SULLE PISTE DEI VICHINGHI
La Paganella è la base di una delle nazionali di sci più forti del mondo. Che non soffre di nostalgie: tra scenari nordici e carne salada
Hanno ragione i campioni norvegesi: ci sono giorni in cui dalla cima della Paganella, il lago di Molveno e il Garda somigliano a un lungo fiordo. «Nydelig, bello», dicono, traducendo da quelle atmosfere iperboree che loro hanno ritrovato qui, fra Trento e i duemila metri della Roda che stregò Cesare Maestri e gli altri ragni delle Dolomiti. Dal grande Nord e dal 2011 sono arrivati anche loro, vichinghi 2.0, nati non per invadere, ma per sciare. Con Teroldego, Trentingrana e carne salada hanno cancellato velocemente la nostalgia di salmone e aringhe. «Ci manca solo il geitost ( un robusto formaggio bruno, ndr)», spiega “mister” Jonas Bøe, azzannando però con convinzione un trancio di Margherita. Loro sono i norvegesi della nazionale di sci alpino. Una manciata di campionissimi che, nella patria dello sci nordico, ha scelto, in controtendenza, di fare discesa. E che, sulle Dolomiti, non ha trovato solo lo skyline targato Unesco, le guglie del Campanile Basso e degli Sfulmini, ma anche il made in Italy di piste perfette e un lifestyle che «sa di casa».
In principio fu il ginocchio malandato di uno di loro a portarli qui per un po’ di allenamento «nel cuore delle Alpi, vicino a molti campi di gara», racconta coach “Sutti”, alias Michael Ruttensteiner. Sommando i soli palmares di big del calibro di Aksel Lund Svindal, Kjetil Jansrud, Henrik Kristoffersen, Aleksander Aamodt Kilde e Leif
Kristian Haugen si ripassa una bella fetta di annali dello sci moderno. Ad allenarsi sull’olimpionica 2 erano già arrivati, anni fa, gli americani e proprio Bode Miller, ora “pensionato”, tornerà a fine gennaio in una giornata open per tutti i tifosi con la sua Bomber experience.
«La pista della Paganella è una delle più lunghe per le sessioni di training», precisa l’altro allenatore, Jake Louis Biamonte. Qui, però, tutti possono studiare da campione: 50 km di piste − in un blend di tracciati ampi e pendii boscosi − e un menù che parla di tutti gli sport come nell’ultimo spot, dove proprio i norvegesi si sono divertiti fra parapendio, fat bike e ciaspole a sondare tutta la gamma del divertimento. «Loro però hanno un regime quasi militare», spiega Marco Dalla Piccola, che di questo sbarco dal Nord è lo storico regista. Anche quando non divorano pali e cronometro la sveglia suona alle 6: ginnastica, bici, skyrunning e defaticamento in palestra. Reggere il loro ritmo non sarà facile. In fondo anche la gym dove si allenano si chiama Viking. Quando possono, però, i campioni si concedono qualche lusinga per l’animo, due passi in centro, sorrisi, autografi. La Paganella sta in un canto popolare famosissimo: «È la vista del Trentin», recita il testo. Dicono in paese che i vichinghi dei pali stiano imparando pure quella. Glacier du Géant, gruppo del Monte Bianco, test del nuovo abbigliamento Norrøna (brand norvegese) per gli sport invernali: dall’hiking al freeride. Duecento bottiglie di Pet per ogni Lofoten Powershield Pro Alpha Jacket, il giubbino in tessuto filato, 100% riciclato che di primo acchito sembra troppo leggero per l’alta quota. E invece, in accoppiata con Norrøna Super-hoodie, il baselayer con struttura a griglia che intrappola l’aria favo- rendo una rapida asciugatura, il risultato è sorprendente. Sembra che le fibre di Polartec (azienda di Boston, leader nei filati tecnologici), Dry a pelle, Pro esterno e Alpha interno della giacca, comunichino tra di loro. Isolamento, traspirabilità e agilità nei movimenti più bruschi. Tra i mantra di Norrøna c’è la sustainable quality. Che significa puntare nel 2020 ad avere solo capi totalmente riciclati. Avendone riparati nel solo 2017 ben 10.550. (G.A.)
«Non potrei mai vivere in città: l’adrenalina è la mia droga e il pusher sta su in cima», dice Karsten Gefle, 39 anni, sciatore norvegese di Stranda, nelle Alpi di Sunnmøre, tra i protagonisti di Don’t Crack Under Pressure - Season 3 diretto da Thierry Donard.
Il film, nelle sale italiane dal 25 gennaio, è stato presentato in partnership con il brand di orologi svizzeri Tag Heuer (al polso di tutti gli atleti coinvolti nel film) all’ultima Nuit de la Glisse di Parigi. Per inciso, glisser in francese vuol dire scivolare: nella nuova pellicola − dedicata agli sport estremi − si scivola in aria con le tute alari, in acqua con il surf, sulla neve con gli sci. «Il momento più bello del freeride è il primo metro», riprende Gefle. «Quando hai guadagnato la vetta a piedi, vedi l’immensità tutt’attorno, ti lanci giù e capisci la portata dell’energia potenziale che ti godrai fino a valle». O meglio, fino al fiordo, perché da quelle parti i monti finiscono lì: «È come prendere le Alpi e immergerle nell’atlantico». I crinali su cui scivolare e saltare, incalzati da slavine di neve fresca, si raggiungono anche navigando tra i crepacci. A volte Karsten lo fa con Wille Lindberg, lo sciatore e velista professionista svedese che ha trovato in Norvegia la patria adottiva in cui praticare i due sport senza soluzione di continuità. «Ma quando giriamo un filmato ci permettiamo pure l’elicottero», scherza Gefle, che ha abbandonato le competizioni da qualche anno con un’idea precisa: «Perché sciare in mezzo a cinquanta concorrenti quando posso benissimo farlo da solo e diventare tutt’uno con la montagna?».
MADE Abbiamo sciato su neve verde. E ci è piaciuto. Parola nostra e dei 1.500 impianti nel mondo che hanno scelto queste piste da sci in manto sintetico tra cui Ski Dubai, il più famoso ski dome al mondo. A produrre i tappeti di polimero verde è Neveplast, azienda che dal 1998 ha trasformato la Bergamasca in centro del mercato di settore, dando vita al primo materiale plastico certificato con la stessa scorrevolezza della neve.
«Le piste da sci in plastica sono nate negli Anni 60 in Inghilterra», racconta L’AD Niccolò Bertocchi. «Mio padre Aldo, spinto dalla passione per la neve, negli Anni 80 diede vita a un tappeto sintetico che non avesse bisogno di essere irrigato per mantenere la scorrevolezza e che consentisse una tenuta di spigolo migliore. Nel 1998 nacque Neveplast». Pannelli di 23 cm di larghezza per 40 di lunghezza, con fori di raffreddamento studiati per essere compatibili con i pali a norma FIS e degli steli, come fossero dei pettini, tra i quali la lamina va a incidere.
«L’idea è quella di poter sciare tutto l’anno e portare la neve anche dove non c’è. Non solo piste da discesa, ma anche fondo, snow park, trampolini, imbarchi e sbarchi di seggiovie e campi scuola».
Oggi Neveplast è partner ufficiale di un progetto ambizioso a Copenhagen: il termovalorizzatore Amager Bakke, un enorme impianto tra i più puliti al mondo sul cui tetto nascerà una pista da sci con oltre 500 metri di tracciato. Un tetto verde, in tutti i sensi.
Quando si scende con i gommoni in acqua, che fino a pochi giorni prima era ghiaccio e neve sui picchi delle montagne Sawtooth, non c’è muta o abbigliamento tecnico che tenga: ogni onda in faccia è come uno schiaffo gelido, che vivifica e riempie d’energia. Poi il fiume si quieta, le onde diventano distese, più dolci, e si rimane come imbambolati da questa calma improvvisa dopo tanta adrenalina. Allora le montagne invitano lo sguardo, il cielo terso richiama respiri profondi, mentre la corrente del fiume culla piano il gommone. Fino alla prossima rapida.
È un’esperienza forte, che coinvolge vista, udito, tatto, olfatto (ogni tratto del Middle Fork ha un profumo particolare, dovuto ai diversi tipi di piante che crescono sulla riva), gusto (tutto quello che si mangia o beve qui viene preparato con l’acqua del fiume). Ma secondo la mia esperienza: in assoluto, è il sesto senso il più sollecitato di tutti. Ognuno gli attribuisce significati e sfumature diverse, ma per me si tratta di questo: magia. Quella che si impadronisce del cuore e della ragione, che ci fa sentire invincibili, inarrestabili, immortali, pronti a tutto. E parte indivisibile della natura, oltre che del momento e del luogo in cui ci si trova. Un vulcano di emozioni, e una grande pace dentro allo stesso tempo.
Scrivo queste righe su un aereo che ha appena lasciato l’idaho, e mentre già inizio a tratteggiarne i primi accenni di ricordo mi accorgo che in realtà non si è trattato solo del fiume, del paesaggio. Come sempre succede nei viaggi importanti, non è solo il posto, ma la natura di chi lo vive giorno per giorno a renderlo speciale.
Ho condiviso sentimenti diversi − gioia, tristezza, eccitazione, paura − con persone che mi hanno insegnato a remare e a leggere il fiume come fosse una mappa, o un romanzo. E ho scoperto che chi ha scelto questa vita, non la lascia più. Si tratta di uomini speciali: alcuni di loro sono venerati come rockstar, perché è il Middle Fork del fiume Salmon a decretare chi fa parte dell’olimpo dei grandi. Di cui fanno parte anche quelli in grado di cavalcare il Colorado, nel Grand Canyon, o lo Zambezi, in Africa. A quei livelli, ovvio, si conoscono tutti.
I miei compagni di fiume sono stati Sage Mcdermott, Taylor Wilcox e Joseph Lindsey. Nessuno di loro è nato in Idaho, ma conoscono questo fiume come il palmo delle proprie mani. Sage e Taylor ci venivano da bambini con i loro padri, anch’essi guide di rafting. Joseph, father Jo per gli amici, ha vissuto due vite: una l’ha dedicata ai corsi d’acqua e l’altra al jazz, che ha cominciato a suonare fin da giovanissimo. Verso l’ora del tramonto andava sul suo raft, tirava fuori la tromba e faceva la sua serenata quotidiana al Middle Fork.