GQ (Italy)

S A LVAT E I L MU TA N T E BARBANERA

Da Wolverine all’ultimo Pan di Joe Wright. Ma perché mai a HUGH JACKMAN fanno sempre fare la parte del cattivissi­mo?

- Testo di LUCA CELADA

Hugh Jackman salta sul palco e il pubblico che gremisce l’arena del Comic-con di San Diego esplode. Saranno in sei o settemila e per loro − appassiona­ti di fantasy e sci-fi che ogni anno accorrono alla convention − l’attore 47enne è Wolverine, l’irascibile mutante della serie X– Men. Il boato è impression­ante, Jackman ricambia con un sorriso: il supereroe dagli artigli in adamantio è il suo personaggi­o più celebre, ma lui, affabile, solare e pieno di charme all’antica, in realtà ha ben poco in comune con l’antieroe Marvel.

Figlio di inglesi emigrati in Australia negli Anni 60, l’attore ha fisico e aspetto da divo, ma il look da superstar è temperato dal senso dell’umorismo e da un perenne buonumore.

«Mi ha cresciuto mio padre, ed è stato molto severo»

A Hollywood forse gli avrebbero affibbiato solo ruoli da protagonis­ta romantico o da action star, ma lui ha scelto una carriera diversa: dopo l’accademia, a Perth, è stato subito scritturat­o per un serial (sul set incontrò Deborra Lee- Furness: sono ancora sposati), dopodiché ha chiuso per sempre il capitolo televisivo. Si è quindi dato al musical arrivando − con lo spettacolo Oklahoma! − sino al West End di Londra, all’attenzione dei critici e alla scrittura per la versione cinematogr­afica di quel lavoro diretta da Trevor Nunn. Subito dopo, Bryan Singer lo ha trasformat­o in Wolverine (per ben 6 volte, finora), regalandog­li il successo planetario.

Nel mentre, Hugh ha trovato il tempo per le commedie romantiche ( Kate & Leopold), quelle sofisticat­e ( Scoop), la farsa ( Notte al Museo), la fantascien­za ( Real Steel), il fantasy cerebrale ( The Prestige), il melodramma ( Australia), i thriller intensi ( Prisoners). Tutto questo senza mai rinunciare alla passione per Broadway, dove ha vinto nel 2004 un Tony Award per The Boy from OZ, sulla vita del compositor­e e cantante australian­o gay Peter Allen morto di Aids nel 1992. Non sorprende, quindi, che sei anni fa abbia presentato La Notte degli Oscar cantando e ballando sul palco neanche fosse Fred Astaire.

In seguito ha interpreta­to Jean Valjean nel film Les Misérables di Tom Hooper (nomination come miglior attore protagonis­ta agli Oscar 2013). E ha aperto una catena di coffee house equa e solidale a New York, devolvendo i ricavi ai coltivator­i africani di caffè.

Quest’anno Hugh Jackman è stato il creatore di un mega robot in Humandroid di Neill Blomkamp, e ora è un irriconosc­ibile Barbanera nell’atteso Pan di Joe Wright, prequel di Peter Pan, al cinema dal 12 novembre. «È un film che riesce a far sentire bambini anche gli adulti», commenta. «E che conferma come Hollywood rimanga un’industria capace di investire su talenti creativi e originali come Joe Wright, appunto, o Baz Luhrmann».

Un altro film su Peter Pan era necessario?

« C’è l’attrattiva del viaggio eroico. Il superament­o dei dubbi di sé per diventare qualcosa di migliore. In altre parole, è un classico».

Fiaba preferita?

« Il Mago di Oz. Ricordo che quando andammo a vedere il film con tutta la famiglia, a Sydney, ne sono stato terrorizza­to. Avevo cinque anni. D’altra parte, la paura è parte integrante delle

fiabe».

A NE W Y ORK H A A P E R TO UNA SERIE DI CA F F È E Q U I E SOLID ALI

Il primo videogame Assassin’s Creed, nel 2007, vendette circa undici milioni di copie. Unity, l’episodio più recente, uscito l’anno scorso, solo sette. Per la saga di Ubisoft, nonostante un film con Michael Fassbender in arrivo a fine 2016, c’era bisogno di un rilancio, e visto che l’uscita annuale è imposta per ragioni di business, occorreva cambiare direzione in tutta fretta. E così, dalla Francia si va a Londra.

« È il 1868 e la capitale inglese è il centro del mondo » , inizia François Pelland, del gioco nel quale il giocatore controlla i gemelli Jacob ed Evie Frye che vanno in giro pronti a uccidere, nel tentativo di liberare la città dalla morsa dei Templari. È un giovanotto alto e sorridente, viene dal Quebec ma agita le mani pieno d’entusiasmo come farebbe un italiano, mentre spiega, in una fabbrica abbandonat­a di Londra, il progetto che lo ha tenuto impegnato negli ultimi due

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