GQ (Italy)

E IL MIT O U R LÒ : « P I Ù FORTE!»

Abbiamo ascoltato il nuovo album di KEITH RICHARDS, dopo 23 anni. Lui era in studio con noi, e ne ha fatte di ogni

- Testo di SIMONA SIRI

Non siamo neanche a metà della prima canzone che lui, in piedi in un angolo ad ascoltare, circondato dai collaborat­ori più fidati, urla al tecnico del suono «Più forte!» e con la mano mima il gesto di alzare il volume. Lui è Keith Richards e l’occasione è il listening party per la presentazi­one del suo nuovo disco da solista, Crosseyed Heart, il primo dopo 23 anni (l’ultimo è stato Main Of fender), che uscirà il 18 settembre.

Giacca pitonata, bandana in testa e anelli con i teschi

Siamo nei mitici Electric Lady Studio, a New York, in pieno Greenwich Village − quelli costruiti da e per Jimi Hendrix nel 1970 e da allora usati da artisti come Bob Dylan, U2, The Clash, Guns N’ Roses −, e siamo stati convocati per un’esperienza che nulla ha a che fare con il modo in cui i dischi si ascoltano al giorno d’oggi, ovvero con l’etichetta discografi­ca che ti manda un link e tu solo nella tua stanza che fai altro e intanto butti anche l’orecchio alla musica che esce dal computer.

No, a qualche decina di giornali- sti e fan è dato questa volta il privilegio di ascoltare in anteprima mondiale un disco come si faceva una volta, nel suo ambiente naturale, in uno studio di registrazi­one vero, comodament­e seduti su divani, circondati da strumenti musicali, tappeti e attrezzatu­ra varia, sorseggian­do rosé e spiluccand­o cibo. Ah, sia benedetta la Republic Records e la sua idea di riportarci indietro nel tempo.

Se ciò non fosse già abbastanza, in sala c’è pure lui, il mito, e la sua presenza rende tutto ancora più esclusivo e prezioso. Giacca pitonata, jeans stretti e bandana giamaicana in testa, la faccia stropiccia­ta e gli anelli con i teschi, Keith Richards si presta volentieri a incontrare più o meno tutti, basta mettersi in coda e aspettare il proprio turno. Un po’ come si fa quando si va in udienza dal Papa, immagino: chi gli stringe la mano, chi cerca di fare lo spiritoso, chi lo ricopre di compliment­i, chi si dà un tono cool per non far vedere quanto è emozionato. Non ci sono bambini da baciare e benedire, ma c’è chi gli porta doni: un fan dalla Croazia che ha vinto un concorso per in- contrarlo si presenta con una bottiglia di liquore rossiccio fatto a mano.

Finiti i convenevol­i, Papa Keith si rifugia in un angolo con il batterista Steve Jordan, coautore e produttore del tutto. Parte il primo brano, quello che dà il titolo all’album, e si capisce subito di che pasta è fatto: tanto blues, la voce di Keith che rotola più assonnata che mai, un po’ di reggae, un po’ di country, grandi ballate e un’impression­e generale di un disco molto semplice nel suono e nell’attitudine, ma insieme molto complesso, fatto di strati, colto ma non spocchioso. Esattament­e il tipo di disco che ti aspetti da Keith Richards da solo, ma senza essere troppo scontato, anzi sorprenden­te per intensità e freschezza.

Quindici tracce che vanno via in un po’ più di un’ora, leggere ma mai banali, da ascoltare sì a volume alto, come invoca Keith stesso, ma che funzionano benissimo anche poco più che sussurrate. Che cosa spinga Keith Richards alla fatica di un disco solista proprio nel mezzo della fine del tour nord americano dei Rolling Stones e con un disco nuovo della band quasi sicurament­e in preparazio­ne è un mistero, se non l’amore per la musica e per un prodotto che nella sua semplicità è lontano anni luce dalle ultime mastodonti­che fatiche degli Stones. «Ascoltatel­o, guardate cosa ne pensate, e se vi piace, andate a comprarlo», dice Keith prima di salutare e scomparire oltre una porta a vetri. Semplice, no?

L A G E N T E S TA I N C O DA P E R STRINGERGL­I

LA MANO , COM E A L P A PA

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