POTENZA AL QU ADRATO
Arriva anche un film con Adam Sandler a incoronare i pezzettini più importanti del nostro tempo: i PIXEL
Tecnicamente si tratta di un quadrato. Alle origini, quando si cominciò a parlarne, era un quadrato verde, grigio o arancione: gli schermi erano a fosfori monocromatici, e di fascino ce n’era davvero poco. Questi quadratini incarnano la differenza tra il vero e il rappresentato, almeno in forma elettronica: una particella minuscola della grafite di cui è fatta la mina di una matita ha dimensioni e forma non definite; qui abbiamo una forma precisa, simmetrica, liscia, di un colore solo. Questi sono gli elementi di cui è fatta un’immagine, picture element, pixel, appunto. La parola (una delle più fulminee di sempre) prende in prestito dalla fine dell’ottocento il termine pix, che significava picture, immagine, ma con quel senso centrifugo di novità da primi anni della fotografia, quando improvvisamente ci si accorse che c’era bisogno di dirlo veloce, la società era cambiata, le immagini erano tante, ovunque e appetitose.
Dai primi videogiochi nei bar all’arte contemporanea: l’estetica di quei mini poligoni è diventata un mandala
I pixel però diventarono qualcosa di diverso quando, alla fine degli anni Settanta, i bar si popolarono di videogiochi. Allora si trattava di cabinati, mobili di legno in cui si metteva una moneta per fare una partita ( coin operated, da cui il nome coin-op), in effetti molto simili alle primissime forme di cinematografi a moneta (mutoscopi e cinetoscopi). I videogiochi delle origini sono il luogo in cui l’estetica dei quadratini monocromi, i pixel, prese corpo.
Da lì, nel giro di qualche anno, si spostò nelle console di casa. E per quanto oggi ci sembri strano, furono almeno dieci gli anni di dominio dei pixel visibili nell’immaginario videoludico: dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta, infatti, le cose rappresentate sullo schermo non somigliavano alla realtà, ma ne erano una versione a quadratini.
Dopo questa prima fase di necessità, l’idea di quantizzare il mondo − trasformare le sfumature cromatiche in contrasti da un punto all’altro, fare scalette delle curve − è diventata virtù. Non è stata e non è sol- tanto la nostalgia a dare corpo alla pixelart (cercare Totto Renna su Google), che disegna in forma di cubetti qualsiasi cosa reale o immaginaria. C’è, nella semplicità del pixel, qualcosa di vertiginoso, pulito, elegante, profondamente futurista, che gode della schiettezza elemetare degli angoli retti. Nelle forme più ricche, la pixelart è vicina a un mandala tibetano: un inno all’infinitamente piccolo, ricco e composito, una celebrazione di quell’amalgama di estro e meticolosità che è la dote dei nerd di ogni cultura.
Dopo aver sgrossato il nostro gusto, ora definiscono uno stile indipendente. Un po’ come le registrazioni punk
Di recente, i pixel sono diventati qualcosa di ancora diverso: ci sono quelli che compongono tutte le immagini che vediamo sul computer, per esempio, tendenzialmente sempre più piccoli e impercettibili; poi ci sono i pixel in senso grafico, che sono identici a quelli di cui è stato fatto l’idraulico Mario almeno fino all’adolescenza.
Da diversi anni, in realtà, non ci sono più ragioni tecniche per avere quadrati grandi e visibili da nessuna parte, nemmeno nelle schermate dei bancomat. Oggi i pixel sono un linguaggio: nel mondo videoludico, definiscono la natura indipendente di un gioco e il suo spirito verace, un po’ come le registrazioni punk a bassa fedeltà.
I giochi pixellati si distinguono dai titoloni dei grandi editori, che spesso amano il dettaglio, dall’imitazione della realtà e dalla ricchezza del decoro, per ribadire orgogliosamente la propria natura antinaturalistica, giocosa e creativa. C’è un prodotto indipendente di enorme successo che celebra i pixel come mattoni universali ( per la precisione sono “voxel”, essendo tridimensionali e dotati di volume), una via di mezzo tra il Lego e un programma di progettazione per architetti: i bambini di mezzo mondo giocano a Minecraft senza avere mai vissuto, ovviamente, gli anni in cui il mondo doveva
Fra le domande sull’universo che da sempre tolgono il sonno agli scienziati, una ha da poco avuto risposta: le galassie muoiono, cioè smettono di produrre stelle, lentamente. L’incredibile notizia, pubblicata in maggio su Nature (e frutto d’uno studio dei ricercatori dell’università di Cambridge e dell’osservatorio Reale di Edimburgo), sarebbe passata inosservata ai più: per chi non ha passato la vita a studiare il cielo, già è difficile immaginarsi una galassia. Figurarsi comprendere l’importanza del fatto che, ora, in molte di esse sono state scoperte elevate dosi di metalli. Se non fosse che sullo stesso numero della prestigiosa rivista scientifica, poche pagine più in là, un astrofisico italiano ha pubblicato un commento allo studio nel quale ha azzardato il seguente paragone: la morte delle galassie è del tut- to simile a quella di un umano, quando viene strangolato. In pochi giorni, l’ardita metafora di Andrea Cattaneo – milanese, 41 anni – ha fatto il giro del mondo. Lo abbiamo raggiunto all’osservatorio di Parigi, dove svolge la sua attività di ricerca, per approfondire l’indagine.
Il nuovo studio non lascia dubbi: decesso per asfissia
«Posso fare una premessa?». Dica. «Sono contentissimo di parlare dell’argomento, ma trovo che questa notizia sia stata un po’ enfatizzata. Nel 2009, per dire, avevo pubblicato proprio su Nature un articolo nel quale io e altri sedici ricercatori arrivavamo tutti all’identica conclusione, attraverso metodi differenti: i buchi neri sono fondamentali per spiegare le proprietà delle galassie. Una pietra miliare nello sviluppo della teoria sulla formazione delle galassie, appunto. Eppure, ai tempi la stampa non aveva dato tanto risalto alla cosa...».
Andrea Cattaneo – che dopo la laurea all’università di Milano ha preso il dottorato a Cambridge per poi svolgere le sue ricerche presso gli Istituti di Astrofisica a Parigi, Potsdam, Gerusalemme, Lione e Marsiglia – in effetti non ha torto: stavolta la notizia vera riguarda lo studio su 26mila galassie effettuato dal team di Yingjie Peng, e di cui lui non ha fatto parte. Ma la sua interpretazione di questo lavoro, la metafora dello strangolamento insomma, è di gran lunga più avvincente. E, come in un vero giallo, ha anche un colpo di scena.
«Partiamo dal principio, e cioè da una stella. Essenzialmente, si tratta di una palla di gas che brucia idrogeno ed elio, e produce metalli», spiega Andrea Cattaneo. «Quindi posso dire che è come l’essere umano, che respira ossigeno ed emette anidride carbonica. Ora, supponiamo che una persona muoia di colpo, che so, in un incidente d’auto: smette immediatamente sia di respirare ossigeno sia di emettere anidride carbonica». Chiaro.
«Immaginiamo invece che venga uccisa per strangolamento: non c’è più ossigeno che entra, ma il corpo continua a emettere anidride carbonica per quattro minuti, perché l’ossigeno rimasto nei polmoni e nel sangue viene ancora utilizzato. In quel momento, dunque, nell’organismo della vittima si registra una quantità di anidride carbonica elevata. Allo stesso modo, la ricerca di Peng ha dimostrato che la maggioranza delle galassie inattive presenta molti più metalli delle altre. E questa è la prova che la loro morte è stata lenta, graduale».
In realtà, dire che una galassia è morta non è del tutto corretto. «Io preferisco immaginarle in pensione » , aggiunge Cattaneo. « Perché in fondo sono lì, si vedono, ci sono mille miliardi di stelle in quelle galassie. Anche se ormai si tratta solo di stelle rosse…».
Cioè? «Esistono due tipi fondamentali di stelle, le “blu” e le “rosse”. Le blu sono quelle più luminose, ma hanno una vita corta. Somigliano a giovani ricchi che spendono senza controllo, conducono una vita più brillante degli altri, ma in breve finiscono tutte le loro risorse».
E le rosse, invece? «Sono come le persone nate povere, abituate a vivere con poco, e che con la loro vita frugale sono riuscite ad arrivare fino ai 90 anni. Detta in altri termini: le stelle rosse sono molte di più, ma non fanno notizia, proprio come al mondo ci sono milioni di donne, ma solo Kim Kardashian finisce su tutti i giornali».
Kim Kardashian sarebbe dunque una fra le più brillanti stelle blu: auguriamole che non abbia le loro prospettive di vita... «Già perché, come dicevo, vivono poco: “solo” qualche decina di milioni di anni. Poi esplodono, diventano su
perno-
«LA CHIMIC A D I MOS T R A CHE LA MO R T E È S TATA L E N T A »
ve, e di loro resta un buco nero. Le stelle rosse invece muoiono dopo oltre dieci miliardi di anni, senza alcun clamore».
Ricapitolando: le stelle blu muoiono presto, quindi restano giovani fino alla fine. Ne consegue che, quando una galassia non ha più stelle blu, ma solo rosse, significa che in essa non si sono più formate nuove stelle di recente e che quindi è “morta” (o “in pensione”).
Ma quand’è che viene strangolata? «Ora ci arrivo».
Colpo di scena. La vittima non era chi pensavamo
«Le galassie ellittiche giganti, (quasi) sempre rosse, sono le più grandi dell’universo. Differiscono dalle altre in taglia, forma e colore perché sono il risultato di una collisione tra spirali, che a quel punto si compenetrano facendo una specie di frittata cosmica. Disordinata, per di più, dove invece le spirali avevano un sistema di rotazione ordinato, simile a quello d’una giostra. Ora, è molto facile trasformare l’ordine in disordine, mentre è molto più difficile il contrario. La prova è a casa mia, si tratta di un concetto che cerco sempre di spie- gare a mia moglie. Lei dice: “La casa è sempre in disordine”. Io rispondo: “È normale. Si tratta di una legge fondamentale della fisica”, quella dell’entropia. Il disordine per sua natura tende sempre ad aumentare. Per invertire il processo, occorrerebbero energia e lavoro».
In pratica, nelle galassie ellittiche giganti, come nella stanza d’un adolescente, le orbite sono state disperse e nessuno ha intenzione di intervenire per rimettere a posto le cose.
Ma, insomma, quando è avvenuto lo strangolamento? «Mai. Le galassie rosse massive hanno smesso di fare stelle molto velocemente, come si è sempre saputo, cioè in meno di mezzo miliardo di anni».
Scusi, e la ricerca di Peng pubblicata su Nature? L’agonia lunga quattro miliardi di anni, che lei ha paragonato ai quattro minuti di strangolamento d’un umano? « Nello studio, importante, i ricercatori hanno dimostrato che la maggior parte delle galassie rosse muore lentamente. Ma, attenzione, la maggior parte delle galassie rosse sono piccole, a spirale, simili a quelle blu ma meno luminose (proprio perché non contengono più stelle blu). Si tratta di una sottopopolazione diffusa, ma decisamente meno rilevante delle altre».
Colpo di scena: la vittima «non è il papa, ma un pensionato » . Detta così, la notizia appare davvero un po’ ridimensionata. « Gliel’avevo detto, all’inizio. E senza nulla togliere alla ricerca di Yi n g j i e Peng».
E come sono morte, allora, le ellittiche giganti rosse? « Nell’incidente “stradale” fra spirali di cui parlavamo prima, è chiaro. Ma adesso dobbiamo chiederci perché: in realtà, infatti, il gas intorno alle galassie ellittiche è davvero tanto, ma troppo caldo (diversi milioni di gradi) per produrre nuove stelle».
E da dove viene, tutto que- sto calore? «Quando le galassie a spirale hanno cozzato le une contro le altre, diventando ellittiche, un po’ di gas è caduto proprio al centro e ha alimentato la crescita di un buco nero supermassivo che -– quando la galassia è diventata vecchia e ha smesso di produrre stelle -– si è trovato a essere l’unica fonte di energia ancora attiva».
Ma intorno ai buchi neri l’indagine non si ferma
«Ora, da un buco nero non può uscire niente, ma se vi entra anche una quantità minima di materia produce fenomeni di energia straordinari, che diffondono calore nelle zone circostanti. Di fatto, dunque, i buchi neri sono un po’ come i fondi pensione che accantoni da giovane per garantirti risorse quando sei anziano. L’unica differenza è che, per assurdo, se a un certo punto questi buchi neri smettessero di produrre energia, i gas intorno all’ellittica gigante rossa si raffredderebbero e la galassia tornerebbe giovane». A produrre nuove, luminosissime stelle blu.