Felicitˆ
L’economist ha scritto che il 2018 sarà l’anno della felicità. Non è né un auspicio né una previsione, per due semplici ragioni: il primo è così scontato da avere una condivisione collettiva globale; la seconda è impossibile da fare con una certa dose di credibilità, a meno che non la si voglia suffragare con alcuni dati scientifico-statistici: gli indicatori economici globali che sono tutti in ripresa, l’aspettativa media di vita che è anch’essa in ascesa. Ma ciò che probabilmente c’è dietro la scelta dell’economist è l’idea della felicità come unità di misura, come metro per valutare il benessere personale e globale. Il che non è una novità assoluta: esiste da tempo l’analisi della Fil, ovvero la felicità interna lorda, come metro di analisi dello stato di un Paese. Ed esiste già anche il World Happiness Report delle Nazioni Unite. Ma siamo alla teoria, o alla analisi della teoria. Siamo in un meccanismo di comunicazione intelligente, più che nella scienza. Perché manca qualcosa di profondo, di vero, di certo. La svolta arriverà quando la felicità sarà un sistema di valutazione individuale. Cioè quando ciascuno di noi penserà alla felicità non come ambizione, ma come condizione da vivere permanentemente. La felicità è il bene indisponibile personale più importante: ha bisogno di ricerca, di cura, di sviluppo. Ed è spesso anche la condizione che spinge tutto il resto, generando benefici per le famiglie, per la società, per l’economia globale. Anche la moda è alla ricerca della felicità, per se stessa e per i suoi consumatori: dedichiamo un numero intero al sistema moda, alla sua creatività, alle sue idee, al suo business, al suo modo di essere integrato con tutto il resto. Perché non c’è un’altra strada, in fin dei conti: la moda ha bisogno di felicità e al tempo stesso può aiutare a generarla.