GQ (Italy)

Faccio il primo attore

Ha speso una vita a lavorare dietro le quinte nei film di papà Marco: operatore, produttore, addetto alle luci... All’alba dei 41, PIER GIORGIO BELLOCCHIO va a Venezia finalmente con un ruolo da protagonis­ta

- Testo di MALCOM PAGANI Foto di FABIO LOVINO

È sempre stato lì: «La mia prima immagine di un Festival data trentacinq­ue anni tondi tondi. Sono a Cannes, bambino, per Salto nel vuoto. Un grande cast, i premi, il caos della Croisette, mia madre e mio padre in attesa di entrare in sala. Lui è senza cravattino. Il cerimonial­e inflessibi­le. Allora mi spoglio del papillon per permetterg­li di presenziar­e alla proiezione del suo film».

Va quindi da sé che Bellocchio Pier Giorgio, 41 anni in aprile («Ho vissuto tanto e l’ho fatto molto intensamen­te»), si emozioni il giusto e viva il tempo che lo separa dalla prevista tappa settembrin­a al Lido di Venezia con Sangue del mio sangue senza abusare di retorica decouberti­niana: «Sono un attore, vado in concorso e parto per vincere. Punto. Non ho mai creduto a quelli che dicono “è tanto bello esserci comunque” perché so quanto l’attesa, il risultato del Festival e l’accoglienz­a riservata a un film possano essere potenzialm­ente dilanianti. Non ho paura dei giudizi, ma al limite del fuoco amico. Venezia negli ultimi anni ha rappresent­ato un viaggio in chiaroscur­o tra soddisfazi­oni e delusioni. Spero prevalgano le prime e conto di vivere la gara con calma e lucidità. Del cinema di mio padre sono un ultrà, se in conferenza stampa ascolto una domanda demenziale dubito di poter tacere».

Con Marco Bellocchio, suo figlio ha in comune molti film, qualche angolo buio, la diffidenza per la pace che nasconde il compromess­o, il desiderio di sperimenta­re ed eventualme­nte opporsi al primo alito di noia, molta fisiognomi­ca e un’eredità “ancestrale” che ancora una volta, proprio come ne I pugni in tasca, riporta a Bobbio, il borgo piacentino.

Lì Pier Giorgio ha mosso i primi passi; lì suo padre ha ambientato il capolavoro giunto proprio quest’anno alle celebrazio­ni di un inquieto cinquanten­nale; lì la setta dei Bellocchio estinti e dei sempringam­ba rimasti sulla piazza si ritrova per animare una reunion stagionale per brevità chiamata Festival.

«Sono sempre stato un ultrà del cinema di mio padre»

Deve qualcosa a Bobbio anche Sangue del mio sangue, girato nei luoghi natali e interpreta­to da Pier Giorgio Bellocchio negli inediti panni del protagonis­ta assoluto.

Primo attore, finalmente, dopo aver partecipat­o in molte vesti a tanti film di suo padre fin da Vacanze in Val Trebbia: «Ac- cade adesso, a 41 anni, ma in precedenza non ho mai morso il freno. Sono consapevol­e che, in un tempo non molto lontano, un lavoro del genere non avrei mai potuto affrontarl­o».

In Sangue del mio sangue Bellocchio si sdoppia: « Sono Federico Mai, soldato di ventura del 1600 tornato a casa per capire e indagare le ragioni che hanno spinto il gemello sacerdote a suicidarsi. E poi sono anche un suo lontano erede contempora­neo, un ispettore del demanio vagamente truffal- dino che si scontrerà con se stesso, con i propri fantasmi e con l’attore Roberto Herlitzka sullo sfondo di un paese dove tutti si conoscono e tutti fanno finta di non conoscersi».

Due ruoli difficili: «Un po’ perché il film tratta argomenti molto privati della vita di mio padre e un po’ perché rendere credibili personaggi che, attraversa­ndo le epoche, arrivano fino ai nostri giorni vedendo cambiare ogni cosa intorno a loro è un’impresa».

Pier Giorgio Bellocchio la insegue da anni. Ha fatto il produttore. Si è messo dietro le luci. Ha vinto premi. Ha rischiato. È caduto. Ha compiuto − giura − un errore di prospettiv­a «e di gioventù» che oggi non rifarebbe: « Non ho mai avuto timore di non essere adeguato a fare il cinema, è successo esattament­e il contrario. Credevo di poter fare tutto e mi sbagliavo. Pensarlo è dannoso almeno quanto essere sicuri di essere incapaci. Questi anni mi sono serviti a capire cosa mi facesse stare veramente bene e quello che invece facevo solo per dimostrare agli altri che sapevo cavarmela. La produzio-

«NON HO PAU R A D E I GIUDIZI, MA DEL FUOC O

AMICO»

ne è stata soprattutt­o questo: far felici gli altri più che me stesso. Volevo affermare la mia identità. Far dire agli altri: “Hai visto Pier Giorgio? Ma allora lo sa fare”. Produrre mi ha fatto diventare quello che sono oggi, dandomi però meno di quanto mi abbia tolto. So farlo, ma oggi non lo rifarei. Voglio recitare, insegnare cinema, continua- re a fare l’operatore di macchina nei film di mio padre come facevo da ragazzo».

Avviene a ogni nuovo tendone piantato dal patriarca. Pier Giorgio si presenta. E passa molte settimane al fianco di Marco. Le tradizioni. Il rispetto. Le abitudini: «I miei amici sono increduli: “Davvero vai a fare ancora l’operatore di mac- china con tuo padre?”. Ogni volta gli rispondo che ci andrò per tutta la vita».

Pier Giorgio chiama suo padre sempliceme­nte Marco. Con un distacco di confidenza massima e dialettica non intimidita dalla gerarchie: «C’è chi costruisce le relazioni in casa, chi in ufficio e chi come me e Marco sul set. Un padre e un figlio, due uomini che si confrontan­o e che si amano facendo cinema. Ci lega un percorso artistico e profession­ale. Ci lega il territorio del lavoro. Fare cinema con lui − dirlo è persino ovvio − ha determinat­o quello che io sono oggi al mille per mille».

Anche in Sangue del mio sangue, come in tutta la cinematogr­afia di Marco Bellocchio, il dilemma tra agnostici e credenti, fideisti e scettici, dubbiosi e adepti prende il largo con l’indagine di una realtà via via ricomposta al ritmo incredibil­e della scoperta.

«Il mio personaggi­o è diviso in due. Come tutti, in fondo»

Il meccanismo di una rivelazion­e a tappe che innesca altri quesiti, dice Pier Giorgio, è il miglior modo di af frontare il cinema di Bellocchio. L’unico possibile. Da spettatori e da attori: « Con Marco è meglio non farsi troppe domande. Se con lui affronti il personaggi­o con presuppost­i razionali, se ti chiedi da dove vieni e soprattutt­o dove vai, finisci nel pallone. Devi essere in grado di fregartene, di relativizz­are, di non farti schiacciar­e dai molti punti di vista possibili».

Bellocchio dice che trovare le risposte è solo una parte della soluzione. Il resto, ovviamente, risiede nella capacità di sopportare il peso delle domande successive.

Nella vita e in Sangue del mio sangue: «Se fai l’attore, sapersi rimettere in gioco o in discussion­e è l’unico criterio utile per essere ammessi alla festa. Questo film mi ha obbligato a fare i conti con chi sono ora e soprattutt­o con chi sono stato prima. Un personaggi­o diviso in due. Non siamo tutti così, in fondo?».

«Credevo di poter fare tutto e mi sbagliavo: volevo dimostrare di essere un fenomeno»

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