IL LOTO QUOTIDIANO
Jeong Kwan prepara al tempio buddista di Baekysaa piatti vegani creati «per schiarire la mente». E gli chef stellati vanno in pellegrinaggio
Secondo Jeff Gordinier, autorevole critico gastronomico del New York Times, i raffinati piatti vegetariani della monaca chef coreana Jeong Kwan, capolavori di pazienza certosina, semplicità e senso del bello ottenuti a partire da ingredienti da lei stessa coltivati, in perfetto stile “farm-totable”, non sfigurerebbero sulle tavole del nuovo Noma di Copenhagen o del Saison di San Francisco. A godere del raro connubio di delicatezza e potenza estetica delle sue creazioni − dagli involtini al ginseng fresco con giuggiole, cetrioli e castagne al suo celebre tè al fiore di loto − non sono tuttavia i danarosi avventori di un ristorante stellato, bensì le monache e i visitatori del tempio buddista di Baekyasa, a sudovest di Seoul, dove la cuoca segue la pratica Zen da quando aveva diciassette anni.
«Il cibo che preparo è una rivisitazione del “cibo del tempio”, un insieme di piatti di tradizione monastica concepiti per schiarire ed energizzare la mente», spiega Jeong Kwan nel documentario della serie Netflix Chef’s Table a lei dedicato e a cui deve un’improvvisa notorietà planetaria. «L’atto stesso di cucinare è per me innanzitutto una forma di meditazione; la condivisione dei miei piatti una via verso l’illuminazione».
Parole pronunciate con umiltà monastica ma che, alludendo al cibo come strumento di benessere spirituale prima ancora
che sensoriale, mettono in discussione le secolari concezioni occidentali legate all’atto di mangiare, lasciandoci col dubbio di averne vissuto finora, persino alla tavola dei grandi chef, un’esperienza riduttiva. La dice lunga a tal riguardo il fatto che persino un re della gastronomia internazionale come Éric Ripert, chef del tristellato Le Bernardin di New York, si sia recato in pellegrinaggio al suo tempio per apprendere da lei i segreti del cibo che illumina la mente.
Lei intanto, che pure avrebbe più di un motivo per montarsi la testa, sembra magicamente immune da ogni tentazione dell’ego. «Continuo a vedermi come una semplice monaca, non una chef. È la natura, con i suoi lenti tempi di crescita e fermentazione delle verdure, la principale artefice dei sapori dei miei piatti. E poi non sono mai da sola a cucinare: ogni volta che preparo il cibo del tempio, mia madre, mia nonna e i miei antenati sono con me, e rivivono in ogni mio gesto». Che agli uomini di chiesa piaccia bere bene non è un mistero della fede. Ma che siano anche bravi a produrre bottiglie di pregio non è così noto. Non solo liquori alle erbe e acquaviti alla frutta, ma anche una tra le bevande più apprezzate e consumate al mondo: la birra. Non quella alla spina né quella dove si aggiunge la fetta di limone (per l’amor di Dio!) ma quella imbottigliata dai monaci trappisti. Al mondo la producono in dodici, i soli che possono fregiarsi della denominazione di garanzia ATP (Authentic Trappist Product) con tanto di bollino esagonale applicato sulla bottiglia. Non è così semplice ottenerlo: c’è un disciplinare da rispettare che, come è facile intuire, non riguarda solo ingredienti e tecniche. La birra dev’essere prodotta all’interno di un’abbazia e la lavorazione deve svolgersi interamente sotto il diretto controllo dei monaci, che investiranno i ricavi per il loro sostentamento e per la manutenzione degli edifici. Ciò che rimane lo destineranno a finalità sociali e caritatevoli. I primi mastri birrai trappisti risalgono al Medioevo e nascono in Belgio. Si producono ancora qui le birre più famose, (Chimay, Orval, Westmalle). Ma anche gli Stati Uniti e l’italia sono riuscite a entrare nella top 12. La Spencer Brewery dell’abbazia St. Joseph di Spencer (Massachusetts) è il primo produttore al mondo di birra trappista IPA (India Pale Ale). Mentre a Roma, sulla Laurentina, nell’abbazia Tre Fontane i monaci cistercensi imbottigliano, dal 2015 con marchio ATP, una birra all’eucalipto. Per informazioni: gsdistribuzioneitalia.
«La prima lezione che ho imparato è trarre il massimo da ogni ingrediente e non buttare via niente che si possa mangiare». È partito da qui Massimo Bottura, chef patron dell’osteria Francescana di Modena, tre stelle Michelin, da tre anni sul podio olimpionico del famoso World’s 50 Best Restaurants, per realizzare il Refettorio Ambrosiano di Greco, un progetto da lui ideato assieme alla diocesi di Milano durante l’expo del 2015.
Un progetto in cui per mesi si sono alternati oltre 50 tra i migliori chef del mondo chiamati a cucinare per alcune centinaia di persone con quello che i volontari raccoglievano dai supermercati, dai mercati o dai padiglioni dell’expo. Quelle 150 ricette sono oggi raccolte nel volume Il pane è oro - Ingredienti ordinari per piatti straordinari, firmate, tra gli altri da Jeremy Charles ( nella foto) del Raymonds a Saint John’s, in Canada. «Una ricetta è come la soluzione di un problema (…). Potrebbe essere la cosa più rivoluzionaria che fate ogni giorno». (Laura Pacelli)
Sarà anche il cibo più antico ma il pane non è mai stato di tendenza come oggi. Sia sulla tavola di casa sia su quella dei ristoranti stellati proposto come vera e propria portata a sé. Laura Lazzaroni ha raccolto storie straordinarie di uomini e donne (agronomi, mugnai, fornai e chef) che fanno del pane la loro ricerca e la loro passione. La stessa che lei ci ha messo in questo libro dopo essersi cimentata in prima persona: «Tra una storia e l’altra spiego anche come faccio il pane con farine di antiche varietà di grano. Non è facile ma assicuro che tutti capiranno perché lo scrivo con la “p” maiuscola». (LA.P.)