GQ (Italy)

Andy Garcia

Quella della passione per il golf, «un’amante gelosa, se non gli dai attenzione ti tradisce». Quella presa dopo la fuga da Cuba. E quella da ecologista, perché «siamo alla chiamata finale». Risultato: ANDY G ARC I A sarà presidente degli Stati Uniti

- Testo di TIZIANO MARINO Foto di ALEXEI HAY

Golfista, ecologista. E presidente Usa nel disaster movie Geostorm

«Un giorno vidi Il padrino parte prima, e ricordo che dissi a me stesso: voglio fare quello, voglio essere in un film così». Andy Garcia è una di quelle persone che non ha difficoltà a ottenere quello che vuole, perché gli riesce bene tutto. Era un atleta di successo ai tempi della scuola, giocava a basket, poi una malattia lo fermò, fece un corso di recitazion­e e gli venne bene anche quello, tanto bene che pochi anni dopo, esattament­e come si era prefissato, ottenne la parte di Vincent Mancini nel Padrino - Parte III. «La mia palestra è stata il teatro. Lì ho imparato che cadere fa bene, basta cadere in avanti, così almeno ti trovi ad aver fatto un passo in più rispetto a dove ti trovavi». Gli viene bene anche il golf, suo sport preferito, oggi: «Il segreto è praticarlo spesso, tutte le volte che si può. Il golf è come un’amante gelosa, se non gli dai attenzione ti tradisce». È l’unica amante che si concede. Andy Garcia è sposato da oltre trent’anni con la stessa donna, uno dei pochi matrimoni duraturi a Hollywood. Anche nella vita sentimenta­le ha avuto successo.

L’appuntamen­to per l’intervista è in un golf club a due passi dagli studi della Warner Bros. È qui che spesso ama trascorrer­e le sue giornate libere, quelle che dedica alla sua amante gelosa. È l’ora di pranzo. Garcia ordina una zuppa, «senza crema, è importante», dice in spagnolo. Elegante, composto e mai sopra le righe, siamo di fronte a una leggenda vivente un po’ surreale. Un uomo molto riservato, che non ama la luce dei riflettori ma che al tempo stesso non ha alcuna intenzione di farsi da parte. A 61 anni e con più di cinquanta titoli all’attivo (alcuni dei quali veri capolavori, oltre a Il padrino di Coppola: Gli intoccabil­i di Brian De Palma, Pioggia sporca di Ridley Scott, Amarsi, in cui recitava accanto a Meg Ryan), Garcia torna sul grande schermo con Geostorm, film catastrofi­co con Ed Harris, Gerard Butler e Jim Sturgess che muove dal fenomeno dei cambiament­i climatici. Un tema mai così attuale. Nel film, diretto da Dean Devlin, veste i panni del presidente degli Usa. «È un ruolo come tutti gli altri. Il fatto che sia quello del presidente non lo rende più importante rispetto alla parte di un senzatetto». Sguardo magnetico e penetrante, Garcia è un tipo con le idee molto chiare. Pochi giri di parole, sempre dritto al punto. «È giunto il momento di diventare tutti più responsabi­li, sia a livello individual­e sia a livello di comunità», dice a proposito del cambiament­o climatico, accarezzan­dosi la barba come un vecchio saggio. «Non sono uno scienziato, quindi non posso entrare nel dettaglio, ma siamo alla chiamata finale: dobbiamo prenderci cura del nostro futuro». Un futuro che, nonostante tutto, sarà roseo. «Assolutame­nte sì, bisogna essere positivi, è l’unica soluzione per affrontare i mali del mondo. Ho molta fiducia nell’umanità».

Nell’umanità, ma non in tutti gli uomini. Fidel Castro, per esempio. Aveva solo cinque anni quando i Garcia furono costretti alla fuga negli States, in seguito alla rivoluzion­e del Líder Máximo. «Un giorno mia madre disse a mio padre: “Dobbiamo andarcene, oggi nostro figlio è tornato a casa marciando e cantando l’internazio­nale”. Fu quello il momento in cui la mia famiglia decise di lasciare Cuba». Un frettoloso sbarco a Miami, dopo aver perso tutto. Per Andy non fu un dramma, era troppo piccolo per capire. «Io e i miei fratelli eravamo solo dei bambini, per noi era come una vacanza in un mondo nuovo con la spiaggia a due passi, era un’avventura. Il vero trauma l’hanno vissuto i miei genitori e la nonna. Tutto quello che possedevan­o gli era stato portato via dal governo cubano. Sono stati costretti a ricomincia­re da zero. Per loro è stato molto doloroso». C’è malinconia nei suoi occhi quando parla della sua Cuba. Sua, perché Garcia, nato a L’avana il 12 aprile 1956, si sente cubano, fino al midollo, appena può si esprime in spagnolo, la sua lingua, ma Castro non l’ha mai potuto sopportare. «Ha distrutto l’economia del mio Paese. È stato un cattivo condottier­o, per anni mi ha dato fastidio vedere persone che lo idolatrava­no. Il popolo cubano con lui non è mai stato libero».

Quando parla di popolo cubano parla anche dei suoi genitori. Il padre, René García Núñez, era un apprezzato avvocato e giornalist­a, la madre, Amelie Menéndez, era un’insegnante d’inglese. Negli Stati Uniti papà René non poté proseguire con la sua attività legale, dovette ricomincia­re da capo, con un mestiere umile. Fece il cameriere per qualche tempo, ma aveva stoffa e l’america, si sa, è la terra delle opportunit­à. Nel giro di pochi anni divenne un ricco importator­e di profumi. In cuor suo e con le parole, Garcia li ringrazia per aver scelto gli States quale meta della loro fuga. «Sapevano che era l’unico modo per vivere liberament­e e non sotto una dittatura senza libertà di pensiero e di parola. Il concetto di proprietà, quello del lavoro a Cuba furono sacrificat­i in virtù di un solo interesse, non quello della gente ma quello dello Stato. Uno Stato inclusivo,

«Non ho mai negato una foto a un fan, fa parte delle REGOLE e sono sempre stato al gioco. È grazie a loro se oggi ho una V I TA A G I ATA. Mi piace mettermi in posa. Però preferisco mi venga chiesto, perché farlo di nascosto?»

fagocitato­re». Nel 2005 ci ha fatto anche un film su quell’odiata rivoluzion­e, The Lost City, in cui era regista, attore protagonis­ta e produttore esecutivo. Più convinto di così. «A Cuba, con Castro, non avevi la possibilit­à di provvedere alla tua famiglia, neppure lavorando duramente, ogni giorno. Potevi solo vivere con i sussidi dello Stato e non era quello che volevano i miei».

Dai genitori Andy non ha imparato solo l’etica del lavoro. Ha imparato anche che la vita familiare − il matrimonio − è un esercizio costante di attenzioni e volontà di passare oltre i momenti di crisi. L’attore e regista è sposato dal 1982 con Marivi Lorido: «Non credo di essere un fenomeno, neppure in questo ambiente. Il fatto è che i matrimoni duraturi a Hollywood non fanno vendere i tabloid». I due hanno quattro figli: la primogenit­a Dominik, 34 anni, Daniella, 29, Alessandra, 26, e Andrés di 15 anni, tutti avviati nella carriera cinematogr­afica: «Recitano da quando erano piccolissi­mi». Il trucco per essere un buon padre? Sapersi bilanciare. «Dipende dalle situazioni, posso essere molto permissivo oppure no. Ho tre figlie femmine e un maschio e mi vogliono ancora tutti bene. O almeno è quello che mi dicono». Riservatis­simo nei confronti dei suoi affetti, ha difficoltà a parlare di loro. Nonostante questo si sforza di rispondere. «Un consiglio che ho sempre dato ai miei figli? Non lasciarsi abbattere mai. Per esperienza personale, posso dire che il più delle volte il tuo sogno non viene capito dagli altri. Rischi anche di passare per pazzo». La differenza la fanno due cose: «La salute, soprattutt­o mentale, e una solida corazza, perché anche quando ti sembrerà di avercela fatta, la strada non sarà mai in discesa». E se lo dice lui, che ha sfiorato il premio Oscar (nel 1991 fu nominato come Miglior attore non protagonis­ta per Il padrino - Parte III, c’è da credergli. La fama non l’ha cambiato, anzi. «Invece di godermi il successo, la mia reazione è sempre stata quella di tirarmi indietro. Non posso farci nulla, è la mia natura».

È pacato, nel modo di fare e in quello di parlare. Eppure le figure forti, gli oratori − Castro a parte − gli sono sempre piaciuti. Martin Luther King, per esempio, ma anche un cubano come lui, José Martí. «Sono affascinat­o dalla sua figura, ho sempre desiderato fare un film sulla sua vita e su quel periodo storico ( la seconda metà dell‘800, ndr). Lui però morì molto giovane e io ora sono troppo vecchio per interpreta­rlo, peccato». Non è vero. José Martí dimostrava molti più anni di quelli che aveva e Garcia invece ne dimostra almeno dieci in meno. Sorride. Gli è appena venuto in mente un aneddoto a riguardo. «Una volta mandai una foto di quando avevo la barba molto lunga a Francis ( Ford Coppola, ndr). Sa cosa mi disse? “Sembri Giuseppe Verdi”. Forse dovrei interpreta­re lui».

Mentre lo dice cerca la foto sul suo smartphone, senza successo. Poi apre velocement­e Instagram, gli dà un’occhiata e lo richiude altrettant­o velocement­e. «Non mi piacciono i social network. Ho un profilo che condivido con i miei familiari e una pagina Facebook che ho aperto solo per correggere alcune affermazio­ni non veritiere sul mio conto». Riguardo la politica. «Mi avevano messo in bocca parole che non avevo detto, non mi andava giù. Per il resto non posto nulla, non ho tempo da dedicarci e anche se lo avessi non glielo dedicherei». Non ama nemmeno lo smartphone. «È una grande intrusione. Una volta non era così. Per fare una chiamata dovevi recarti fisicament­e verso un telefono. Ora tutti possono rintraccia­rti, sempre e comunque. Il cellulare è la morte della tranquilli­tà. Fino a qualche anno fa non c’era e nessuno se ne preoccupav­a. A me bastava il mio cerca persone».

Garcia rimpiange il passato, i tempi in cui c’era più libertà nel modo di vivere, ma soprattutt­o i tempi in cui c’era più rispetto. Al rispetto ci ha sempre tenuto e un po’ lo innervosis­ce pensare come oggi sia andato perduto. «Vede, la privacy non esiste più. Sa quante volte mi è capitato di trovarmi in un ristorante con i miei cari e beccare, nel vero senso della parola, qualcuno che, di nascosto, mi scattava foto?». È molto infastidit­o mentre lo dice, glielo si legge in faccia, corruga la fronte. «Perché, mi chiedo. Non ho mai negato una foto a un fan, fa parte del gioco e sono sempre stato al gioco. Sono contento di mettermi in posa, è grazie a loro se oggi ho una vita agiata. Però chiedimelo, perché farlo di nascosto? Non ha alcun senso».

Il pubblico lo considera ancora un sex symbol. «È una cosa che non mi è mai passata per la testa. Certo, apprezzo il fatto di piacere, ma continuo a non capire». I suoi idoli invece sono gli attori degli Anni 70: «Sean Connery, che al tempo interpreta­va James Bond, James Colbert, Steve Mcqueen e Peter Sellers. Li amavo». Ce l’ha ancora un sogno nel cassetto, Andy Garcia? Tornare un’ultima volta nei panni di Vincent Corleone? «Bisogna chiedere a Coppola, ma certamente lo farei. Se lui è d’accordo, io ci sto».

«La mia palestra è stata il teatro. Lì ho imparato che CADERE F A BENE , basta cadere in avanti, così almeno ti trovi ad aver fatto un passo in più rispetto a dove ti trovavi»

 ??  ?? DISTINTIVO Garcia il poliziotto: tra i tanti ruoli della sua carriera (uno su tutti: Gli intoccabil­i, uscito giusto 30 anni fa), uno lo ha rifiutato; quello di investigat­ore della serie Csi: NY, interpreta­to poi da Gary Sinise.
DISTINTIVO Garcia il poliziotto: tra i tanti ruoli della sua carriera (uno su tutti: Gli intoccabil­i, uscito giusto 30 anni fa), uno lo ha rifiutato; quello di investigat­ore della serie Csi: NY, interpreta­to poi da Gary Sinise.

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