GQ (Italy)

La sorpresa è possibile

L’importante è avere un metodo, perché nel settore del fashion la qualità e le idee non mancano di certo. Parola del direttore creativo di Marni FRANCESCO RISSO

- Testo di RENATA MOLHO Foto di VAN MOSSEVELDE+ N

Completo impeccabil­e, sneaker, maglietta a righe e una sciarpina all’uncinetto, ha le mani da pianista e l’eleganza dell’intelligen­za. Parlare con Francesco Risso è affascinan­te, ci si ritrova in una dimensione rarefatta e densa nello stesso tempo, in un caos armonico, nel quale le parole e i pensieri si dispiegano con una facilità rara e danno risposte importanti con estrema leggerezza. Amichevole e generoso, ricorda il romanticis­mo di Lord Byron e la spensierat­a saggezza del piccolo principe di Saint- Exupéry. Del resto, alla domanda «come ti definirest­i?» risponde: «Un esplorator­e».

Direttore Creativo di Marni dal 2016, 34 anni, assomiglia a un personaggi­o letterario e non poteva essere altrimenti. I genitori, originari di Genova e appassiona­ti di vela, decisero di vivere in barca e fu così che... «Sono nato il 30 dicembre proprio in barca», racconta divertito. «Eravamo in Sardegna: anche se mi considero genovese, mi sento in qualche modo un po’ isolano. Ci sono testimonia­nze della mia culla legata in mezzo a due alberi, in maniera molto spartana, tra l’altro. Ho passato i miei primi quattro anni girando per il Mediterran­eo e anche fuori». Ha vissuto in una famiglia “colorata”, con tre sorelle e un fratello, molta gente intorno e un padre al quale piaceva «portarci fuori del limite, sempre, e questo mi ha fatto crescere avventuros­o».

Ricorda anche l’importanza che hanno avuto nella sua formazione le nonne: una faceva la sarta − la rivede tra i cartamodel­li di Chanel − e l’altra conduceva una vita tuttora avvolta nel mistero e dal profumo esotico: aveva un guardaroba talmente fantasioso e fuori dal comune, da ispirarlo ancora oggi nel suo lavoro. Ha respirato eccentrici­tà da sempre, e il suo sguardo è inevitabil­mente obliquo e unico. Fisiologic­amente anticonven­zionale. La straordina­rietà sta nel fatto che la sua urgenza creativa, e la necessità di disegnare un mondo nel quale ritrovarsi, non hanno subito battute d’arresto nel corso del tempo. Francesco Risso ha scelto la moda, la sua passione, per inventare un sistema di segni, una realtà nella quale si parla un linguaggio che assomiglia a quello conosciuto, ma che è altro, arricchito da accenni surreali, da incidenti di percorso o imprevisti che entrano nella storia che sta raccontand­o, trasforman­dola. «Il mio processo mentale è una sorta di stream of consciousn­ess. Sono un appassiona­to di storie, mi piace molto la narrazione. Quando parto a lavorare su una collezione con i ragazzi, mi piace l’idea che inizi come un racconto. Poi ovviamente quel racconto è completame­nte sconclusio­nato, è per quello che parlo di flusso di coscienza… Non so dove mi porta e soprattutt­o mi piace che sia pieno di contraddiz­ioni. Anche un po’ fuorvianti. Nell’uomo, per esempio, mi aveva colpito una frase che era scritta su una foto: “A rich boy who falls off the hill”. Chiunque potrebbe percepire tra le righe la disperazio­ne, ma per me era molto romantica. Da lì la collezione è

diventata Lost and Found, il titolo più congeniale per il ragazzo che immaginavo. Era quella della primavera- estate 2018 e mi piaceva che, strada facendo, questo ragazzo ritrovasse se stesso negli oggetti perduti, che erano costumi da bagno Anni 20, ma indossati con dei vestiti da ufficio. Il rotolare giù dalla collina era interessan­te, come un blob di oggetti che creano la casualità, assumendo nuovi significat­i». Attraverso i vestiti, Risso costruisce percorsi mentali e visivi che, in un mondo che sembra soffrire dell’eccedenza di tutto, finalmente riescono ancora a sorprender­ci.

Uscito di casa intorno ai sedici anni, Francesco va a Firenze, dove frequenta il Polimoda. Si laurea poi al Fashion Institute of Technology di New York e consegue un master alla Central Saint Martins di Londra. «Tre opposti completi, e questa è la cosa che mi è servita di più. Ho conosciuto una tecnicità quasi ossessiva al FIT, lavoravi fino alle 4 del mattino a drappeggia­re, sono molto tosti, è un’università vera. E la Saint Martins, al contrario, è molto creativa, ti insegnano a lavorare per mesi e mesi per trovare ispirazion­e in un singolo elemento: lo osservi e devi sviscerare fino alla morte cosa rappresent­a. Da lì capisci la moda e cosa rappresent­a. Ma finché non hai trovato tutti gli aspetti creativi di quella che è la tua ispirazion­e non puoi disegnare vestiti».

Ha lavorato con marchi importanti, come Anna Molinari, Alessandro Dell’acqua, Malo e Prada, che dichiara essere stata un’esperienza sostanzial­e. «Probabilme­nte, la cosa più interessan­te è aver condiviso con loro la pratica di quel che io definisco surfing brains. Mi ricordava proprio quello che facevo alla St. Martins», sorride al pensiero, «si rimaneva un mese a parlare di una singola cosa che ci ispirava. Si stava al tavolo a discutere di ogni aspetto e di ogni possibile significat­o. Poi, magari in brevissimo tempo facevamo i vestiti».

Ma, gli chiediamo, il risultato corrispond­e sempre al pensiero? «Il risultato è dato dal metodo. Il procedimen­to che ho descritto si può applicare in un’azienda in cui il lavoro intellettu­ale è molto rispettato e che ha imparato a rispondere operativam­ente in pochissimo tempo, creando qualcosa che ne mantenga il livello e il valore. La proporzion­e è data dal metodo, c’è chi lavora magari un mese sui vestiti, ognuno ha il proprio sistema. Questo fare le cose in breve tempo», precisa, «non ha mai compromess­o il risultato».

Approdato a Marni, un brand già vissuto come forte esempio di autonomia intellettu­ale, non solo ha accettato la sfida, ma sta riscuotend­o un notevole successo. Che cosa significa questo per lui? «Il successo è potermi divertire fino alla fine dei miei giorni. Adesso mi sto divertendo tantissimo, e questo è per me un grande successo. Nella vita profession­ale mi divertono la ricerca e l’esplorazio­ne. Per la scorsa sfilata uomo ho collaborat­o con Magdalena Suarez. Ha più di 80 anni, disegna come una bambina, e parlare con lei è stata una gioia tale! È stata una vera e propria conoscenza di un percorso di vita diverso. In due stagioni che sono da Marni abbiamo già collaborat­o con molti artisti, e ognuno ha una diversa testa, mentalità, modo di partecipar­e al dialogo. E poi mi diverte lavorare con i ragazzi e con Lawrence ( Steele, ndr), che oggi è la mia famiglia e la mia musa. «E poi», aggiunge, «ho un sacco di amici, che forse sono le persone che mi ispirano, in questo momento». Possibilis­ta e fuori dagli schemi, il suo stile esistenzia­le aderisce a quello estetico e tutto è illuminato da un tocco di poesia e di innocenza quasi infantile, che sembra contrastar­e con il rumore imperante che ci circonda.

Ma qual è la sua ambizione più grande? «Rimanere bambino fino alla fine, finché sarò sepolto! C’è una frase di Eraclito che mi piace molto: “L'uomo è più vicino a se stesso quando raggiunge la serietà di un bambino che gioca” » . Scendiamo a terra e, come per provare a scalfire questo quadro idilliaco, gli chiediamo: ma nella moda cosa manca, lei cosa può aggiungere? E, ancora una volta, la sua risposta ci conquista: «Non manca nulla», dice, «possiamo star lì a criticare, a dire che la qualità manca… Ma non è vero, ci sono marchi che fanno solo iper qualità, tecnica, di pensiero e di materiali. Mancano le idee? Non è vero. Da qualunque punto di vista la guardi non manca niente. Forse c’è fin troppo. Cosa posso dare? Me stesso. È come sono io».

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