Preferisco invecchiare
Nella fiction e nella vita, MARC O D ’ AMORE punta a una lunga esistenza. Perché «la giovinezza passa veloce e serve a prepararsi per quello che arriverà dopo»
Che roba, gli attori. Sollevi la maschera dei ruoli in cui li hai catalogati e trovi tutt’altra materia. Marco D’amore, Ciro Di Marzio di Gomorra − il 14 e 15 novembre i primi episodi in 300 cinema e dal 17 su Sky Atlantic − è un ragazzo saggio, mite e innamorato di due cose: il teatro e la sua terra, Napoli e Caserta. È anche uno che dice che la gioventù serve a preparare la vecchiaia. Nella terza stagione siete rimasti in due: lei e Genny. «No dài, ci sono anche Scianel e Patrizia. E qualcuno di nuovo arriverà». Tu sei l’immortale. «Il soprannome è quello. Una condanna per il mio personaggio: l’immortalità è il desiderio di tutti ma per lui, con il senso di colpa che si porta dentro, continuare a sopravvivere è drammatico». Con Genny, boss per genealogia, il dualismo c’è tutto. «Per Ciro non c’è consanguineità diretta, altra condanna. Eppure nessuno meglio di lui potrebbe essere il boss. Sa di essere il migliore, ma c’è sempre qualcuno davanti a lui. Nella terza stagione questa ambizione si ridimensiona ’nu poco. Ha pagato uno scotto troppo alto, ha ucciso la moglie… Sarà interessante capire che ruolo si ritaglierà nei nuovi equilibri». Qual è il pregio maggiore di Gomorra? «Il profilo internazionale. Non ci sono altri progetti italiani, film o serie, che abbiano un respiro così alto, in grado di scavalcare le reticenze anglofone. E lo dico a cinque anni dall’inizio». Dimmi tre motivi di questo successo planetario. «Il primo è che in ogni settore, non solo nel reparto artistico, si cercano i migliori. Il secondo è la scelta di lavorare con più registi e sceneggiatori, coinvolgendoli nel processo creativo. Il terzo è narrativo: Gomorra è una storia unica, che accade a Napoli, ma si fa universale. Situazioni così esistono in ogni angolo del mondo». Chi è Ciro Di Marzio? «Un essere umano. Noi l’abbiamo conosciuto ragazzo, probabilmente è stato un bambino cui non è stata data possibilità di scelta. Oggi è un uomo che ha visto sfiorire tutta la bellezza della gioventù che aveva sul viso, perché ha dovuto fare i conti con il dolore che ha causato negli altri. E che ora gli punge nel cuore». Che cos’è il male per lui? «Fino a poco tempo fa non ne aveva nessuna percezione perché lo infliggeva agli altri. Ora ne sta prendendo coscienza. Quello che per noi è chiaro, per certe persone non lo è. Per chi vive dentro microcosmi come questi c’è un diverso confine tra bene e male. Quello di Ciro non è un calcolo, ma una disperazione shakespeariana. Tutto ciò che regola questo racconto è il potere: Ciro, come gli altri, lo mette davanti ai sentimenti. In questo senso, ci vedo molto di quello che avviene nel nostro Paese». La terza stagione è la migliore delle tre? «Ne ho il sentore, ma preferisco dirlo dopo averla vista tutta. La prima stagione ha raccontato il macromondo camorrista, la seconda è stata una discesa nella psicologia dei personaggi, la terza è una somma di questi due processi. I protagonisti sono sempre più in rilievo e scavati. E ce n’è uno nuovo e importante, che è Napoli». È meno gangster movie e più… «Per me è sempre un war movie. Ci sono le macerie della distruzione, la famiglia Savastano non esiste più, ce n’è una nuova che nasce. È un racconto di cani sciolti che ha molto a che fare con il presente». Suburra, Sotto copertura, Squadra mobile - Operazione Mafia Capitale: Gomorra è molto, troppo, imitata? «Ci sono due cose da dire. La prima è che il fascino nero che offre Napoli nessun altro luogo in Italia riesce a riproporlo. Anche dal punto di vista artistico: Paolo Sorrentino, Mario Martone, Toni Servillo, i Teatri Uniti, film come Indivisibili è tutta roba che viene da lì. Sarà il disagio che si vive, sarà il modo di riscattarlo... Il secondo discorso riguarda Gomorra, un progetto unico con il quale non è giusto fare paragoni e che si situa dentro il filone narrativo del crime a livello mondiale». Claudio Cupellini, che l’ha diretta al cinema e in Gomorra, dice che è uno da “buona la prima”, che non sbaglia le battute nemmeno in bulgaro (terzo episodio)... «Il mio non è virtuosismo, arrivo preparato per sopperire alle mie lacune». Studia molto? «Parecchio. Mi piace farlo perché se hai l’ansia della battuta non riesci a far respirare la scena, a darle libertà. Poi una certa strafottenza mi aiuta». La strafottenza non si sposa con l’umiltà di studiare.
«Ma io sono dei Gemelli, tengo insieme due anime». Sempre Cupellini dice che, finora, dal cinema lei ha avuto molto meno di quanto merita. «Sono in pace con me stesso. Sinceramente, non ho grandi velleità come interprete, mi interessano di più le storie. In Brutti e cattivi, sebbene fossi stato il primo attore scelto, ho interpretato un piccolo ruolo». Adesso che film sta girando? «Con Vinicio Marchioni stiamo finendo le riprese di Drive me home. È una storia di fratellanza tra due amici che si ritrovano dopo molti anni basata sull’idea di casa,
«Abbiamo conosciuto Ciro ragazzo. Oggi è un uomo che ha visto sfiorire tutta la bellezza della gioventù sul suo viso, perché ha dovuto fare i conti con il dolore che ha causato negli altri. E che ora gli PUNGE nel cuore»
tema molto attuale in un momento in cui molti giovani lasciano l’italia, e altri vi arrivano. Il film è un’opera prima di Simone Catania, con un budget risicatissimo per un road movie in cui si recita in cinque lingue. Speriamo che qualche festival lo prenda». Teme che Ciro Di Marzio condizionerà la sua carriera? «È un problema che non avverto, mi sento così distante da lui… Non volevo neanche fare il provino. Senza Stefano Sollima non sarei qui». Lei non si muove da Caserta, come Toni Servillo. «È la mia scuola, ho cominciato con lui a 18 anni. Ogni tanto ci troviamo alla Reggia. Camminiamo e parliamo di musica, di cibo. Raramente di lavoro». Cos’altro le ha dato Servillo? «Lui è quello che vorrei diventare. Un uomo interessato a tanti ambiti apparentemente distanti dal nostro mondo, e che invece ne sono la linfa vitale. È un maestro involontario. Ripete di aver imparato facendo lo spettatore, guardando centinaia di film. Il contrario di quello che domina oggi, la paranoia dei selfie: lo schermo è girato verso di noi. Ci fotografiamo davanti a un grande museo, ma in primo piano ci siamo noi». Chi è Marco D’amore? «Che domanda… Una persona tranquilla, mediamente equilibrata, con grandi sogni anche al di là del lavoro». Sentiamo. «Il primo è l’ambizione di lasciare un segno in questo pezzo di cammino che mi è dato come uomo. Lasciare una buona eredità umana alla mia famiglia e ai miei affetti. Poi sogno d’invecchiare». Davvero vuole invecchiare? «Quand’era giovane, Eduardo De Filippo si scriveva i ruoli da vecchio perché, diceva, “la gioventù passerà in fretta”. Così, a 50 o 60 anni avrebbe potuto interpretare le sue commedie. La maturazione di un attore arriva dopo tante ore di volo. È come se questa gioventù veloce fosse una preparazione per quello che verrà dopo». Non la facevo così saggio. Cosa c’era nella sua casa di ragazzo? «Due genitori appassionati di cinema, teatro, musica. Mio padre amava i film americani, mia madre gli autori italiani. Mi hanno fatto conoscere Sergio Leone, Francesco Rosi, Elio Petri. Tuttora sono i miei primi censori». Per esempio, cosa le dicono? «Mia madre spera sempre che interpreti una commedia che la faccia divertire e la tiri su di morale. Mio padre scandaglia ogni scena per pizzicarmi appena eccedo e vado in overacting. Insomma, ’na rottura ». Mentre il nonno...
«Era un personaggio un po’ strano. Faceva l’impiegato alla Sip, ma è riuscito a recitare nella compagnia di Nino Taranto, a fare lo speaker in Rai, a vincere La Corrida alla radio, a lavorare con Rosi e Nanni Loy». Nella vita, lei è mai stato sfiorato dai clan? «No. Negli Anni 90 i Casalesi avevano in mano la città, ma i miei non mi hanno vietato la strada: loro sono stati un grande filtro, un contraltare che mi ha preservato». Per lei il teatro è stato l’alternativa al crimine. Ma se un ragazzo non ha talento? Un meccanico o un imbianchino possono sfuggire alla camorra? «Se il meccanico e l’imbianchino amano il loro mestiere e riescono a vivere di quello non c’è possibilità che vengano abbagliati. Il problema si pone per chi non riesce a portare avanti la sua vita. E conosco quasi più attori depressi che imbianchini insoddisfatti». Che rapporto ha con Roberto Saviano? «Prima ero un suo lettore, ora siamo amici. Io faccio la parte di quello scemo che manda messaggini divertenti provando ad alleggerire il carico di quello che vive». Altri maestri esemplari? «La frequentazione dell’accademia Paolo Grassi a Milano. La lunga tournée con La Trilogia della villeggiatura di Toni. Da quando avevo 18 anni vivo da nomade». Condizione impegnativa per chi le sta vicino. «Ho una compagna molto intelligente, che conosce i sacrifici necessari dietro a certe scelte. Sa che senza il mio lavoro sarei un uomo spento: abbiamo trovato un equilibrio per merito suo, anche perché lei fa un lavoro normale e mi aiuta a stare lontano dalla mondanità». Chi sono i suoi amici? «Quelli con cui ho condiviso l’infanzia. Poi ci sono mio fratello, che è il mio alter ego, e Francesco Ghiaccio, compagno della Paolo Grassi, mio partner in crime, come dicono gli americani». Cosa fa con loro? Avete un rito comune? «Il cambiamento della mia vita ha pregiudicato anche la loro. Ora il covo è casa mia, una casa molto bella, dove me li ritrovo ogni volta che torno. Diciamo che c’è il rito dell’attesa». Il film che sogna di fare? «Uno di racconto e di denuncia, che riesca a far riflettere sullo stato del Paese. Attraverso una storia piccola vorrei provare a rendere in modo paradigmatico il baratro in cui siamo caduti. Un po’ come abbiamo provato a fare con Un posto sicuro, sulla tragedia della Eternit di Casale Monferrato». Che cos’è il bene, per lei? «Spostarsi un po’ da sé. Per aiutare chi ti sta vicino a desiderare qualcosa di diverso».
«Prima ero un lettore di ROBERTO S A VIANO, ora siamo diventati amici. Io faccio la parte di quello scemo che manda messaggini divertenti provando ad alleggerire il carico di quello che vive»