GQ (Italy)

Mi chiamo Giorgio Ho 83 anni e aspiro alla perfezione

Armani scrive di se stesso in esclusiva per GQ. Un autoritrat­to intimo: come la vita e il lavoro siano per lui una cosa sola, il rapporto con Milano, il senso della s da. Specie quella del domani: Dovrei ritirarmi? E perché? Per vivere in vacanza permanen

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Non amo molto parlare di me stesso, perché non amo l’autocelebr­azione. Però mi piace la sfida di raccontarm­i dopo essere stato ritratto mille volte dagli altri. E sia.

Mi chiamo Giorgio Armani, sono nato ottantatré anni fa a Piacenza sotto il segno del Cancro. Credo di aver contribuit­o a cambiare il modo di vestire di uomini e donne, e questa è una delle più grandi soddisfazi­oni. Dopo oltre quarant’anni di onorata attività, con tutta questa esperienza sulle spalle, sarei autorizzat­o a tirare i remi in barca e godere di quel che ho. Ma non ci riesco. Riposare sugli allori non fa per me. È vero, l’atteggiame­nto è senza dubbio italiano. Dovrei ritirarmi, ma perché? Per vivere in vacanza permanente? Viaggiare per il mondo? Lo faccio già, in parte. Ma non mi basta. L’urgenza di far cose concrete mi prende e mi sovrasta. È il lavoro che mi ha portato dove sono, lasciandom­i alle spalle le durezze e le difficoltà. Attraverso il lavoro mi realizzo ogni giorno. Tutto qui.

La pigrizia e il dolce far niente non mi appartengo­no. Sento ancora il bisogno di esprimere la mia visione e lo faccio impegnando­mi al massimo, come il primo giorno. A volte mi fermo e mi chiedo: a chi devo ancora dimostrare qualcosa? Ecco, la risposta ce l’ho: a me stesso. Lo dico onestament­e. Mi interessa il giudizio degli altri, ma il mio giudice più severo è il signor Giorgio Armani. Sono un perfezioni­sta cronico, ed è in questo che trovo la spinta incessante a fare di più e meglio. Qualcuno mi disse una volta che successo e ossessione sono parenti, e penso proprio che sia così. Ma il successo per me non è mai stato l’accumulo della ricchezza, piuttosto il desiderio di dire, attraverso il mio lavoro, come la penso.

Definirsi e descrivers­i non è facile, ma è un esercizio che a una certa età non si può più rimandare. Ti aiuta a mettere un punto fermo, a guardarti dentro e fuori con onestà. Anche se non smetto di confrontar­mi con chi mi

«Mi interessa il giudizio degli altri, ma il giudice più severo è il signor Giorgio Armani. Sono un perfezioni­sta cronico. È così che ho sempre trovato la spinta a fare di più e meglio. Il per me non è mai stato l’accumulo di ricchezza, ma il desiderio di dire come la penso»

Ho la mia visione e le mie idee e non ho paura di andare controcorr­ente. Le onde della moda cambiano costanteme­nte. Ci sono volte in cui il fashion system si allontana dalle mie convinzion­i estetiche, e ci sono momenti in cui si avvicina. Sempliceme­nte non mi interessa. Con il passare del tempo la pressione per cambiare drasticame­nte diventa più forte, e così anche lo sforzo per mantenere la mia autenticit­à. È una lotta continua. Tuttavia non ho mai pensato che se qualcosa è nuovo, è automatica­mente giusto. Lo stile, per me, è un mood che può essere applicato a tutto. Ripeto: fare moda significa disegnare abiti, ricordando però che la moda è molto di più. È un modo di essere. Espandendo la mia visione in diversi campi, ma cercando ancora di creare qualcosa di utile e duraturo, posso raggiunger­e un pubblico più ampio. I voli di fantasia non fanno per me.

Il mio lavoro è la mia vita. E Milano è la mia città. Le due cose si legano. È la città che ho scelto: gode di una bellezza che è molto vicina al mio stile di vita, al mio modo di vedere le cose. Una bellezza discreta che ancora oggi si nota in alcuni dettagli della sua architettu­ra: i palazzi di Milano sono meno opulenti di quelli di altre città, per esempio di Roma, ma se si va al di là della facciata, si scoprono interni fantastici. Piccoli grandi giardini, atmosfere raccolte e raffinate che fanno pensare a qualcosa di intimo e privato.

Negli anni Milano è cambiata, pur non perdendo l’atmosfera coinvolgen­te e protettiva nella quale ti puoi immergere con il tuo lavoro e con la tua vita. Perché Milano ti permette di entrare nella sua vita, secondo le tue esigenze. Io per esempio ho pochissime ore al giorno per me stesso: la mia scelta di vita è stata il lavoro. Ed è proprio per questo che sento di fare parte di questa città, come questa città fa parte di me. Certo ho dei rimpianti per il tempo che non ho potuto passare con i miei cari e per i posti meraviglio­si del mondo che non ho potuto vedere. Ma non riesco a essere diverso: questo lavoro lo faccio per passione assoluta, viscerale. Lo faccio con impegno e dedizione. E non avrei immaginato che sarei diventato tanto famoso in tutto il mondo. Però la notorietà è lì. In un certo senso incombe su di me, non mi ci sono ancora abituato. La vivo con un misto di emozione e disincanto. Averla raggiunta che avevo già quarant’anni, dopo una lunga e temprante gavetta, mi ha di certo aiutato a non perdere la testa. Ho capito, da subito, quanto volatile sia il plauso, quanto la gloria di un giorno possa diventare polvere il successivo. Questo pensiero mi ha sempre aiutato, nel lavoro come nella vita.

Certo sono orgoglioso dell’infinità di copertine che ogni anno vengono dedicate, nel mondo, a me e al mio lavoro e non sarei sincero se non ammettessi la soddisfazi­one nel vedere il numero di editoriali patinati con protagonis­ta la mia moda. Ma dalla leggendari­a copertina di Time nel 1982 non ho smesso di emozionarm­i: un po’ di ingenuità la voglio mantenere, ancora oggi. Non è tutto scontato. Anche la copertina di questo GQ, accompagna­ta dai ritratti di David Bailey e dall’autoritrat­to che state leggendo, è una grande emozione.

Essere così noto e in vista per me è un impegno, in primo luogo morale. La notorietà infatti ti espone allo sguardo di tutti, in ogni angolo del globo. È un’occasione unica, allora, non per esibirti, ma per dare il tuo esempio, per trasmetter­e il tuo sapere. È così che immagino anche il futuro della Giorgio Armani, che sto preparando da anni, perché è la cosa che mi sta più a cuore.

Certo non è né facile né piacevole pensarci, ma non posso più evitarlo o rimandare: per la gente che lavora con me e della quale mi sento responsabi­le, e per quel che ho costruito. Per ora continuo a controllar­e tutto, a dirigere tutto, ad arrabbiarm­i se qualcosa è fatto male, a gioire per i successi che diventano di tutti.

Qui concludo: ma vorrei ricordare che il finale di questo autoritrat­to lo lascio aperto.

«Da anni preparo il dell’azienda, perché è la cosa che mi sta più a cuore. Non è né facile né piacevole, ma non posso evitarlo. Per ora continuo a controllar­e tutto. E il nale di questo autoritrat­to lo lascio aperto»

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