Se Dio esiste, ha la faccia di mia nonna
Dice cose molto dure con voce soave. Racconta le tre volte che ha provato a uccidersi: «Mi spaventa tutto, ma la morte non mi fa più paura: dopo, non c’è nulla. È il bello della vita, che la vivi una volta sola». Che vorrebbe confidare in Dio, ma crede solo negli esseri umani, specie in sua nonna. Che vivere di nulla, per strada, insegna a essere gentile, «perché voglio che la gente lo sia con me». Che la violenza ti frigge il cervello: dopo un anno in America, la tv accesa sugli attacchi di Orlando e Parigi, Benjamin Clementine − musicista e poeta, cresciuto a nord di Londra, un alieno caduto sulla terra − ha dovuto staccare la spina. «Mi svegliavo cercando la prossima sparatoria. Un addicted». Compirà 29 anni il 7 dicembre e pochi giorni dopo diventerà padre: perciò ha deciso di interrompere il tour mondiale (peccato per la data milanese del 18, agli Arcimboldi) che accompagna il suo secondo disco, I Tell a Fly, che ha anche prodotto. «Ma quello che mi piace veramente è stare su un palco, scambiare emozioni». E infatti i live sono la sua storia: a piedi nudi, si alza e fissa le persone negli occhi, a volte legge qualche riga. Piange, magari. «Di felicità: sentirsi sopraffatti dalle emozioni è una buona cosa». Tutto il resto, spiega, è lavoro. «Sapevo qual era il sound che volevo, quindi ho cercato di controllare meglio il processo rispetto al primo album ( At Least for Now, gli è valso il Mercury Music Prize, ndr) ». E ci ha messo della politica. «Posso parlare di quello che succede nel mondo perché lo faccio con la poesia: è superiore al linguaggio; senza, non potrei definire le cose come belle o brutte».
I capelli domati con le forcine («Non li taglio da otto anni: non avevo i soldi per il barbiere»), conosciuto per il cappotto che lo ha protetto dal gelo di Parigi, dove sopravviveva senza un tetto («L’ho avuto addosso due anni e mezzo, non è mai stato lavato: è chiuso in un armadietto, in Francia»), Clementine fa pensare che l’eleganza sia una condizione psichica. «È andata così: mio padre mandava me e mio fratello a vestirci nei charity shop. Dovevamo scegliere un completo: pensava che giacca e pantaloni, anche se di nessuna qualità, ci avrebbero protetto dalla polizia e dall’impressione che fossimo dei criminali». Burberry ha colto l’attimo, chiamandolo una prima volta, nel 2014, a cantare durante la sfilata. Lui e il suo cappotto da artista di strada. «L’industria della moda mi ha sostenuto più di quella della musica: in Inghilterra le radio non trasmettono il mio disco, forse perché non riescono a classificarmi in un genere. Forse perché ho ambizioni strane: io voglio eccellere. Ma come essere umano».
Poeta, musicista, riferimento di stile. Dal palco cerca il pubblico. Ma deve scendere. Perché sta per diventare padre
Gilco è Gilberto Colombo. Un’azienda, un uomo. Non solo perché il marchio dell’azienda è anche l’acronimo del suo nome, ma perché così comincia a firmare i suoi primi disegni da bambino. Una straordinaria figura di designer imprenditore, pioniere della tecnologia, cui la Triennale di Milano dedica una mostra, Gilco. Il design della leggerezza, in occasione dei 70 anni del marchio. Anniversario, non a caso, anche del marchio Ferrari, fondato nel 1947 da Enzo Ferrari, un altro pioniere, che con Gilberto Colombo ha molto in comune. I telai Ferrari li progetta Gilberto, fino al 1958. Nell’azienda alle porte di Milano, fondata dal padre, disegna e produce in serie nuovi e leggerissimi modelli per automobili, biciclette, imbarcazioni. Il primo telaio è destinato alla rielaborazione della Maserati Formula 1 della scuderia Milan. La Gilco Autotelai cresce con commesse trimestrali di 25-30 telai e consegne al ritmo di circa 15 giorni per telaio. Nel 1966 Gilberto compra la Trafiltubi, e si specializza nella produzione di tubi d’acciaio di alta qualità per le applicazioni più sofisticate. «Il tubo non tradisce mai!» è il suo motto, e in tubolare produce anche mobili razionali su progetti del Bauhaus. E poi, allestisce un cantiere nautico sul lago di Como, costruisce scafi e rinnova i modelli della categoria Star, 11 primi posti nei Campionati del Mondo. «Aveva una bella mano, un tratto forte e sicuro, rimangono schizzi e disegni bellissimi. Ha lasciato una testimonianza importante soprattutto per il rigore e il metodo di lavoro», ricorda Piero Castiglioni. Invenzioni e soluzioni stilistiche ancora vive nel marchio che porta il suo nome, oggi guidato dal figlio Marco e dai suoi collaboratori, un’istituzione per gli appassionati di auto e bici sportive, ma anche per molti velisti e cultori del design. _
( Francesca Molteni)