GQ (Italy)

Via, via, venite via con me Azzurro?

- Testo di ANGELO PANNOFINO

Mi sono perso. Vago nei meandri del teatro tra scale, ascensori, corridoi, materiali dozzinali da uffcio pubblico, neon, odore di pasta al sugo da mensa scolastica, gente che traffca. Poi, dal brusio di un camerino, tra tante, emerge una voce: borbottant­e come una moka quando il caffè è pronto, stropiccia­ta, inconfondi­bile. Allora so di essere nel posto giusto. Anche se è un posto un po’ così: fa strano incontrare Paolo Conte in un luogo così brutto. Però speciale, perché è il Carlo Felice di Genova, la più paoloconti­ana di tutte le città. Dopo la voce, da una porta, arriva anche il resto: abito antracite, polo grigia buttata lì, occhi azzurri, baff, rughe e tutto. Gli stessi abiti con cui tra poco salirà sul palco. Ci sarà una standing ovation. Lui risponderà con un sorriso storto, imbarazzat­o da tanto affetto ma non più sorpreso. Lo stesso che mi rivolge ora che gli stringo la mano e lo ringrazio e ci sediamo su un divano. Brutto pure quello.

Fa ancora quella faccia un po’ così quando vede Genova?

«Mi piace sempre questa città. Ci sono dei legami segreti tra Genova e noi piemontesi, in fondo è il “nostro mare”».

Genova per noi è una delle tante canzoni composte per altri interpreti. Poi arrivò Lilli Greco, produttore discografc­o, e la spinse a metterci la faccia: cosa le disse per convincerl­a?

«Sentì i miei provini e mi disse “Secondo me c’è una verità nella tua interpreta­zione”. Dai e dai, mi sono lasciato convincere. Anche perché sentivo, futavo nell’aria, che nel mondo c’era voglia di “verità”: se qualcuno scriveva canzoni, allora doveva metterci anche la faccia e non restare solo un nome nascosto in una parentesi sotto quello del cantante».

E poi Azzurro, per Celentano: ricorda dove si trovava quando la scrisse?

«Ero a letto, prima di dormire. Era una tarda primavera, ad Asti. La musica ce l’avevo già da un paio d’anni. Il testo lo buttai giù quella notte, velocement­e».

Perché i suoi primi dischi li ha chiamati col suo nome?

«Perché non ho mai concepito i dischi come percorsi unitari: per me ogni canzone in un album ha la sua storia e non c’entra niente con le altre. E poi i titoli proposti dalla Rca non mi piacevano».

L’ultimo si chiama Snob: lei però si è defnito dandy, perché, al contrario dello snob, superficia­le, lei “insegue la bellezza nel suo senso più profondo”: ha avuto dei modelli?

«Sì, ma non arrivo certo a Baudelaire, martire del dandysmo. Sempliceme­nte intuisco che ci sono delle persone che hanno questo “senso del bello” senza però farne sfoggio; persone che sanno vestirsi da dandy».

E lei come si veste?

«Sono un tradiziona­lista. Grande conservato­re di giacche e paltò, a cui mi affeziono».

Oggi c’è qualcuno che lei considera un dandy?

«No. Lapo Elkann, dice? Mah. È della razza dei dandy ma è ancora troppo giovane per portare il segno inequivoca­bile del tempo».

Chi le ha insegnato a fare il nodo al papillon?

«La prima fu mia madre, ma lo dimenticai. Poi fu l’avvocato da cui facevo pratica, grande papillonis­ta, ma lo dimenticai di nuovo. Alla fne ho scelto quelli già annodati».

E a suonare il pianoforte?

«Sono un autodidatt­a. Ho avuto la fortuna di avere in casa un padre ottimo pianista. Io e mio fratello abbiamo preso qualche lezione ma erano gli anni del football: non vedevamo l’ora di scappar fuori».

Un papà pianista che non l’ha mai spinta a suonare?

«Aveva capito che io, col piano...

granché”) Mio padre è morto giovane e per me avrebbe voluto una carriera da notaio».

Scegliendo invece di fare il musicista ha “ucciso il padre”, come dicono gli psicologi?

«Forse, a freddo, sì. Credo che mio padre sarebbe diventato un mio sostenitor­e, ma solo a successo acquisito. Prima no».

« H O A V U TO D E I MAESTRI MA NON S E N TO D I A V E R E FIGLI O EREDI»

«La mia passione non è di natura nostalgica. In me non ci sono rimpianti. Sono una persona che ama il bello e constato che in quel periodo le cose erano più belle».

In una delle canzoni di un uomo parla con una prostituta in strada: all’epoca è mai stato in una casa chiusa?

«Sì, sì».

Conserva un bel ricordo?

«Mah... No. Ci sono andato con gli amici. Sa, non erano luoghi affascinan­ti: niente velluti e ori, stiamo parlando della provincia».

In passato ha cantato di Bartali, Gerbi, Schiaffno: oggi a quale sportivo dedichereb­be una canzone?

«Guardo solo tennis e football. Ci sono campioni fantastici, ma non è ancora passato abbastanza tempo da farli diventare epici. Mi piace Nadal: avventuros­o, mancino. Tra i calciatori ho dei gusti un po’ dandy, direi Puskás. Messi è chiarament­e un grande ma non c’è ancora “quella distanza”».

Con quale artista del passato le piacerebbe sedersi a bere un bicchiere di Barolo?

«Innanzitut­to togliamo il Barolo, perché è un vino troppo forte, pesante. Meglio vini giovani, un Nebbiolo o un Barbera. E visto che siamo a Genova lo berrei con un poeta ligure: Camillo Sbarbaro, un Montale meno prolifco ma molto raffnato, molto... molto...

un arricciare di naso, uno stringersi di occhi) ».

Eppure c’è una canzone in cui fa due chiacchier­e con Hemingway all’harry’s Bar...

«Vero, ma nella realtà non sarei capace di presentarm­i a personaggi così ingombrant­i. Istigato dalla musica che avevo composto, volevo scrivere una canzone per un fantasma. Questo mi ha fatto venire in mente il luogo: la Venezia notturna. Una volta lì, il fantasma che andava bene era quello di Hemingway».

Con che tipo di persone si sente a suo agio?

«A parte le tournée sto vivendo molto a casa, in solitudine. Sono sempre stato un solitario ma, ultimament­e, la così detta vita sociale l’ho completame­nte cancellata: mi dà fastidio e, se mi invitano a cena, rispondo: “Per carità”».

Qualche anno fa aveva dichiarato di essere stanco, di sentirsi privo di ispirazion­e. Ora invece ha parlato di «una scintilla ritrovata»: ha vissuto altri momenti di crisi durante la sua carriera?

«Un paio di volte. Ma il serbatoio dell’ispirazion­e continuava a dare molto: per fare un disco di dieci pezzi magari ne scrivevo trenta; quindi, anche in mancanza di ispirazion­e, avevo sempre del materiale già pronto a cui attingere».

La sua arte nasce quando soffre o quando è felice?

«Quando si scrive bisogna essere felici. Anche se scrivi una cosa triste, devi farlo nel momento in cui stai bene. Fantasie o vecchi ricordi, psicologic­amente devo star bene quando ne scrivo».

È mai stato in analisi? Penso ad artisti come Woody Allen o Fellini, che se ne sono serviti come stimolo creativo.

«No, e neanche mi fdo troppo: mi sembra un po’ come farsi leggere la mano, ne sto lontano».

Cosa risponde a chi la accusa di ripetere se stesso?

«Non credo di farlo ma, allo stesso tempo, mi fa piacere sentirmi ancora quel me stesso di prima. Sperimento sempre ma, se mi distaccass­i da me, vorrebbe dire che un po’ abdico, che un po’ rinuncio a ciò che ho fatto in passato. Rimanere nel mio stile mi dà sicurezza, consapevol­e di espormi a obiezioni di questo genere».

Sono sempre state poche, ma come vive le critiche?

«Ammetto di essere stato molto fortunato, sono stato quasi sempre esente da critiche. Certe volte ho l’impression­e di non essere compreso ma non mi importa: quanti artisti si sono lamentati di non essere capiti... Ma essere capiti troppo forse è una condanna».

Di quale flm le sarebbe piaciuto scrivere la musica?

Si identifca forse con Humphrey Bogart?

«Ma no...

Col pianista, allora?

Quando ha pianto l’ultima volta?

Poi mai più?

«Faccio così!

Lei deve riscuotere molto successo con le donne: nella sua vita ne ha amate molte?

Nel senso che si limitava a firtare?

Mi sveli un segreto: la donna a cui si rivolgeva nella famosa canzone, poi “è venuta via con lei” o no?

Secondo me, se aveva buon gusto, è venuta via.

«Allora sì. Forse sì».

Ha mai pensato di smettere?

«Sì. Potrei tranquilla­mente smettere di scrivere canzoni. Comporre musica invece no, la terrei ancora come compagna. L’idea di smettere mi viene ogni volta che ho fnito un disco: mi sento completame­nte scarico, tabula rasa, nessuna ispirazion­e».

C’è un artista che reputa suo erede?

«No. Posso aver avuto, consciamen­te o inconsciam­ente, dei maestri, ma non sento di avere fgli né eredi».

Quai des Orfèvres ( Legittima difesa, ndr), Lo spaccone sablanca, che avrò visto non so quante volte...».

«Ecco, col pianista sì».

«Quando è morta mia madre, credo. Era il 1977».

».

«Sono di fatto monogamo. Quindi l’amore è esclusivo per una persona. Però sono stato un “apprezzato­re”».

«Be’... non solo firtare».

«Ah! Ma quello era solo un invito, non prevedeva un fnale».

« L’A N A L I S TA? NON MI FIDO: È C OM E F A R S I LEGGERE LA MANO»

I N TO U R F I N O

A OT TO B R E «Da ragazzo andai in una casa chiusa, ma non era affascinan­te: niente velluti né ori»

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