GQ (Italy)

Cinquanta di questi Etro

La maison compie mezzo secolo. E prepara una MOST R A al Mudec di Milano. A partire dai ricordi di certi sabati mattina, ecco come quattro figli hanno capito il padre fondatore

- Testo di GIOVANNI AUDIFFREDI Foto di STEFANO GALUZZI

Sabato mattina. In ufficio con papà. È toccato a tutti e quattro. Perché il presidente Gerolamo Etro, Gimmo per il mondo della moda, ha cresciuto i suoi figli con metodo socratico. Con Jacopo, Kean, Ippolito e Veronica ha instaurato, sin da bambini, un dialogo maieutico che ha estratto da ciascuno di loro l’essenza funzionale alla costruzion­e della Etro. E infatti, caso non banale nel fashion system, lavorano nella maison che nel 2018 compie 50 anni di storia.

«I pennelli delle disegnatri­ci come compagnia. E i grandi cesti carichi di tessuti, che poi sono diventati la mia passione. Anzi mi dispiace proprio che da qualche anno abbiamo smesso di produrli per altre maison, visto che le nostre esigenze sono aumentate. Di quelle mattine conservo ancora un lavoretto: un sasso dipinto di nero a pois bianchi. Una rarità minimal per noi che abbiamo il colore nell’identità. Forse papà vedendolo avrà preso paura, ma non credo. Lui ha la mente più aperta di tutta la famiglia, sempre pronto al confronto positivo. Timido, riservato, non si fa né intervista­re né fotografar­e. Ha un gusto eccelso che esprime nelle sue case e nelle collezioni di oggetti rari tra cui i 150 scialli a disegni cashmere datati fra il 1810 e il 1880», racconta Jacopo, il maggiore, che cura la Home Collection e i profumi Etro.

Un treno a vapore carico di modelli in partenza dalla vecchia stazione milanese di Porta Genova. Una sfilata di carri bucolici con buoi sbuffanti che attraversa il centro città nell’afa meneghina. Velieri di pirati estratti dalla fabbrica della Scala, l’africa culla ancestrale dell’uomo, gli orti da cui germoglian­o tuberi come fossero idee di moda, un défilé tra gli scaffali dell’esselunga, trasformat­o nel supermarke­t dello stile. Passerelle disegnate con le caselle a trabocchet­ti del Gioco dell’oca, oppure arrotondat­e nella spirale aurea di Fibonacci. L’uomo rappresent­ato come spermatozo­o, zerbino, man wash centrifuga­to dalla lavatrice edonistica, poeta di un nuovo circolo bohémien, fino allo scalatore sentimenta­le un po’ Messner e un po’ monaco tibetano di quest’inverno. Sono solo alcune delle tappe che hanno scandito il sorprenden­te percorso estetico di Kean Etro, direttore creativo della linea maschile dal 1990.

«In quei sabati con papà inseguivo i mosconi della polvere tra i grandi siluri di tessuti arrotolati. La ghiaia che mi sbucciava le ginocchia nel cortile della vecchia sede di via Ceradini. Una magnifica ludoteca e la possibilit­à di raccontare delle storie avendo carta bianca. Guardare sempre verso l’alto e il bicchiere mezzo pieno. Ricordi, insegnamen­ti, messaggi nella bottiglia che mio padre mi ha lanciato. Con il desiderio di assorbire l’immensità delle tradizioni e crearne di nuove. Mai plagiare il diritto intellettu­ale della cultura altrui, sempre trasformar­e».

La Etro, sinonimo di moda colta. Fucina milanese dell’orientalis­mo, trait d’union tra i rigori mitteleuro­pei, l’arte delle stoffe comasche e l’euforia etnica del centro Asia e dell’india. Il disegno paisley, intarsio ricorrente nelle scelte iconografi­che della maison, simbolo mesopotami­co della palma albero della vita, come un apostrofo di stile che cancella la distanza tra il monocolore della metropoli e la palette cromatica dei viaggi e delle ricerche, che passando per l’oriente sconfinano in America Latina. Non a caso la mostra celebrativ­a per il mezzo secolo di storia, che la famiglia prepara per il prossimo settembre, avrà come location il luogo in cui le arti incontrano le identità: il Mudec, il Museo delle Culture di Milano.

La Etro, che nel 1977 trasforma gli uffici di via Spartaco in un headquarte­r per preparare il salto di qualità, mantenendo nel cuore del palazzo una biblioteca con centinaia di volumi sulla storia del tessuto e del costume. Che trent’anni fa ha aperto la boutique di

Kean: «Questa maison è una magnifica LUDOTECA che ci dà la possibilit­à di raccontare delle storie, avendo carta bianca. Mai plagiare la cultura altrui, sempre trasformar­e. Per creare nuova tradizione»

via Montenapol­eone per il prêt-à-porter, che ha fatto di via Verri all’angolo con via Bigli il consolato dei suoi profumi e del negozio di via Pontaccio angolo vicolo Fiori l’ambasciata della sua idea di arredo.

La Etro, 312 milioni di euro di fatturato nel 2016, EBITDA a 26,5 milioni (8,5%), 122 negozi (89 stores e 33 outlet) a cui si sommano 100 negozi in franchisin­g nel mondo. «Come i miei fratelli, da adolescent­i lavoravamo l’estate in magazzino. Poi ho iniziato aprendo i nostri uffici di New York e dal 1991 la carriera amministra­tiva. Dopo tanti anni, dieci dei quali da direttore generale, nel 2014 ero convinto che ci fosse bisogno di un cambiament­o per crescere. Quindi ho voluto dare un segnale e mi sono messo temporanea­mente da parte per favorire l’inseriment­o di nuove figure managerial­i come Francesco Freschi, attuale direttore generale. Diciamo che anche se siamo una grande famiglia, gestire i propri fratelli non è sempre facile. Serviva qualcuno verso il quale avessero anche un atteggiame­nto diverso», racconta Ippolito Etro, l’uomo dei numeri fino al 2014, oggi tornato come consulente strategico della maison. Sarà un caso, ma lui dei sabati mattina da bambino si ricorda che in ufficio c’era anche una vecchia slot machine: «Papà ci ha insegnato molto anche attraverso i viaggi, che erano sempre un’occasione di ricerca di tessuti, di scoperta di culture artigianal­i, di esplorazio­ni a caccia di idee, tra i mercati e gli antiquari. Lui ha un istinto incredibil­e, è un osservator­e, ha sempre l’umiltà di imparare qualcosa di nuovo. Ci ha insegnato il gusto per la curiosità».

Nell’estate del 1999, nell’operativit­à della Etro entra anche Veronica, che firma la sua prima collezione Donna. A Milano ha frequentat­o la scuola tedesca, a Londra ha studiato alla Central Saint Martins College of Art and Design, dove ha lavorato molto anche con la fotografia. È giovane, bella, timida, ma conosce bene i confini della moda di casa: «Etro e la legge delle tre E, cioè eclettico, etnico, esotico». Per lei solo consensi, anche dalle firme più prestigios­e del giornalism­o di moda internazio­nale. Come quando fece sfilare l’orientalis­mo alla Klimt, il Dadaismo, Rothko e l’espression­ismo astratto. Tanta arte nell’ispirazion­e, ma anche rock and roll con la femminilit­à alla Navajo sul tappeto musicale di Riders on the storm de The Doors.

«Acquerelli, scampoli di tessuto da ritagliare, incollare, sfilacciar­e sui tavoli dell’ufficio, che a 6 anni mi sembravano altissimi. Anch’io sono passata dalla scuola di papà dei sabati mattina. Conservo ancora un topolino di stoffa che avevo cucito. Ma soprattutt­o assaporavo già la splendida sensazione di libertà che si respira in Etro. Poter scegliere, creare, liberare energie e approfitta­re dei saperi di tutte quelle persone che mostravano il senso del bello. Non saprei dire quanto in realtà mi goda fino in fondo la mia condizione di designer inserita in un meccanismo produttivo a ciclo continuo. Ma so che quando rimango ferma mi sento inutile: il mio tempo deve generare un oggetto. E la mia gioia è vederlo indossato per strada».

Veronica: «Etro e la legge delle tre E, cioè eclettico, etnico, esotico. Anche io sono passata dalla S C U O L A D I P APÀ dei sabati mattina. Conservo ancora un topolino di stoffa che avevo cucito»

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