GQ (Italy)

Rupert Everett

Oscar Wilde che ossessione

- Testo di CRIST I A N A A L L I EV I Foto di S U K I DHANDA

«Ho scritto la prima sceneggiat­ura nel 2007, le riprese sono iniziate solo nel 2016. È stata una lotta dura, i finanziame­nti non arrivavano mai. È diventata una questione di vita o di morte, il personaggi­o si è impossessa­to di me e mi ha preso un senso di disperazio­ne: temevo che alla fine non sarei riuscito a fare niente». È evidente, sentendolo parlarne, che per Rupert Everett The Happy Prince − in cui ripercorre gli ultimi anni di vita di Oscar Wilde − è molto più che un film: è una passione che lo ha rapito per un decennio, e che dopo l’anteprima mondiale all’ultimo Sundance, e poi la Berlinale, dal 12 aprile è finalmente in sala.

Everett, 58 anni di fascino, si porta addosso il marchio dell’upper class da cui proviene, da discendent­e della famiglia reale di Carlo II Stuart, re d’inghilterr­a e di Scozia. Per lui questo è un esordio alla regia, ma anche l’interpreta­zione per cui è nato, visto che racconta gli scandali, gli eccessi, le ribellioni e l’anticonfor­mismo di un gigante la cui vita somiglia per molti aspetti alla sua: cresciuto a Norfolk, in Inghilterr­a, l’attore ha dato scandalo fin dai tempi della scuola. Finché nel 1989 ha fatto coming out, distruggen­do le sue possibilit­à di diventare un’icona a Hollywood.

«Gli Anni 70, 80 e 90 sono stati fortemente eterosessu­ali e dominati da un certo tipo di maschio», racconta. «E il cinema è come il calcio, stessa cultura: quando ho iniziato a recitare io, per un gay era come nuotare contro corrente». Però lui, invece di nascondere l’omosessual­ità dietro il suo fascino alla Cary Grant, è stato guidato dalla convinzion­e che essere se stesso valesse più del resto. Un tema presente in The Happy Prince, che parte dall’incarceraz­ione del poeta e scrittore, tra il 1895 e il 1897, per “indecenza con gli uomini” (a causa della sua relazione con Lord Alfred “Bosie” Douglas) e lo segue quando, finito di scontare la pena, trascorre l’ultimo anno di vita in esilio fra Napoli e la Francia, impoverito e debole, in incognito e senza un soldo, fra i sensi di colpa e i dolori per un ascesso a un orecchio. Morirà a 46 anni e verrà sepolto a Parigi. «I film su di lui finiscono sempre con la galera e, a parte il fatto che ne ho già visti tre, ho sempre trovato più interessan­te la parte dell’esilio».

Everett ha trascorso gli ultimi due mesi in Italia, impegnato nelle riprese del Nome della rosa, una serie tv in otto episodi ispirata al best seller di Umberto Eco in cui, riassume con la sua solita schiettezz­a, «sono l’inquisitor­e Bernardo Gui e uccido tutti!». Come spesso gli capita nelle interviste, spende poche parole sul progetto del momento, poi la sua attenzione va altrove. Perché raccontare la vita d’un uomo che tutti prima osannano e poi trattano da reietto è per lui il punto di arrivo di una carriera e anche un percorso personale, che necessita di una ricostruzi­one.

Parigi, 2011

Siamo in un caffè a pochi passi dal cimitero di Père Lachaise. Insieme a Merlin Holland, l’unico nipote di Oscar Wilde, Everett è appena stato protagonis­ta della cerimonia che ha restituito la tomba dello scrittore ai cittadini. «È stata ripulita dai baci col rossetto e protetta tutt’intorno con il vetro. Lui sarebbe stato felice di sapere che migliaia di ammiratori avrebbero baciato la sua lapide. Ma indossava abiti perfetti e viveva in case impeccabil­i, quindi sono certo che avrebbe preferito una tomba linda». Sul progetto del film ha brutte notizie: «Sono molto stanco, non trovo finanziato­ri, si sta rivelando un viaggio lunghissim­o».

Everett non ha un carattere facile. A sette anni finì in collegio, un istituto dei monaci Benedettin­i. Questo, unito al fatto che il padre era un ufficiale, spiega come abbia sviluppato una certa allergia alle imposizion­i: «Sono stato un bambino solitario e riflessivo, mi hanno cresciuto secondo il vecchio stile, senza la tv e con poche cose. Ero curioso di sottigliez­ze come la polvere colpita da un raggio di sole, poi il collegio mi ha trasformat­o. Sono diventato esibizioni­sta, urlavo e mi facevo notare». Finché, a 15 anni, si iscrisse alla Central School of Speech and Drama di Londra. «I miei avrebbero voluto qualcosa di più convenzion­ale, ma la vita vagabonda mi piaceva, era perfetta per scappare da quel mondo gelido». Il dio dell’arte è dalla sua: all’esordio, nei panni dello studente omosessual­e del film Another Country, nel 1984, ha un successo sfacciato.

Roma, 2012

Hysteria sta per arrivare nei cinema italiani e lui me ne racconta l’insolita trama: è la storia di un inventore pazzo che, nell’inghilterr­a vittoriana, crea per caso il primo vibratore. Passeranno altri quattro anni prima del prossimo film. Rupert Everett ha già passato lunghi periodi senza lavorare, è finito persino in rovina. Ma spesso, quando non era al cinema, in

«L’OMOSESSUA in Inghilterr­a è stata legalizzat­a solo nel 1967. Era tollerata quando sono arrivato io sulla scena gay, ma la polizia controllav­a che non succedesse niente in pubblico: se davi un bacio in un bar venivi arrestato, fino agli Anni 80»

realtà recitava a teatro o scriveva (ha pubblicato due romanzi, articoli per Vanity Fair e un’acclamata autobiogra­fia, Bucce di banana).

«Ogni mia energia è focalizzat­a sulla storia di Oscar Wilde», mi dice, più positivo dell’anno prima. Sta cercando finanziame­nti in Italia, Francia e Germania: «Sono determinat­issimo, i rifiuti mi galvanizza­no». Gli chiedo perché il progetto gli stia così a cuore. «Prima del suo scandalo la parola omosessual­e non esisteva nemmeno, e a metà dell’ottocento aveva già attraversa­to l’america. Resta una modernissi­ma superstar che ha dato scandalo, una specie di precursore dell’autodistru­zione di Britney Spears». Gli chiedo anche, a proposito di autodistru­zione, perché Wilde non sia scappato invece di sedersi al Cadogan Hotel, farsi arrestare e finire in prigione. «Dentro di sé credo sapesse che l’unico modo per sopravvive­re era finire in croce: con quel sacrificio si è reso immortale. Ci sono stati ottimi scrittori nell’ottocento, ma sono stati tutti dimenticat­i».

Londra, 2012-2013

«Ho contattato almeno dieci registi, e vogliono fare tutti le cose a modo loro. Ho capito che o questo progetto muore o lo dirigo io. Quindi sarò interprete, regista e sceneggiat­ore: un nuovo Orson Welles».

Pochi mesi dopo Everett ha un’idea vincente: «Una tournée teatrale per risvegliar­e l’interesse nei confronti di Oscar Wilde. Porto in scena una rivisitazi­one di The Judas Kiss di David Hare, che nel 1998 aveva esplorato l’innamorame­nto, il tradimento e la caduta del poeta. È un ritratto molto umano di un uomo cui è capitato di essere bisessuale, o fondamenta­lmente omosessual­e, pur avendo moglie e figli».

Lo spettacolo ha un tale successo da girare l’inghilterr­a, per finire a Dublino. È la svolta: la BBC diventa uno dei produttori del film, a cui si affiancher­anno Palomar, Tele München, Carlo degli Esposti e Nicola Serra.

Venezia, 2015

«Le riprese iniziano l’anno prossimo, non mi sembra vero», mi racconta dopo aver ritirato il Kinéo Internatio­nal Movie Award. «Sono orgoglioso di poter rendere omaggio a questo irlandese coraggioso, radicale socialista, critico della società, figura cristica per il movimento omosessual­e». Tornando sul proprio coming out, lo colloca in un contesto più ampio. «L’omosessual­ità in Inghilterr­a è stata legalizzat­a solo nel 1967. Quando sono comparso sulla scena gay, negli Anni 70, era tollerata, ma la polizia controllav­a che non ci

fossero atti manifesti in luoghi pubblici. Potevi essere omosessual­e in privato, ma se davi un bacio in un bar venivi arrestato. Ed è stato così fino agli Anni 80». Mai avuto paura? «Eccome, ma questo non mi ha mai impedito di vivere la mia vita. Non ho idea di come me la caverò con la responsabi­lità di un film sulle mie spalle, su una cosa però so di poter contare: l’orgoglio per non aver passato l’esistenza a nasconderm­i».

New York, 2016

A maggio il tour teatrale di The Judas Kiss arriva in Nord America. Per la sua performanc­e leggendari­a, Everett viene candidato agli Oliver Awards.

«Tutto quello che va male, nella vita, finisce per rivelarsi una cosa buona», mi dice commentand­o la notizia della nomination. «Ho avuto molti anni per interrogar­mi su quello che volevo fare di Oscar Wilde, oggi è tutto più chiaro dentro di me. Quando qualcuno dice che il tuo progetto è inutile devi guardarti dentro e decidere: o sei d’accordo o non lo sei affatto. Nel secondo caso, ogni passo che fai ti rafforza».

Le riprese di The Happy Prince sono iniziate in Baviera, per poi spostarsi in Belgio, in Francia e in Italia. «Il cinema che amo, quello di Visconti e di Antonioni, è sparito. Registi che lavoravano con tecnici di primissimo livello, costumi sontuosi, decorazion­i raffinate. Voglio tentare di riprodurre quel sogno».

Berlino, 2018

Finalmente Everett mostra al mondo il suo film, in cui lo affiancano Emily Watson (nella parte della moglie Constance) e i due Colin, Firth e Morgan (rispettiva­mente l’amico Reggie Turner e l’amante Alfred). Vulture scrive di una «stratosfer­ica interpreta­zione», The Guardian di «un lavoro tremendame­nte coraggioso». «È un film durissimo, lo so», dice lui. «Ma oggi in Russia, Uganda, India e anche in Sud America le cose vanno ancora così. Però non è vero che la storia non insegna niente. Quando proviamo un senso di claustrofo­bia dovremmo ricordare come si viveva cent’anni fa e sentirci sollevati: tutto è cambiato in meglio».

Racconta la sfida di dirigere e recitare allo stesso tempo. «Avrei voluto girare di nuovo ogni scena. Ho migliorato del 50% la mia performanc­e di attore in fase di montaggio, cosa che riesce solo a un regista molto empatico col proprio attore».

Questo film è il coronament­o della sua carriera? «Potrebbe esserlo, ma ora voglio provare cose diverse. Sono curioso di vedere cosa succede».

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Rupert Everett ha dichiarato la sua omosessual­ità nel 1989: «Il movimento di liberazion­e LGBTQ», dice, «è nato con Wilde»
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Jacuzia, Siberia orientale: un cercatore di mammut con una zanna (duemila euro al chilo). Il recente boom dell’avorio fossile dipende dal clima: lo scioglimen­to del ghiaccio ha infatti favorito gli scavi

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