Patrick Angus
Questa è una storia di colpi di fulmine, coincidenze, scoperte e incontri straordinari, che si dipana tra eccentrici appartamenti di Manhattan, la provincia rurale dell’arkansas, un casinò cherokee in Oklahoma, Milano e Los Angeles.
Tutto ha inizio nel 2012. «Ero a Parigi», racconta Fabio Cherstich, ventinove anni, regista teatrale, «quando un amico, Tomaso De Luca, mi fa vedere sul suo smartphone un’opera di un certo Patrick Angus». La curiosità per quello sconosciuto artista americano, morto a 38 anni nel 1992, si trasforma in una ricerca ossessiva, i cui primi esiti sono sconfortanti: l’unica mostra personale di cui Cherstich trova traccia si è conclusa da poco al Regional Art Museum di Fort Smith, Arkansas. Il fucking middle of nowhere, insomma.
Senza saperlo, Betty aspettava quella telefonata da vent’anni
Immaginiamo l’incredulità della curatrice di quel remoto museo, nel ricevere la telefonata da un italiano che chiede informazioni su un artista totalmente dimenticato. Da lei, comunque,
Cherstich ottiene il contatto con Betty Angus, madre di Patrick, vedova, che vive sola in una grande casa a Fort Smith: era stata lei a prestare tutti i lavori del figlio al museo cittadino per quell’unica mostra. Fabio la chiama subito e resta con lei al telefono per un’ora. Forse, senza nemmeno saperlo, Betty stava aspettando quella chiamata da vent’anni: qualcuno aveva finalmente trovato accesso al mondo dimenticato di suo figlio.
«Mi disse che l’unico modo per vedere i lavori di Patrick era andare a trovarla, e che ne aveva a centinaia», racconta Fabio. I due si lasciano con la promessa di incontrarsi il prima possibile.
Ora, per un regista che lavora a tre o più produzioni per volta e che vive perennemente in viaggio, “il prima possibile” può voler dire due anni. Ed è infatti solo nell’agosto del 2014 che Cherstich parte per gli States insieme a Carlotta Manaigo, un’amica fotografa. La prima tappa è New York dove, nel cuore di Manhattan, vive un personaggio chiave della storia: il dandy Douglas Blair Turnbaugh, 82 anni, uno dei più grandi esperti di danza al mondo, raffinato collezionista e autore dei due soli libri esistenti su Angus.
«Quando Patrick si trasferì a New York, negli Anni 80, Turnbaugh divenne il suo mentore (insieme a Quentin Crisp, l’englishman in New York cantato da Sting, e al drammaturgo Robert Stuart)», racconta Cherstich. «Fu lui a organizzare la mostra di Angus al Santa Barbara Institute of Art nel ’92, dove il grande David Hockney acquistò addirittura sei tele». Douglas Blair Turnbaugh avrebbe anche pubblicato il libro Strip Show, che raccoglie i lavori newyorkesi di Angus, ambientati nei club e nelle saune gay di Manhattan.
Douglas racconta a Cherstich di quando gli mostrò le bozze della monografia: Patrick era in ospedale, in fin di vita, consumato dall’aids, ma trovò le forze per correggere l’impaginato, esaminando la messa a fuoco delle immagini e la fedeltà dei colori tipografici rispetto alle sue opere: «Malgrado stesse morendo, mi disse che quello era uno dei giorni più felici della sua vita».
La collezione di Turnbaugh svela il profondo legame con Angus: i suoi lavori, appesi alle pareti o raccolti in cartelle stipate sotto al letto, sono centinaia. «Rimasi sgomento quando, da un improbabile cassetto sotto al materasso, Douglas estrasse anche una cartella con una cinquantina di early works di Richard Prince, suo amico fraterno agli inizi della carriera», continua Cherstich.
Sotto il materasso di Turnbaugh spuntano altri capolavori
La seconda tappa del viaggio è Fort Smith, Arkansas (che vanta l’aeroporto più assurdo della terra, tipo salotto di Happy Days).
Fabio e Carlotta vengono accolti da Betty Angus, splendida 80enne vestita sempre in look monocromi, che li accompagna nella sua casa-museo. Le opere del figlio sono ovunque, anche in garage, e si rivelano molto diverse da quelle a tema omoerotico che possedeva Douglas. «Betty aveva tutta la produzione precedente, quella californiana degli Anni 60 e 70, il cui fulcro sono i ritratti e i paesaggi, e dalla quale emerge il grande colorista oltre che il grande disegnatore», continua Cherstich.
Le muse di Patrick Angus erano amici, compagni di scuola, modelli del Santa Barbara Institute of Art. E altri enigmatici boys adolescenti, dandy improvvisati, operai, sportivi, ritratti seminudi su un letto o sul divano. Ma tra i quadri ci sono anche nudi femminili, ritratti di oggetti e scene grottesche sullo sfondo delle spiagge di Los Angeles o dei grattacieli di Santa Barbara. È tutto prodigioso, e Cherstich non si capacita di come Angus possa essere stato dimenticato: «Betty aveva organizzato qualche mostra senza alcun successo», continua. «L’ultima, pochi mesi prima del nostro incontro, si era tenuta nell’ospizio di Fort Smith. Dovevo assolutamente strappare quell’immenso lavoro dall’oblio».
Dopo tre giorni trascorsi con Betty (che trova anche il tempo di portarli a un casinò cherokee in Oklahoma), Fabio e Carlotta tornano in Italia. Ed è a questo punto che Cherstich mi racconta l’intera storia. Perché, per inciso, conosco Fabio da più di dieci anni, dai tempi della scuola Paolo Grassi di Milano, e ho sempre avuto una fiducia cieca nel suo intuito: per questo, gli chiedo di portarmi in Arkansas con lui. E questa volta non passano due anni, ma solo pochi mesi.
È, infatti, nel novembre 2014 che arriviamo a Fort Smith. Temo che Betty possa sentirsi assediata da questi italiani bizzarri, e invece la sua è pura gioia, perché probabilmente vede in Fabio qualcosa del talento del proprio figlio. Ci cucina cene improbabili e ci fa ascoltare pezzi di Sinatra da un giradischi che suona sempre ai giri sbagliati (un rallenty mortale con accelerazioni improvvise).
Dopo Milano, Los Angeles: si è innescato il circolo virtuoso
Le chiediamo cos’abbia intenzione di fare della sua immensa collezione e scopriamo, in un clima di strana suspense, che un gallerista tedesco si è appena fatto vivo con lei per avere le opere di Patrick. Betty è dubbiosa, indecisa. Le sembra una violenza separarsi dai lavori di suo figlio. Ma si presenta un’alternativa...
A New York, pochi giorni più tardi, conosco Douglas Turnbau- gh, che mesce litri di Veuve Clicquot e ascolta estasiato i progetti a cui avremmo lavorato. Il primo è una mostra a Milano e si realizza grazie alla disponibilità di Luca Maffei, che coglie l’eccezionalità dell’artista, ma anche l’importanza di un evento del genere nel panorama attuale: nella sua neonata Loom Gallery, a Milano, ospita First Sight, la prima personale di Patrick Angus in Italia, che si è chiusa a fine giugno. Ma in quegli stessi giorni altri bellissimi disegni sono in mostra a Los Angeles, nella galleria di Edward Cella.
Si è innescato un circolo virtuoso, insomma, ed è solo l’inizio: «Mi piacerebbe raccontare questa storia in uno spettacolo, attraverso il mio linguaggio, quello teatrale», dice Cherstich. «Condividere col pubblico un inseguimento, un’immersione, la costruzione di un’avventura collettiva insieme a un amico che viene dal passato e che si chiama Patrick Angus».
«finalmente
il m ondo conos c e r à i l s u o t a l e n to »