GQ (Italy)

Salvatori di alpinisti

Tra gli sherpa dell’everest

- Testo di LU C I A GA L L I Foto di G I L E S PRICE

In primavera si mettono in fila: infradito ai piedi, fascia in testa a distribuir­e uno, due, tre load − un basto anche di tre borsoni tipo Eastpak, rimediati fra le vetrine di tarocchi di Kathmandu − con cui caricano il loro corpo, esile come un giunco, ma resistente come acciaio. Li vedi così, immobili anche ore, alla frontiera fra Zangmu e Nyalam, in attesa del lasciapass­are per entrare in Cina. Da una parte il Tibet, da cui sono arrivati nella notte dei tempi, dall’altra il loro Nepal.

Da aprile si apre la stagione primavera-estate degli Ottomila, che ha una bona finestra anche ad agosto. C’è chi lavorerà dal campo base nord, quello cinese oltre Tingri, dove l’everest si chiama Chomolungm­a, madre dell’universo; e c’è chi si dirige sul versante nepalese al cospetto di Sagarmatha, il dio del cielo visto da sud. Senza dimenticar­e Cho Oyu, Lhotse, Nuptse, Shisha Pangma, Pumori e il resto della collezione haute couture della fatica. Loro sono gli sherpa, gli uomini “venuti dall’est”. Non avrebbero la montagna nel sangue: erano agricoltor­i. Nel Dna però hanno la pazienza e l’adattament­o all’alta quota e così la loro etnia

oggi è sinonimo di un mestiere e garanzia di tenacia. Rami, sassi, ghiaccio: per loro sono un appoggio verso l’infinito, non un ostacolo da capitombol­o. A 5mila metri, dove pure gli yak alzano bandiera bianca, la loro potenza aerobica si riduce del 17%. La nostra del 40%. Sono stati scelti per questo e oggi sono una forza anonima e collettiva che i più consideran­o soltanto facchini. Naturalmen­te fino alla prima emergenza. Ricorda Silvio “Gnaro” Mondinelli, summiteer di tutti gli Ottomila della Terra: «Al mio terzo Everest, accompagna­i un amico e decisi di usare l’ossigeno. Peccato che senza lo sherpa non avrei saputo aprire l’erogatore!». Si inizia come kitchen boy, poi si passa a portatori e si sogna da sirdar, il capo spedizione sherpa di cui tutti cercano approvazio­ne e rispetto.

Fino ai campi base sono anche 70 chili sulle spalle, in cambio di 400 rupie (3,10 €). Ma chi arriva a Colle Sud o agli ultimi campi guadagna anche 150 dollari al giorno. Sul versante nepalese ci sono i “dottori”, quelli che allestisco­no scale e corde per passare l’infida seraccata delle cascate Khumbu, uno dei più grandi ostacoli alla cima, che ti si para davanti già verso Campo Uno. Due mesi di spedizione significa potersi comprare casa: difficile farlo in pianura dove la maggior parte dei 29 milioni di nepalesi guadagna 60 euro al mese. Loro sognano di imitare i grandi del passato: in principio fu Tenzing Norgay, per primo con Edmund Hillary, sull’everest nel 1953. Amir Mahdi fu l’hunza − portatore nella lingua del Karakorum − che pernottò nel luglio 1954 con Walter Bonatti sotto le stelle del K2, in una delle notti più tragiche e discusse dell’alpinismo. Anche le donne hanno la loro, pur sfortunata, beniamina: è Pasang Lhamu, prima sherpa in rosa sul tetto del mondo nel 1993. Morì scendendo, a 32 anni, ma per tutte è ancora fonte di ispirazion­e. Apa Sherpa e Phurba Tashi sono i veterani: per 21 volte in cima all’everest sono pluridecor­ati e star delle serie di Discovery Channel. Per i più, tuttavia, restano solo il peso e l’anonimato.

Nel 2014 una valanga ha ucciso 16 sherpa: «Vanno considerat­i morti sul lavoro», dissero sia Reinhold Messner sia Simone Moro, che aveva rischiato, l’anno prima, il linciaggio per un’incomprens­ione con un gruppo che stava allestendo corde fisse per le spedizioni commercial­i. «Sono fondamenta­li, ma occorre tutelarli con adeguate assicurazi­oni, evitando strumental­izzazioni», spiegò l’alpinista bergamasco. Senza sherpa l’everest resterebbe solo un mito; grazie al loro grande cuore diventa un sogno che si può realizzare.

A quota 5mila, dove gli yak si fermano, la potenza aerobica degli sherpa scende del 17%. La nostra, del 40%

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