il lavoro che amo. Il calcio è un mestiere da privilegiati, ecco perché mi arrabbio con i miei giocatori quando vedo che non mettono l’impegno necessario per onorare questa fortuna».
Nell’ultimo anno, sia lei sia il presidente della Samp, Massimo Ferrero, avete parlato della “fame” come arma per ottenere risultati. Anche se siete diversissimi, evidentemente c’è qualcosa che vi accomuna…
«È la scuola della strada, che ti fa le spalle più larghe e ti insegna un po’ di malizia. Ci sono cose che sui libri o all’università non puoi imparare. La fame ti spinge dove altri non arriva- no. Per rispondere alle prime convocazioni in nazionale mi facevo prestare da un amico un paio di scarpe da rugby e poi le modifcavo, oggi i miei fgli avranno dieci paia dell’ultimo modello: come potrebbero avere la stessa voglia di emergere che avevo io? Vale anche per la mia primogenita, che ha 18 anni e vorrebbe andare a studiare a Londra ma forse non lo farà, perché a casa ha la pappa sempre pronta. Quale pensate sarebbe la risposta se andassi in Serbia a chiedere a dieci ragazzi: “Chi di voi vuole studiare a Londra”? Partirebbero in 20».
Sua moglie Arianna le ha dato quattro fgli, l’ultimo regalo che le ha fatto?
«L’ho baciata stamattina prima di uscire di casa» (sorride).
L’ultimo libro letto?
«Ho sempre letto molto e sarò eternamente grato a un vecchio professore che mi stimolò nel modo giusto consigliandomi la lettura di Ivo Andric´, l’unico serbo premio Nobel per la Letteratura. L’ho letto, due volte: la prima quando ero ragazzo, e non ci capii niente; la seconda da adulto, e ho capito tutto. Uno degli ultimi libri che ho letto è Psicologia delle masse e analisi dell’io, di Fredu. In generale sono molto interessato ai libri sul mio lavoro, soprattutto quelli con contenuti di psicologia».
Per chiudere, toglierebbe un dubbio storico agli interisti: Darko Panc´ ev era “il Cobra” che aveva vinto la Scarpa d’oro quando era alla Stella Rossa, oppure “il Ramarro” visto in Italia?
«Panc´ev era un cobra vero, letale in aria di rigore. Grazie a lui abbiamo trionfato in Europa. L’inter non giocava in modo adatto al suo stile di centroavanti ma, potete fdatevi, era tutto fuorché un ramarro».
«CRESCERE
P E R S T RA DA
TI F A VENIRE
LE SP ALLE
LARGHE» «Per andare in nazionale mi facevo prestare le scarpe da rugby da un amico e le modificavo»