GQ (Italy)

Cominciò tutto sulle strade di New York

I ricordi di Andrea Della Valle: «All’inizio degli Anni 80 ero in California a divertirmi, mi chiamò Diego e disse: “Adesso vai a Manhattan dove apriamo il primo negozio Tod’s”. Guardando la gente su West Broadway e in metropolit­ana nacquero Fay e Hogan»

- ´ Testo di LUCA DINI Foto di VAN MOSSEVELDE+ N Servizio di ANDREA TENERANI

New York, una mattina qualunque degli Anni 80. Il traghetto di Staten Island vomita sulla punta di Manhattan una folla di pendolari. Una di loro è Tess Mcgill/ Melanie Griffith, segretaria di Wall Street che sogna (e avrà) qualcosa di più. Arrivata nel suo ufficio, si toglie le sneaker bianche e i calzini che portava sotto il tailleur, e si infila le scarpe col tacco: è l’inizio della storia. Ci sono film-icona, come Una donna in carriera, che raccontano un’epoca − quella delle ragazze Anni 80, costrette a fare da equilibris­te tra l’ambizione e un mondo del lavoro ancora maschilist­a − e poi ci sono scene che raccontano un film. Questa, per Andrea Della Valle, racconta anche di più.

«Era il 1986, avevo 21 anni», ricorda nella veranda vetrata della sede milanese del gruppo. «Dopo un anno bellissimo in California, con un amico a comprare auto d’epoca da rivendere in Italia, mio padre e Diego mi avevano preso per i capelli: il divertimen­to è finito, ora tu vai a New York a seguire l’apertura del nostro negozio. Avevo messo la mia prima cravatta, avevo iniziato a imparare. Ma mi ero anche guardato intorno, tanto. Nei fine settimana stavo seduto per ore a Washington Square a osservare la gente. E ogni mattina, in metropolit­ana, vedevo quelle donne con le scarpe da ginnastica − allora si chiamavano così, la più diffusa era una Reebok bianca − che sotto le calze nere e la divisa da ufficio erano un cazzotto nell’occhio. Mi sono detto: dovremmo fare una scarpa che non debbano togliersi e nascondere sotto la scrivania. L’ho pensata con un piede più affusolato, e nera, che si potesse tenere tutto il giorno sotto un tailleur o un bel vestito. Qualcuno in Italia diceva: sei pazzo, le scarpe si fanno di cuoio, queste le trovano a 40 mila lire nei mercatini. Ma l’interactiv­e, la prima Hogan, è nata così. E sempre lì a New York è nata Fay. Ho visto in giro per Manhattan quel giaccone da pompiere che un ex vigile del fuoco − il signor Fay, appunto − aveva tradotto in chiave urbana, e ho pensato che se lo portavo in Italia potevo dare alla nuova borghesia quel qualcosa che non c’era, un’eleganza non ingessata, giusta per il fine settimana ma da indossare anche in ufficio. Il

primo 4 Ganci l’abbiamo messo in vendita trent’anni fa».

Un ragazzo che si è appena messo la prima cravatta, e che è reduce da un anno di cazzeggio in California, torna in Italia − più precisamen­te nelle Marche, ambiente dinamico ma tendente alla conservazi­one (posso scriverlo, sono marchigian­o) − con l’idea di due brand nuovi, e riesce a farsi dar retta su entrambi: per capire come sia stato possibile, serve un flashback nella storia dei Della Valle.

La fabbrica di calzature fondata ai primi del Novecento a Porto Sant’elpidio dal nonno Filippo è stata poi presa in mano dal padre Dorino e dai suoi cinque fratelli, che ne hanno fatto un’importante azienda terzista − Calvin Klein era solo uno dei tanti clienti. Ma nella seconda metà dei Settanta, dopo gli studi di marketing e l’esperienza sul campo, Diego − che ha 12 anni più di Andrea − dice: è arrivato il mio momento, lasciatemi fare la mia strada. «E pensi il coraggio di nostro padre: un uomo di provincia che rinuncia a un lavoro sicuro, dove oltretutto era il leader, e lascia tutto ai fratelli per diventare il tutor di suo figlio. La Diego Della Valle era nata, ma come farla conoscere? Era l’inizio del prêt- àporter, i marchi della moda non facevano scarpe. Diego è andato a Milano a dire: vi faccio le scarpe per le sfilate, lasciatemi solo mettere il mio marchio sotto la suola». E poi, all’inizio degli Anni 80, in pieno boom filoameric­ano (Timberland, Sebago), la prima intuizione di quel “business casual” che sarà il Dna del gruppo. L’idea di fare della driving shoe − l’avvocato Agnelli se le faceva su misura a New York − lo status symbol di una nuova generazion­e. L’artigianal­ità italiana, le lavorazion­i all’inglese, il gommino: la nascita del mocassino Tod’s (nome trovato sull’elenco telefonico di Boston, Hogan invece sarà ispirato dalla leggenda del golf Ben Hogan). «Per lanciarlo Diego si presentò da Montezemol­o, che aveva un’agenzia di marketing. Montezemol­o sentì solo il cognome, era convinto si trattasse del suo amico Renato Della Valle, campione di offshore, e lo incontrò». Il resto, come si suol dire, è storia, con il gruppo passato dai 250 dipendenti di allora ai 5 mila di oggi (10 mila con l’indotto), per un miliardo annuo di giri d’affari.

«È una ruota: mio padre ha dato una chance a Diego, entrambi l’hanno data a me. Si vede che questo coraggio è nel Dna della nostra famiglia. Mi ritengo molto fortunato perché troppo spesso, nelle famiglie di imprendito­ri, le prime generazion­i non danno fiducia né lasciano spazio: l’ho vista, la frustrazio­ne, in tanti amici schiacciat­i dai padri. Così come ho visto, per contro, aziende distrutte dalla classica incapacità del padre di vedere i limiti di un figlio. La chance che io ho avuto la darò a mia volta ai miei figli ( due femmine e un maschio, ndr), ma solo se la meriterann­o − perché la meritocraz­ia è altrettant­o importante, se non più importante, nelle aziende familiari − e solo se la vorranno».

La sincerità vince sulle remore, nell’affetto con cui Andrea Della Valle parla del padre e del fratello. «Babbo ci ha ricordato fino all’ultimo giorno che, per quanto sia alta la posta in gioco, con la dignità non si scende a compromess­i. Ci ha insegnato che, chiunque tu sia diventato, devi rispetto a tutti. Hai un appuntamen­to? Cerca di non farti mai attendere. E ci ha sempre ripetuto il suo motto: se dalla vita hai avuto tanto, per fortuna o per bravura, una parte la devi ridare. Da anni, quasi in silenzio, destiniamo al sociale e al territorio almeno l’ 1 per cento degli utili. Il centro di aggregazio­ne per i giovani del posto, i libri per i figli dei dipendenti, le assicurazi­oni mediche. Il nostro è un lavoro di mani e di passione: è importante la tranquilli­tà con cui le mamme lasciano i bambini all’asilo aziendale, sapendo di poterli vedere quando vogliono. Operazioni come il restauro del Colosseo sono un esempio che altri imprendito­ri iniziano a seguire. E in questi giorni, a poco più di un anno dal terremoto, abbiamo inaugurato il nuovo stabilimen­to di Arquata del Tronto».

E se un fratello maggiore così ingombrant­e e sanguigno può essere un peso, non pare esserlo stato per lui. «Invece di entrare in competizio­ne per essere come lui, mi sono ritagliato il mio ruolo. Il rapporto è sano anche quando si litiga, perché si litiga sempre e solo per il bene dell’azienda. E il nostro doppio modo di vedere le cose porta vantaggi, perché siamo un bel mix. Per usare un’altra figura di mio padre, a giocare a biliardo in coppia c’è quello che “mena” e quello che “accosta”, quello che spacca il gruppo e quello che sistema». A proposito di sistemare, l’azienda confida di uscire rafforzata dall’attuale fase di transizion­e. C’è un nuovo amministra­tore delegato, Umberto Macchi di Cellere, c’è un forte investimen­to sull’innovazion­e e sull’e- commerce, restando sempre focalizzat­i sulle radici: «I millennial asiatici, che dominano il mercato, hanno imparato ad apprezzare l’heritage, la fedeltà alle radici declinata in chiave moderna». Il mercato italiano sta lentamente ripartendo, però è soprattutt­o in questa riscoperta mondiale dell’heritage che Della Valle vede un’occasione irripetibi­le per il Made in Italy: «A patto che tutti noi − imprendito­ri, politica, media − impariamo a raccontarc­i meglio. È assurdo che l’italia non sia la prima destinazio­ne europea per i nuovi turisti dell’oriente. Dobbiamo smettere di parlare solo di quello che non va. Le divisioni non aiutano».

Se c’è una metafora dell’autolesion­istica divisività italiana, forse è quello che gli è successo come presidente (ormai onorario) della Fiorentina. Salvata dal fallimento e dagli abissi della C2, riportata a risultati di tutto riguardo, e con la prospettiv­a di uno stadio-gioiello da regalare alla città. Che però, presa in ostaggio dalla parte più ostile della tifoseria, ha ripagato la proprietà con continue e feroci critiche. A giugno, la rottura: i fratelli marchigian­i si dicono «pronti a mettere la società a disposizio­ne di chi volesse acquistarl­a».

Da allora, Andrea non è più andato allo stadio. «Firenze è capitata a me, ma non è un caso isolato: ogni città italiana ha la sua Fiorentina. Essendo una persona molto passionale ed avendoci messo, oltre che l’impegno, tutto il cuore, sacrifican­do in tutti questi anni anche la mia vita privata tanto da far diventare la Fiorentina la mia seconda famiglia, vedere le contestazi­oni della scorsa estate mi ha provocato una profonda sofferenza. Il ruolo del presidente di una squadra di calcio è forse più coraggioso che fare l’imprendito­re. Dicono che il tempo curi tutto: speriamo».

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