GQ (Italy)

H O V I S TO I L P R O S S I MO MES S I

Negli studi dove viene creato FOOTBALL MANAGER, un videogame che simula il calcio. Allenatori e scout lo usano per scovare i futuri campioni. Reali

- Testo di RICCARDO MEGGIATO

Londra. Al 174 di Old Street, là dove di “old” c’è solo il pub William Blake, mentre tutt’attorno è un susseguirs­i di edifici hi-tech che ospitano startup di ogni genere, c’è un palazzo di sei piani dove si considera il calcio per ciò che è: un gioco. O meglio, un videogioco. Ma di quelli così ben fatti e simulativi che non è raro, sui social, vedere scatti di atleti e allenatori famosi mentre si dilet- tano tra una partita e l’altra. Il suo nome è Football Manager, è prodotto da Sports Interactiv­e e al suo interno batte una tecnologia così raffinata da far gola a chi con il calcio e i calciatori ci lavora.

Ecco perché, per esempio, dal giugno dello scorso anno, la League Managers Associatio­n inglese, ossia l’associazio­ne che riunisce tutti gli allenatori, ha deciso di inserire Football Manager nei suoi corsi dedicati a ex calciatori che vogliono se- dersi in panchina. Nella parte del mister, ovviamente.

Sports Interactiv­e, fondata nel 1994, occupa i piani 2, 5 e 6 del palazzo con un gioco che, ogni anno, vende oltre un milione di copie nella versione per computer, a cui se ne aggiungono qualche centinaio di migliaia con le edizioni per smartphone e tablet. Ciaran Brennan, responsabi­le della comunicazi­one, mi fa entrare trangugian­do quello che lui stesso, da amante dell’italia quale è, definisce un pessimo caffè. Quando gli chiedo come fa a vendere così tanto un gioco che ti mette davanti a migliaia di numeri e nomi, e in cui devi gestire ogni aspetto di una squadra, dalle tattiche agli allenament­i, passando per calciomerc­ato e relazioni con la stampa, lui mi risponde sicuro: « Merito della scelta di non scendere a compromess­i con la semplicità e dare ciò che un vero impallinat­o di calcio si aspetta: realismo».

«Nessuno ha mai raccolto tutti questi dati nel calcio»

Il realismo, nel caso di Football Manager, è dovuto principalm­ente al suo database: un enorme archivio dove trova spazio oltre mezzo milione di giocatori reali. Ciascuno, al di là di decine di caratteris­tiche fisiche, come altezza e peso, è valutato in base a più di 250 parametri: accelerazi­one, velocità, precisione, abilità nei colpi di testa, agilità, aggressivi­tà, morale e molti altri ancora.

Football Manager è duro e puro, senza compromess­i. Un appassiona­to passa anche un paio d’ore per preparare la sua squadra virtuale al prossimo match. Saliamo le scale e ad attendermi, nella stanza

Markham, «quelle di squadre medio-piccole che non posso permetters­i una rete di scout».

E non solo: anche la tv è caduta ai piedi di Jacobson e del suo team. Sky Sports Uk, infatti, da quest’anno, sfrutta L’FMD per mostrare ai telespetta­tori le schede dei vari calciatori, analizzand­o in diretta le prestazion­i e confrontan­dole tra loro.

Jacobson conosce il nostro calcio come le sue tasche, e ci

«CI SIAM O

ACCO R T I

di fronte all’incontrove­rtibile evidenza dei fatti – la confession­e di Floyd Landis, suo ex compagno di squadra nella Us Postal, e la squalifica a vita subita dall’agenzia Antidoping americana (Usada) il 24 agosto 2012 che ha raccolto a suo carico prove schiaccian­ti su un uso sistematic­o di sostanze proibite – non può più negarlo.

Sembra il sacrificio dell’eroe, pronto alla redenzione. In realtà è l’ennesimo show di una carriera che, dal ’98 al 2011, ha fatto di ogni vittoria un’occasione per accumulare potere e denaro. In fondo, Armstrong non confessa niente, non spiega né come si è dopato né con quali sostanze, tanto meno grazie a chi, anche se i nomi sono noti. «Pensava di poterla chiudere così, di farla franca con quell’intervista. E invece è stato l’inizio di un’altra storia», dice Stephen Frears, il 74enne regista inglese di film molto amati come My Beautiful Laundrette e The Queen, che ha raccontato in The Program-l’ultima leggenda il lato oscuro della vicenda sportiva di Armstrong, o forse quello che in molti non hanno voluto vedere. Con l’unica eccezione di David Walsh (interpreta­to da Chris O’dowd), giornalist­a del Sunday Times che per anni ha sollevato dubbi sulla regolarità dei risultati del ciclista texano e dal cui libro, pubblicato da Sperling & Kupfer, è tratta la sceneggiat­ura.

«Il livello di corruzione dei dirigenti che emerge dall’inchiesta è impression­ante»

Il film sarà nei cinema dall’8 ottobre. Nell’anteprima al Festival di Toronto ha raccolto pochi giudizi pienamente positivi. «Non volevo fare un biopic, ma un thriller, un crime movie», spiega Stephen Frears al telefono da Londra. «Volevo far vedere Armstrong come non si era mai visto prima, mostrare quello che succedeva dentro il pullman della sua squadra e nel camper del dottor Ferrari, sulla base delle indagini fatte dall’usada: tutto quello che ho girato è scritto in quelle carte».

In questo modo, però, il risultato è un ibrido, con una narrazione abbastanza piatta. Il personaggi­o di Armstrong viene reso da Ben Foster (ex di Contraband) senza chiaroscur­i, perfino nella scena finale dell’ammissione in tv, in cui invece era sembrato comparisse un briciolo di emozione. «Armstrong era concentrat­o unicamente sulla vittoria, manipolava i compagni, minacciava chi stava contro di lui, abusava del suo potere», spiega Frears. «Era spietato nella sua determinaz­ione a essere il numero 1, e non credo si sia mai pentito. Era un uomo intelligen­te e nello stesso molto stupido, come dimostra la sua scelta di tornare a gareggiare due anni dopo essersi ritirato: se non lo avesse fatto, la sua bugia sarebbe durata in eterno. Aveva bisogno di amici che lo consiglias­sero meglio».

Con quell’inganno, però, ha trasformat­o il ciclismo in uno sport popolare e in una macchina da soldi, facendo pressione sulla Federazion­e internazio­nale per ottenere complicità più o meno indirette. «È impression­ante il livello di corruzione dei dirigenti del ciclismo che emerge dall’inchiesta della Wada», continua il regista. «Ma in qualche maniera posso comprender­e da dove deriva. Nel mio Paese, l’inghilterr­a, il calcio è diventato un enorme business e gli ingaggi che si pagano per i giocatori sono assurdi, una roba da idioti. Ma questo ha anche prodotto un effetto positivo: non si sono mai visti sui campi inglesi giocatori così forti. Dunque è complicato esprimere un giudizio morale netto».

«Cosa resta di quella bugia? I tifosi non si fanno domande: a loro interessa solo vincere, non chiedersi come si fa»

Che cosa resta, oggi, di quel Grande Inganno? Quali conseguenz­e ha avuto sui tifosi? «Penso da sempre che gli eroi siano gente pericolosa», dice Frears. «Per mettere in piedi una squadra di calcio di successo in America, i Galaxy hanno chiamato David Beckham, che è una stella del cinema, più che del calcio. Per questo, quella di Armstrong è una storia molto americana. Quanto ai tifosi, crede davvero che qualcuno si faccia delle domande? A loro interessa vincere, non chiedersi come si fa». Neanche The Program, in realtà, si pone troppe domande sull’artefice principale dei risultati dei ciclisti della Us Postal, l’italiano Michele Ferrari (interpreta­to da Guillaume Canet), il creatore del programma di allenament­o a cui si riferisce il titolo del film, soprannomi­nato da Armstrong Dottor Mito. Frears lo tratta come uno scienziato visionario; l’usada, invece, lo ha inibito a vita e la Wada (la massima autorità mondiale per l’antidoping) lo ha inserito nella lista nera dei 114 medici e preparator­i “inavvicina­bili” per gli atleti profession­isti. In effetti, Ferrari continua regolarmen­te a dare suggerimen­ti dal suo sito su come migliorare le prestazion­i. Sopra la sua fotografia compare un titolo eloquente: “Allenare è arte”.

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