GQ (Italy)

Ci vuole coraggio a diventare grandi

La nonna, che le ha insegnato a comportars­i come una volpe con gli uomini. Pietro Taricone, a cui ha dedicato una scuola in Nepal. Gli sport estremi. KASIA SMUTNIAK si racconta, tra cinema, sfide e guerre quotidiane. Anche contro il calcare

- Testo di ELEONORA BARBIERI Foto di STEFANO GUINDANI

Kasia Smutniak sospira. «Che fatica aprirsi». Fa delle pause, a volte, prima di rispondere alle domande; ci pensa, poi le sue parole sono precise, decise. Altre volte sembra perplessa, come quando le chiedi perché, secondo lei, piaccia agli uomini, ma anche alle donne.

Quando la incontro ha in mano il cellulare e un pacchetto di sigarette. «Grazie a Dio, ho il vizio del fumo. Che poi è un mezzo vizio, le sigarette le rubo... No, non sono salutista», dice. È bella come te la aspetti, jeans chiari, camicia azzurra, stivaletti bassi, capelli sul viso. Nata in Polonia, in Italia da quasi vent’anni, ha iniziato a fare la modella quando ne aveva 15. «Uno dei miei primi lavori era proprio per GQ», racconta. «Foto bellissime, le ho conservate per molto tempo».

Da allora Kasia Smutniak è diventata un’attrice di successo, protagonis­ta di film come Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek, il premiatiss­imo Perfetti sconosciut­i di Paolo Genovese e il recente Moglie e marito, con Pierfrance­sco Favino. E anche come il cortometra­ggio Moby Dick di Nicola Sorcinelli, che quest’anno ha vinto il Nastro d’argento.

Nella sua vita, però, non c’è solo il cinema. Kasia ha due figli, Sophie e Leone: la prima avuta con Pietro Taricone, morto in un incidente col paracadute nel 2010; il secondo con il compagno di oggi, il produttore cinematogr­afico Domenico Procacci. A Taricone ha dedicato una Onlus, con la quale ha costruito una scuola,del nata Mustang,oltrela Ghami quindicia oltre Solar anni tremila School,fa: «Per metriin quanto Nepal, d’altezza. sembri nella L’idea lontanoreg­ione è (servono dall’italia), cinqueè un luogo giorni vicinodi viaggioal mio cuore»,per raggiunger­lospiega Kasia. «Per me era importante realizzare questo progetto con amici e persone del posto, e coinvolger­e gli abitanti perché capiscano che l’educazione è fondamenta­le. In quella regione non vi hanno accesso, non hanno chance: sono disposti a non vedere i figli per anni, pur di permettere ai bambini di frequentar­e una scuola. Per loro, l’educazione equivale a un futuro migliore».

Come è nato questo legame con il Nepal?

«Anzitutto con la Fondazione Pietro Taricone Onlus, che all’inizio è stata ideata da me e da un gruppo di amici per trasformar­e tutta l’energia di Pietro in qualcosa di pratico. Perché lui era estremamen­te pratico. Diceva: “Basta parlare. Facciamo qualcosa”. E poi, tanti anni fa, durante un viaggio in Nepal che facem-

mo insieme, abbiamo incontrato una famiglia con cui siamo rimasti in contatto e che ora è coinvolta nel progetto. Dopo alcuni anni sono tornata da sola, con la spinta di fare qualcosa lì, ma non sapevo esattament­e che cosa: ci ho messo due anni a trovare la soluzione».

Una scuola, che oggi ospita trenta bambini. «L’educazione mi sembrava la cosa più importante». Per questo progetto ha ricevuto il Premio Leonia Frescobald­i per l’audacia. Si considera una persona audace? «Sì, ho fatto scelte coraggiose. Oggi posso dirlo». Quali scelte?

«Questaparl­are bene domandadi me... mi Che imbarazza,cos’è l’audacia?non sopportoPo­trei dire di una stronzata, tipo: quando ho preso il brevetto di volo a sedici anni, senza dirlo ai miei. Ma quella è audacia o stupidità? Sono sopravviss­uta, e questo per me è coraggio. La vita ti mette di fronte a molte prove e l’audacia la tiri fuori, se ce l’hai dentro. Oppure se sei tu a fare scelte precise, come è appunto quella del brevetto».

Sembra una tipa tosta. È così?

«Adesso posso dire di sì. Sono contenta di essere diventata grande e, con l’età, di poter rispondere senza presunzion­e: ero tosta a vent’anni, lo sono a quaranta, ma ora mi pesa meno dirlo. E, anzi, voglio esserlo ancora di più a sessanta».

Suo padre è stato un generale dell’aeronautic­a. Quanto conta l’educazione che ha ricevuto?

«Tanto. Ho iniziato a lavorare a 15 anni: i miei mi hanno lasciata andare dall’altra parte del mondo, cosa che io non farei mai con mia figlia. Ma quando tornavo a casa, la sera alle dieci dovevo essere a rapporto, se no il giorno dopo mi avrebbero tolto i minuti di ritardo».

Come in caserma?

«Certo. E magari ero appena stata due mesi in Giappone. Però quel senso di disciplina, di responsabi­lità, mi ha portata a vivere la mia vita in un certo modo. L’ambiente in cui sono cresciuta mi ha aiutata, anche se il mestiere che ho scelto, per la mia famiglia e per il mondo da cui provengo, è la cosa più lontana possibile: l’arte e la sua inutilità non erano contemplat­e».

Qual è l’insegnamen­to più importante che ha ricevuto dai suoi genitori?

«Forse il senso del dovere. Anche da parte della mamma: in quanto moglie di un militare, doveva essere sempre pronta. Ecco, io sono sempre pronta a qualunque cosa, ho sempre un piano B. E, a partire da questo senso del dovere, ho imparato da sola l’arte del mollare ogni tanto, di non cercare a ogni costo la perfezione, anche perché non esiste. Oggi non sogno più obiettivi alla cieca, ma quando prendo un impegno, come per il progetto della scuola, allora è assoluto: è un cammino che ho intrapreso perché so di non poterlo lasciare».

Anche per questo ama gli sport estremi, nonostante siano ritenuti più maschili?

«Sì, ma non cerco la sfida fine a se stessa. E poi non esistono cose solo femminili. Quando giravo il film con Favino, che è uscito in primavera e in cui interpreto un uomo, mi sono chiesta: quali sono le cose che una donna oggi non può fare? Ci sono dei limiti? Nel caso, riguardano la forza fisica. Ma se “lui” è in grado di fare certe cose, allora anch’io: magari ci metterò il triplo del tempo, ma ci riuscirò».

Che attività pratica?

«Kitesurf, anche se non sono bravissima. Mi piace tutto quello che ha a che fare con l’aria aperta, il vento, la natura. Per esempio l’arrampicat­a: quando arrivi in cima è fantastico. È un po’ come meditare, perché pensi solo all’azione che svolgi. O come risolvere un puzzle: per arrivare, devi trovare tutti i punti giusti. In questi sport devi credere molto in quello che fai, è questo che mi piace. Ed è così anche nella vita. Amo tutto quello che riguarda le sfide mentali, non l’adrenalina o ciò che è estremo per il fisico. È una sfida con me stessa, per superare i miei limiti: per alcuni è lo studio, o la cucina, o per esempio quel cavolo di giardinagg­io che mi riesce così male, ma io vado avanti a provarci…».

Che madre è?

«Ho avuto i miei figli a dieci anni di distanza una dall’altro: due esperienze diversissi­me, vissute in modo completame­nte differente, anche perché in dieci anni diventi un’altra donna. E poi col fatto di avere un maschio e una femmina ho scoperto cose che mi hanno sorpresa».

Per esempio?

«Be’, un maschio è un altro mondo. Ho capito tante cose con mio figlio. Purtroppo lui è il maschio peggiore, perché ha anche l’impazienza della madre».

Lei è impaziente?

«Molto, sì. Di fronte a un progetto a lungo termine, spesso rinuncio. Se mi dicono che fra due anni si farà una certa cosa, rispondo: “Ci sentiamo fra due anni”. Per me è adesso, vivo il momento. Il resto non c’è».

Ha una fede religiosa?

«No. Credo nella nostra parte spirituale, non in Dio».

Un modello di donna?

«Sicurament­e mia nonna Barbàra. È fighissima, forte, fuori dagli schemi, super sportiva. Anche lei era nell’esercito. Da piccola mi diceva: “Devi essere come una volpe con gli uomini, combattere con le armi che siamo in grado di usare noi donne. Serve la furbizia”. Infatti, il nonno lo massacrava».

Kasia, allora, perché lei piace a tutti, uomini e donne?

«Noi donne abbiamo un sesto senso molto più forte rispetto agli uomini; quindi, quando percepiamo distacco non riusciamo a fidarci delle persone. Ecco, forse è proprio questo: io sono quella che sono, non costruisco un personaggi­o. Perché la vita è uguale per tutti, anche per noi attori. E infatti: uso lo Chanteclai­r, mi occupo della casa, del gatto, della scuola dei figli, del supermerca­to. Anch’io combatto il calcare».

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 ??  ?? Kasia Smutniak, polacca, 38 anni, vive in Italia da 20. Da poco ha finito di girare Made in Italy, con Stefano Accorsi, il terzo film diretto da Luciano Ligabue. Nella pagina a fianco: l’attrice a Los Angeles
Kasia Smutniak, polacca, 38 anni, vive in Italia da 20. Da poco ha finito di girare Made in Italy, con Stefano Accorsi, il terzo film diretto da Luciano Ligabue. Nella pagina a fianco: l’attrice a Los Angeles
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 ??  ?? IL PREMIO Ha fondato la Pietro Taricone Onlus e poi una scuola nel Mustang. Per questo, Kasia ha ricevuto il Premio Leonia per l’audacia 2017 dall’azienda vinicola toscana Frescobald­i
IL PREMIO Ha fondato la Pietro Taricone Onlus e poi una scuola nel Mustang. Per questo, Kasia ha ricevuto il Premio Leonia per l’audacia 2017 dall’azienda vinicola toscana Frescobald­i

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