GQ (Italy)

Io sono il moto perpetuo

C’è un sacco di gente che fa robe matte e non lo dice in giro. MARCO ZAFFARONI, per esempio, era al campo 1 sull’everest il giorno del terremoto. Quest’uomo è un collezioni­sta di cime, gare endurance e azioni estreme, e si sfonda in continuazi­one per pr

- Testo di CRISTINA D’ANTONIO Foto di MATTIA BALSAMINI

Lo Zaffa è un irregolare che sa di esserlo. Era al campo 1 sull’everest, quel 25 aprile del terremoto in Nepal. Stava salendo con Roberto Boscato in stile gitante, senza ossigeno e con un solo sherpa. Li ha fermati la valanga: sono rimasti due giorni in attesa di poter scendere, ma hanno scampato la morte al campo base.

Marco Zaffaroni è un irregolare perché non è un alpinista profession­ista ma ha scalato cinque delle Seven Summits, un paio di Ottomila e una quantità imprecisat­a di Quattromil­a. Tanto per dire, oltre al fatto che colleziona gare endurance e su lunga distanza da più di 20 anni. Però lo Zaffa lavora anche: produce calze e collant. Lui, che gira in Birkenstoc­k anche in inverno. Dice: «I paradossi. Se non ci fosse stato il terremoto, saremmo arrivati in cima. E nessuno lo saprebbe. Invece sono reduce da una non-scalata. E tu sei qui per parlare con me».

«La montagna è una cosa, l’himalaya fa storia a sé»

Tosi sempre le mucche da competizio­ne per passione?

«Si chiamano vacche. Vacca, bovino da latte. Mucca, termine dialettale per vacca».

Tosi ancora le vacche?

«Di meno. Ci sono meno fiere, meno clienti e più ragazzini che si sono messi a tosare. Prima era un lavoro che finanziava le spedizioni, adesso devo trovare altri sistemi».

Quindi come le finanzi?

«Avevo un compagno di spedizioni, Mario Merelli, l’ho seguito per sei, sette anni. Poi lui è morto e io ho ereditato qualche suo sponsor e tutto l’amore della sua gente, gli amici della Val Seriana».

Andavate voi due soli?

«Andavamo noi due, ma ho fatto anche tante cose da solo».

Intendi le gare di resistenza?

«Anche. Ma l’himalaya

ti porta via tempo, poi ne impieghi altro per rimettere assieme i pezzi. Dopo, hai poco da stare ancora in giro».

Qual è la differenza con le altre spedizioni?

«In Sud America è semplice: vai, fai un Seimila e torni. Venti giorni e hai finito. In Himalaya vai, sali, guardi come stai, monti le tende, ti viene il mal di montagna, scendi, risali. E di giorni ce ne vogliono 60».

Risponde al telefono, risponde alle mail. «Tu parla, io ti ascolto».

Dimmi dove stai adesso con la testa.

«Quando mi vedeva fare così, mio padre diceva “Va’ che la gh’è apéna tre laurà che se po’ fa insema”. Ci sono solo tre lavori che puoi fare assieme. Stavo pensando a lui».

E all’everest, e alla valanga? Sei lì o sei qui?

«Da lì non si torna mai, sai? Mi spiego. L’himalaya non piace a tutti: ti lascia in attesa di poter salire, e sono pause infinite. Hai la nausea, non riesci a fare la pipì, ti svegli con l’ansia. Aspetti che cambi il tempo, e poi quando arriva il momento devi scattare come una molla, perché non puoi perderlo. È una cosa che dà sui nervi. Ma se ti affascina, continui a tornarci. Quindi se mi chiedi se sono qui con la testa...».

Te lo chiedo.

«Diciamo che quando io sono qua, con la testa sono là. E quando sono là con il corpo, penso a cosa ho lasciato qui. Ieri ero in Nepal, oggi lavoro. Devo organizzar­e una gara per sabato, domenica vado a tosare. Intanto devo tenere insieme questa ditta di calze da donna. Ecco la differenza tra me e un alpinista pro-

«il mio co r p o n o n È mai do ve s i t r o va l a t e s ta »

fessionist­a: lui, quando dice che va a casa, sta andando per montagne; io, per andare in montagna, parto alle tre della mattina, faccio il Breithorn e a mezzogiorn­o sono in ufficio».

Quindi come metti insieme il qui e l’himalaya?

«Metto che ci vado due volte l’anno. Una per vedere l’ospedale che ho costruito con Merelli nel Dolpo, la regione nepalese più lontana da tutto che si potesse scegliere. La seconda volta torno a vedere come va l’ospedale e poi cerco di salire in montagna. Gli anni in cui ho fatto due spedizioni non riuscivo più a capire quando ero qui e quando ero là. Poi mi sono fatto male».

Quante volte ti sei fatto male?

«Un po’. Una volta mi sono congelato. Le dita del piede sinistro».

Le hai ancora?

«No. Ho tre moncherini. A 8 mila metri, sul Lhotse, sono andato in edema cerebrale. Non ho ricordi troppo lucidi di come è andata. So che mi sono girato e che sono tornato indietro».

Così, da solo?

«Sì».

Il tuo compagno non se n’era accorto?

«Non ci siamo posti il problema tra noi, non mi sembra il caso che lo facciamo io e te».

Cala il silenzio. Poi, raccon- ta. Del freddo ai piedi. Delle allucinazi­oni. Del ritorno.

«Quando io e Mario ci siamo rivisti, non avevamo bisogno di spiegarci nulla. Lui non mi ha chiesto perché sono sceso, io non gli ho chiesto perché non mi è venuto dietro. Siamo stati contenti di ritrovarci. E basta. Abbiamo ricomincia­to a scalare. È questa l’amicizia, è questa la complicità».

Quanto ti fa paura l’himalaya?

«Abbastanza da sapere che alle montagne devo tutto il mio rispetto. In Himalaya sono andato dieci volte, in sette ho rischiato la vita, in due mi sono fatto veramente male, da una ho riportato un amico nel sacco nero. Quest’anno stavo andando da solo. Poi, due mesi prima della partenza, ho chiamato Roberto Boscato».

«Sì, e sapevo che con lui sarei potuto restare in silenzio».

È fondamenta­le?

«Non sopporto quelli che usano la propria voce per sentire che sono vivi. Ci sono cose che è bello non dirsi».

Quando facevi le gare e non ne potevi più dalla fatica, aspettavi tuo padre nei tuoi pensieri e gli parlavi. Lo fai ancora?

«Sì. E parliamo ancora più di quando era in vita».

Cosa vi dite?

«È una presenza. Gli sono sempre piaciuti i proverbi, quando sono nei guai, lui mi dice la sua in dialetto».

Per esempio?

«Per esempio, dopo la valanga. Avevo dietro il cibo e un paio di calze. Il resto no: pensavo di dormire lì, di salire al campo 2, di tornare al campo base. Quando è venuta giù la

« P e da lo,

co r r o e Produc o co l l a n t » «In Himalaya sono andato 10 volte: in 7 ho rischiato la vita, da una ho riportato un morto»

montagna, ero bagnato fradicio. E l’ho sentito. “Pàa e pàgn i bun cumpàgn”. Pane e panni sono buoni compagni. Mi fossi portato una maglia di ricambio, non sarei sotto antibiotic­o».

«Passati i cinquant’anni non ti alleni: ti mantieni»

Come è andata lassù?

«Hai letto il blog? Così è andata. Siamo saliti, abbiamo montato la tenda. Roberto si è messo a dormire, io a fare il tè. Ho sentito tremare, ma non era la vibrazione di assestamen­to del ghiacciaio. Siamo usciti senza scarponi: il tempo di infilarli, ed ecco la valanga. Abbiamo piantato le piccozze nella neve, ci siamo attaccati a quelle: sventolavo come una bandiera. A seimila metri pensi a tutto, ma non a un terremoto. Credimi: non c’è tempo di perdere la testa. Speri solo che la valanga non ti prenda».

Silenzio. Si alza in piedi. «Andiamo a mangiare, dai».

Racconta di Kathmandu e di miss Hawley, la vecchia signora che interroga gli alpinisti per capire se hanno fatto davvero cima. Dice del Club dei 4000, il gruppo del Cai che riunisce gli scalatori che hanno salito almeno 30 delle 82 vette superiori ai Quattromil­a. E poi: «Sull’everest, il problema era: come scendiamo da qui?». Hanno aspettato due giorni, perché l’elicottero porta due persone alla volta. Saltando a ogni nuova scossa. Temendo le nuvole, perché con il brutto tempo non si vola.

Sono stati i giorni peggiori della tua vita?

«Impegnativ­i. Avevo avvertito che la batteria del telefono era agli sgoccioli, di non mandare messaggi. Invece scrivevano: non mollare. Ma cosa vuoi che molli, dopo un terremoto che ha portato via mezzo campo base, mica sto facendo una gara di paese…».

Come paura?

si smaltisce

la

«Sono fortunato. Ho la memoria corta».

Perché gli uomini sono sempre più in fissa con le azioni estreme?

«Per avere la prova della propria esistenza. Immagina un’umanità che non ha più nulla da esplorare, ammalata di benessere, così avanti da risultare in declino. Gli uomini corrono dietro alle azioni estreme per sentirsi vivi. Ciò che agli altri sembra patolo- gico, per noi è fisiologic­o. Il giorno in cui il mio fisico non ne avrà più bisogno, o non ce la farà più, farò altro. Ma nel frattempo non mi tatuo la “I” di Ironman sul polpaccio».

Già: quanti ne hai fatti?

«Più di 10».

Sei un drogato.

«Gli sforzi fisici portati al limite producono endorfine che il corpo immagazzin­a e rilascia nel tempo. Sei più eccitato una settimana dopo l’ironman e un mese dopo un Ottomila. Sono un drogato? A me probabilme­nte non fa nemmeno più

questo effetto...».

Cosa farai, se mai ti dedicherai ad altro?

«Starò seduto a casa mia a leggere un libro. Chiedimi qual è il sogno nel cassetto».

Piuttosto, quanto sognavi di fare l’esplorator­e.

«Ho sempre sognato di fare la giovane marmotta, ma per esserlo devi mettere la divisa, e io non ce la faccio. Ho il vezzo di arrivare al campo base dell’everest con lo stesso vestito con cui sono sceso dall’aereo. Nessuno deve capire cosa vado a fare».

Potendo scegliere, saresti qui a produrre collant per donna o saresti altrove?

«Starei qui. Credo si debbano avere radici solide e un forte senso di appartenen­za per andare lontano: con quelle non hai paura di niente, perché c’è un posto dove tornare. Io sono di Cesate, della periferia, non di Milano. Mi alleno nel Parco delle Groane e mi fa piacere,

perché è casa mia».

Cosa fai per allenarti?

«Quello di cui ho voglia. Passati i 50 anni, non ti alleni: ti mantieni. Anche se significa farlo tre volte al giorno. Ma se Fitzcarral­do voleva costruire un teatro in Amazzonia e Indiana Jones corre dietro al Santo Graal, io potrò cercare il moto perpetuo, o no?».

Per te che cos’è la fatica?

«È quando sono stanco: quello è il mio metro di misura. Il problema non è la fatica: è alzarsi con la voglia di farne. Sia che tu vada a lavorare, a tosare, a pedalare. Io la mattina mi alzo e ho voglia di fare».

A che ora ti alzi?

«Alle cinque».

E la giornata finisce?

«Alle undici, mezzanotte. Se vado a fare scialpinis­mo in notturna, all’una. Ma adesso, se smetto di parlare con te, mi addormento».

«non È la fat i ca, i l problema: È l a v oglia

di f arne» «Le endorfine? Quando scali un Ottomila, l’eccitazion­e vera arriva dopo un mese»

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