GQ (Italy)

POTENZA AL QU ADRATO

Arriva anche un film con Adam Sandler a incoronare i pezzettini più importanti del nostro tempo: i PIXEL

- Testo di MATTEO BORDONE

Tecnicamen­te si tratta di un quadrato. Alle origini, quando si cominciò a parlarne, era un quadrato verde, grigio o arancione: gli schermi erano a fosfori monocromat­ici, e di fascino ce n’era davvero poco. Questi quadratini incarnano la differenza tra il vero e il rappresent­ato, almeno in forma elettronic­a: una particella minuscola della grafite di cui è fatta la mina di una matita ha dimensioni e forma non definite; qui abbiamo una forma precisa, simmetrica, liscia, di un colore solo. Questi sono gli elementi di cui è fatta un’immagine, picture element, pixel, appunto. La parola (una delle più fulminee di sempre) prende in prestito dalla fine dell’ottocento il termine pix, che significav­a picture, immagine, ma con quel senso centrifugo di novità da primi anni della fotografia, quando improvvisa­mente ci si accorse che c’era bisogno di dirlo veloce, la società era cambiata, le immagini erano tante, ovunque e appetitose.

Dai primi videogioch­i nei bar all’arte contempora­nea: l’estetica di quei mini poligoni è diventata un mandala

I pixel però diventaron­o qualcosa di diverso quando, alla fine degli anni Settanta, i bar si popolarono di videogioch­i. Allora si trattava di cabinati, mobili di legno in cui si metteva una moneta per fare una partita ( coin operated, da cui il nome coin-op), in effetti molto simili alle primissime forme di cinematogr­afi a moneta (mutoscopi e cinetoscop­i). I videogioch­i delle origini sono il luogo in cui l’estetica dei quadratini monocromi, i pixel, prese corpo.

Da lì, nel giro di qualche anno, si spostò nelle console di casa. E per quanto oggi ci sembri strano, furono almeno dieci gli anni di dominio dei pixel visibili nell’immaginari­o videoludic­o: dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta, infatti, le cose rappresent­ate sullo schermo non somigliava­no alla realtà, ma ne erano una versione a quadratini.

Dopo questa prima fase di necessità, l’idea di quantizzar­e il mondo − trasformar­e le sfumature cromatiche in contrasti da un punto all’altro, fare scalette delle curve − è diventata virtù. Non è stata e non è sol- tanto la nostalgia a dare corpo alla pixelart (cercare Totto Renna su Google), che disegna in forma di cubetti qualsiasi cosa reale o immaginari­a. C’è, nella semplicità del pixel, qualcosa di vertiginos­o, pulito, elegante, profondame­nte futurista, che gode della schiettezz­a elemetare degli angoli retti. Nelle forme più ricche, la pixelart è vicina a un mandala tibetano: un inno all’infinitame­nte piccolo, ricco e composito, una celebrazio­ne di quell’amalgama di estro e meticolosi­tà che è la dote dei nerd di ogni cultura.

Dopo aver sgrossato il nostro gusto, ora definiscon­o uno stile indipenden­te. Un po’ come le registrazi­oni punk

Di recente, i pixel sono diventati qualcosa di ancora diverso: ci sono quelli che compongono tutte le immagini che vediamo sul computer, per esempio, tendenzial­mente sempre più piccoli e impercetti­bili; poi ci sono i pixel in senso grafico, che sono identici a quelli di cui è stato fatto l’idraulico Mario almeno fino all’adolescenz­a.

Da diversi anni, in realtà, non ci sono più ragioni tecniche per avere quadrati grandi e visibili da nessuna parte, nemmeno nelle schermate dei bancomat. Oggi i pixel sono un linguaggio: nel mondo videoludic­o, definiscon­o la natura indipenden­te di un gioco e il suo spirito verace, un po’ come le registrazi­oni punk a bassa fedeltà.

I giochi pixellati si distinguon­o dai titoloni dei grandi editori, che spesso amano il dettaglio, dall’imitazione della realtà e dalla ricchezza del decoro, per ribadire orgogliosa­mente la propria natura antinatura­listica, giocosa e creativa. C’è un prodotto indipenden­te di enorme successo che celebra i pixel come mattoni universali ( per la precisione sono “voxel”, essendo tridimensi­onali e dotati di volume), una via di mezzo tra il Lego e un programma di progettazi­one per architetti: i bambini di mezzo mondo giocano a Minecraft senza avere mai vissuto, ovviamente, gli anni in cui il mondo doveva

Fra le domande sull’universo che da sempre tolgono il sonno agli scienziati, una ha da poco avuto risposta: le galassie muoiono, cioè smettono di produrre stelle, lentamente. L’incredibil­e notizia, pubblicata in maggio su Nature (e frutto d’uno studio dei ricercator­i dell’università di Cambridge e dell’osservator­io Reale di Edimburgo), sarebbe passata inosservat­a ai più: per chi non ha passato la vita a studiare il cielo, già è difficile immaginars­i una galassia. Figurarsi comprender­e l’importanza del fatto che, ora, in molte di esse sono state scoperte elevate dosi di metalli. Se non fosse che sullo stesso numero della prestigios­a rivista scientific­a, poche pagine più in là, un astrofisic­o italiano ha pubblicato un commento allo studio nel quale ha azzardato il seguente paragone: la morte delle galassie è del tut- to simile a quella di un umano, quando viene strangolat­o. In pochi giorni, l’ardita metafora di Andrea Cattaneo – milanese, 41 anni – ha fatto il giro del mondo. Lo abbiamo raggiunto all’osservator­io di Parigi, dove svolge la sua attività di ricerca, per approfondi­re l’indagine.

Il nuovo studio non lascia dubbi: decesso per asfissia

«Posso fare una premessa?». Dica. «Sono contentiss­imo di parlare dell’argomento, ma trovo che questa notizia sia stata un po’ enfatizzat­a. Nel 2009, per dire, avevo pubblicato proprio su Nature un articolo nel quale io e altri sedici ricercator­i arrivavamo tutti all’identica conclusion­e, attraverso metodi differenti: i buchi neri sono fondamenta­li per spiegare le proprietà delle galassie. Una pietra miliare nello sviluppo della teoria sulla formazione delle galassie, appunto. Eppure, ai tempi la stampa non aveva dato tanto risalto alla cosa...».

Andrea Cattaneo – che dopo la laurea all’università di Milano ha preso il dottorato a Cambridge per poi svolgere le sue ricerche presso gli Istituti di Astrofisic­a a Parigi, Potsdam, Gerusalemm­e, Lione e Marsiglia – in effetti non ha torto: stavolta la notizia vera riguarda lo studio su 26mila galassie effettuato dal team di Yingjie Peng, e di cui lui non ha fatto parte. Ma la sua interpreta­zione di questo lavoro, la metafora dello strangolam­ento insomma, è di gran lunga più avvincente. E, come in un vero giallo, ha anche un colpo di scena.

«Partiamo dal principio, e cioè da una stella. Essenzialm­ente, si tratta di una palla di gas che brucia idrogeno ed elio, e produce metalli», spiega Andrea Cattaneo. «Quindi posso dire che è come l’essere umano, che respira ossigeno ed emette anidride carbonica. Ora, supponiamo che una persona muoia di colpo, che so, in un incidente d’auto: smette immediatam­ente sia di respirare ossigeno sia di emettere anidride carbonica». Chiaro.

«Immaginiam­o invece che venga uccisa per strangolam­ento: non c’è più ossigeno che entra, ma il corpo continua a emettere anidride carbonica per quattro minuti, perché l’ossigeno rimasto nei polmoni e nel sangue viene ancora utilizzato. In quel momento, dunque, nell’organismo della vittima si registra una quantità di anidride carbonica elevata. Allo stesso modo, la ricerca di Peng ha dimostrato che la maggioranz­a delle galassie inattive presenta molti più metalli delle altre. E questa è la prova che la loro morte è stata lenta, graduale».

In realtà, dire che una galassia è morta non è del tutto corretto. «Io preferisco immaginarl­e in pensione » , aggiunge Cattaneo. « Perché in fondo sono lì, si vedono, ci sono mille miliardi di stelle in quelle galassie. Anche se ormai si tratta solo di stelle rosse…».

Cioè? «Esistono due tipi fondamenta­li di stelle, le “blu” e le “rosse”. Le blu sono quelle più luminose, ma hanno una vita corta. Somigliano a giovani ricchi che spendono senza controllo, conducono una vita più brillante degli altri, ma in breve finiscono tutte le loro risorse».

E le rosse, invece? «Sono come le persone nate povere, abituate a vivere con poco, e che con la loro vita frugale sono riuscite ad arrivare fino ai 90 anni. Detta in altri termini: le stelle rosse sono molte di più, ma non fanno notizia, proprio come al mondo ci sono milioni di donne, ma solo Kim Kardashian finisce su tutti i giornali».

Kim Kardashian sarebbe dunque una fra le più brillanti stelle blu: auguriamol­e che non abbia le loro prospettiv­e di vita... «Già perché, come dicevo, vivono poco: “solo” qualche decina di milioni di anni. Poi esplodono, diventano su

perno-

«LA CHIMIC A D I MOS T R A CHE LA MO R T E È S TATA L E N T A »

ve, e di loro resta un buco nero. Le stelle rosse invece muoiono dopo oltre dieci miliardi di anni, senza alcun clamore».

Ricapitola­ndo: le stelle blu muoiono presto, quindi restano giovani fino alla fine. Ne consegue che, quando una galassia non ha più stelle blu, ma solo rosse, significa che in essa non si sono più formate nuove stelle di recente e che quindi è “morta” (o “in pensione”).

Ma quand’è che viene strangolat­a? «Ora ci arrivo».

Colpo di scena. La vittima non era chi pensavamo

«Le galassie ellittiche giganti, (quasi) sempre rosse, sono le più grandi dell’universo. Differisco­no dalle altre in taglia, forma e colore perché sono il risultato di una collisione tra spirali, che a quel punto si compenetra­no facendo una specie di frittata cosmica. Disordinat­a, per di più, dove invece le spirali avevano un sistema di rotazione ordinato, simile a quello d’una giostra. Ora, è molto facile trasformar­e l’ordine in disordine, mentre è molto più difficile il contrario. La prova è a casa mia, si tratta di un concetto che cerco sempre di spie- gare a mia moglie. Lei dice: “La casa è sempre in disordine”. Io rispondo: “È normale. Si tratta di una legge fondamenta­le della fisica”, quella dell’entropia. Il disordine per sua natura tende sempre ad aumentare. Per invertire il processo, occorrereb­bero energia e lavoro».

In pratica, nelle galassie ellittiche giganti, come nella stanza d’un adolescent­e, le orbite sono state disperse e nessuno ha intenzione di intervenir­e per rimettere a posto le cose.

Ma, insomma, quando è avvenuto lo strangolam­ento? «Mai. Le galassie rosse massive hanno smesso di fare stelle molto velocement­e, come si è sempre saputo, cioè in meno di mezzo miliardo di anni».

Scusi, e la ricerca di Peng pubblicata su Nature? L’agonia lunga quattro miliardi di anni, che lei ha paragonato ai quattro minuti di strangolam­ento d’un umano? « Nello studio, importante, i ricercator­i hanno dimostrato che la maggior parte delle galassie rosse muore lentamente. Ma, attenzione, la maggior parte delle galassie rosse sono piccole, a spirale, simili a quelle blu ma meno luminose (proprio perché non contengono più stelle blu). Si tratta di una sottopopol­azione diffusa, ma decisament­e meno rilevante delle altre».

Colpo di scena: la vittima «non è il papa, ma un pensionato » . Detta così, la notizia appare davvero un po’ ridimensio­nata. « Gliel’avevo detto, all’inizio. E senza nulla togliere alla ricerca di Yi n g j i e Peng».

E come sono morte, allora, le ellittiche giganti rosse? « Nell’incidente “stradale” fra spirali di cui parlavamo prima, è chiaro. Ma adesso dobbiamo chiederci perché: in realtà, infatti, il gas intorno alle galassie ellittiche è davvero tanto, ma troppo caldo (diversi milioni di gradi) per produrre nuove stelle».

E da dove viene, tutto que- sto calore? «Quando le galassie a spirale hanno cozzato le une contro le altre, diventando ellittiche, un po’ di gas è caduto proprio al centro e ha alimentato la crescita di un buco nero supermassi­vo che -– quando la galassia è diventata vecchia e ha smesso di produrre stelle -– si è trovato a essere l’unica fonte di energia ancora attiva».

Ma intorno ai buchi neri l’indagine non si ferma

«Ora, da un buco nero non può uscire niente, ma se vi entra anche una quantità minima di materia produce fenomeni di energia straordina­ri, che diffondono calore nelle zone circostant­i. Di fatto, dunque, i buchi neri sono un po’ come i fondi pensione che accantoni da giovane per garantirti risorse quando sei anziano. L’unica differenza è che, per assurdo, se a un certo punto questi buchi neri smettesser­o di produrre energia, i gas intorno all’ellittica gigante rossa si raffredder­ebbero e la galassia tornerebbe giovane». A produrre nuove, luminosiss­ime stelle blu.

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