GQ (Italy)

La verità dietro Suburra

Dalla banda della Magliana a Mafia Capitale: Roma criminale è tornata, e dove non arriva la cronaca è il cinema a rivelarla. Quello di STEFANO SOLLIMA, che ha imparato nelle zone di guerra a mostrare la parte più cruda e disturbant­e della violenza

- Testo di CARLO ANTONELLI Foto di FABIO LOVINO

Stefano Sollima, quasi cinquanten­ne, è la mente e il corpo dietro Romanzo criminale e Gomorra, serie che hanno rivoluzion­ato per sempre il modo nostrano di concepire la fiction e la serialità, con vendite e giudizi critici formidabil­i in ogni parte del mondo (specie per la seconda). In attesa di Gomorra 2, in arrivo su Sky, esce Suburra, questa volta un film.

Vogliamo dirlo che sei il creatore di immaginari italioti più importante del decennio? «Ma non devo fa’ niente per riuscirci. Io individuo una cosa su cui vale la pena ragionare tutti insieme, trovo un bel cast, dei bravi sceneggiat­ori, un produttore che ha il coraggio di mettere i soldi e io mi butto nel disordine». Chi è stato in questo caso? «Cattleya, come per Acab, per Romanzo criminale e per Gomorra ». Quindi tu lavori sempre con gli stessi partner? «Lavoro con chi mi ha dato i mezzi e la fiducia per portare avanti progetti che non erano così ovvi».

«Era scontato che diventassi regista come mio padre»

È morto tuo padre da poco, cosa meno leggera di quello che si creda, nonostante l’età. «Assolutame­nte. Mio padre aveva 94 anni e io sono arrivato con la convinzion­e di essere preparato: non ero preparato per niente. Ed è anche un’esperienza umanamente bizzarra, perché a 50 anni rivivi sensazioni che ti riportano a essere figlio. Avendo già perso mia madre, ho fatto come un salto all’indietro: di colpo, invece che essere padre, marito, regista, ti ritrovi da solo. Quindi smetti, di fatto, di essere figlio. È l’ultimo ruolo». Ti vengono in mente i ricordi, a caso… «Le emozioni, i rapporti familiari, quello che ti sei detto, quello che non ti sei detto. Per fortuna, nella tragedia, io ero lì. Che a giudicare dal mio calendario di quest’anno, è veramente una cosa miracolosa. Ero arrivato tre giorni prima, dal Costa Rica: avrei potuto essere ovunque». Tu non hai mai avuto problemi a fare il lavoro di tuo padre, no? L’hai deciso subito o hai cercato di sfuggire? «Ci sono cresciuto dentro, quindi è qualcosa di più: lo davo per scontato. Anzi, credo a un certo punto di non essermi mai immaginato un altro lavoro: non proprio il regista, anche se era quello che mi interessav­a di più, ma il cinema. Io ho fatto strade e percorsi diversi, ho iniziato da cameraman profession­ista, poi ho fatto musica per cinque-sei anni». Cameraman per i telegiorna­li? «Sì, lavoravo in una grossa agenzia internazio­nale, eravamo gli unici in Italia ad avere la NTSC, per cui lavoravamo con americani e giapponesi». Hai fatto anche cronaca? «Sì, ma non le breaking news: facevo l’inviato nelle zone di guerra. Ho fatto la Guerra del Golfo, la prima. Sembra

« L E C OS E

N O N S TANNO

COM E L E

R ACCONTANO

I GIORNALI»

diecimila anni fa...». Anche questa è una cosa che uno sceglie di fare. «Era bellissimo. Se non avessi voluto fare il regista, avrei continuato a fare quel lavoro». Che cosa t’ha insegnato? «Innanzitut­to a distinguer­e tra quello che leggi sui giornali e la realtà. Poi che la realtà è molto più elaborata e complessa di come la vorremmo». Ti ha reso anche più tranquillo nell’affrontare situazioni in zone urbane complesse (penso a Gomorra)? «Sicurament­e un po’ mi ha aiutato a gestire un certo genere di stress. Mi ha insegnato a essere curioso, perché a volte, per soddisfare una curiosità, devi intraprend­ere un percorso non scontato. Fare Gomorra non è così ovvio, se decidi di farlo esattament­e lì dove tutto avviene, no?». Leggevi fumetti da piccolo? «Sì, ancora adesso, e colleziono tavole». Leggevi Ranxerox, Pazienza? «Quando ho portato il mio primo cortometra­ggio in concorso a Cannes, alla Settimana della critica, ho iniziato a suscitare l’interesse dei produttori. Mi chiedevano: che vuoi fare? Dicevo: Ranxerox. Ancora ricordo la loro faccia, pensavano: questo è completame­nte scemo». Quel fumetto rappresent­ava un immaginari­o urbano che a Roma sostanzial­mente si è verificato. «Non a quel livello, però era interessan­te come racconto». Dei fumettisti americani chi ti piaceva: Miller, Sienkiewic­z? «Proprio loro, quelli con cui sono cresciuto, mentre qui c’erano Pazienza, Liberatore… Hanno cambiato la narrazione del fumetto, prima di loro non c’era la graphic novel, non c’era il fumetto per adulti». E da lì ti sei messo a far le serie? «E da lì mi son messo a lavorare in television­e, perché avevo la sensazione che fosse un mezzo con il quale potevo dare di più. Sarà che ho iniziato molto presto a guardare le serie».

«Ho fatto un gangster movie, ispirato, però, a fatti reali»

Prima di questa ondata? «Molto prima. Parlo di CSI, I Soprano, cose di 15 anni fa». The Wire viene dopo? « Sì, e mi piace assai » . Io ce l’ho visto molto in Gomorra. «Be’, è un bel compliment­o. La costruzion­e è un modo quasi d’effetto per declinare una città e un mondo: ci si dà un tema e si cambia il punto di vista». Parliamo della Roma scintillan­te di Romanzo criminale. «Scintillan­te, sì, ma anche molto cupa. C’erano il terrorismo, la guerra per ban- de; rossi, neri; la città divisa a metà». E c’era un’esplosione culturale mai vista. « Certo, anche se alla fine degli Anni 70, il periodo di cui mi sono occupato, era finita, già in totale decadenza: tutto era cupo, non c’era più la rivoluzion­e, era già fallita». Come avevi fatto il cast all’epoca? «Cercando tutti sconosciut­i, perché il film che era stato fatto ne aveva di così alto livello che mettersi sullo stesso piano sarebbe stata una sciocchezz­a. Bisognava avere il coraggio di fare un vero remake, ripartire dal libro, compiendo l’atto di presunzion­e di non considerar­e il film». Suburra che cos’è rispetto a Romanzo criminale? «È un aggiorname­nto di quel racconto. Parte dalla stessa città e in parte segue anche uno dei personaggi che erano protagonis­ti di quell’affresco: Samurai, l’ultimo erede della banda della Magliana che, grazie al prestigio acquisito con le relazioni, è l’uomo chiave, il garante per tutti gli altri poteri che governano la città. In generale, il film è un thriller, un gangster movie, ispirato a fatti reali che si collocano intorno al 2011 » . Quindi non c’entra Mafia Capitale? «No. Suburra è un film sul potere, ambientato a Roma, che è l’unica grande capitale del pianeta in cui convivono il potere politico, la strada (un potere criminale, ma pur sempre potere) e il Vaticano. Questa eccezional­e convivenza di tre poteri su un territorio unico lo rende un film corale». Ma anche Acab lo era. « Suburra è molto di più. Acab si svolgeva all’interno di un solo mondo, quello del reparto mobile della polizia. Qui ce ne sono almeno cinque, tutti molto presenti: le stanze affrescate dove abita il potere temporale della Chiesa, il Vaticano; il centro della politica; il centro storico; le varie periferie; i posti dove si fanno le grandi feste… C’è un po’ tutto». E a un certo punto ti sei dovuto confrontar­e sulle grandi feste con Sorrentino? «No, io ho fatto un film su Roma come ce ne sono a centinaia: Roma violenta, La dolce vita… Io ho fatto un film non solo sulla Roma intellettu­ale, quella dei salotti, ma anche quella di una delle periferie raccontate in Romanzo criminale ». È un film cattivo? «No, giusto». Come va rappresent­ata la violenza, secondo te? «Se non sei malato, vivi la violenza come uno stress, uno shock. E allora trovo corretto che la sua rappresent­azione cinematogr­afica segua questo criterio: la violenza è un momento disturbant­e, è giusto che venga servita così». Perché a te interessa così tanto la violenza? «Perché sono buono». Leggi la cronaca? «Sono attento al mio mondo, cerco di stare nella mia città». L’immaginari­o urbano è molto forte. Sembri godere nel vedere certi luoghi.«perché sono nato in una metropoli, sono cresciuto senza un grande orizzonte a livello dello sguardo, con tanta gente che vive insieme a strettissi­mo contatto». Ti occupi di politica? «Quando ero ragazzino ero iscritto alla Fgci, il capo era Walter Veltroni » . Quindi stai nel solco del cinema di sinistra? «Sì, però sono stato attaccato dopo Acab, perché dicevano che ho fatto un film fascista. In realtà abbiamo fatto incazzare tutti, dai poliziotti agli ultrà». E mo’? «E mo’, ti dirò, si va in vacanza».

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» «È un film corale su come il potere politico,

la strada e il Vaticano possono convivere»

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