SUONALA ANCORA, BOSS
Che il cervello dei musicisti sia speciale, si sapeva già: qualsiasi strumento impone infatti un coordinamento estremo tra mente e corpo, e l’esercizio continuo determina addirittura modifiche strutturali. Chi suona da tempo ha un ippocampo più efficiente, per esempio, a vantaggio della memoria e della facilità nell’apprendimento. Inoltre ha un numero superiore di sinapsi e una connessione maggiore tra i due emisferi cerebrali. Ovvero, semplificando, tra la logica (emisfero sinistro) e l’istinto (destro). Ecco perché i musicisti sarebbero più portati al multitasking, al problem solving e, in generale, a trovare soluzioni rapide e creative a problemi di qualsiasi tipo. Quello che non si sapeva ancora è che i pianisti hanno tutte queste doti e qualcuna in più, diversa in base al genere musicale. Nello specifico: classica o jazz.
L’ultimo studio scientifico sul cervello degli strumentisti porta la firma del prestigioso Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig, in Germania, e al di là della scoperta in sé ha il merito di illuminare un dettaglio poco affrontato, ma fondamentale, del pensare e del vivere: meglio agire concentrandosi sul “come” o sul “cosa”? Chi sceglie la prima opzione procede come un pianista classico a cui preme, tasto dopo tasto, la perfetta esecuzione di uno schema. Gli altri prediligono l’arte jazzistica dell’improvvisazione. In teoria non c’è un meglio né un peggio, si tratta semplicemente di scelte, o di attitudini. Tanto più che in entrambi i casi si possono raggiungere livelli altissimi.
L’antropologo, psicologo e filosofo francese Claude Lévi- Strauss si interrogò a lungo su cosa significasse suonare un’opera sinfonica. Per lui questo equivaleva – né più né meno – ad affrontare un problema e risolverlo, elevando la narrazione a mito. Erano, per inciso, pianisti classici il “cancelliere di ferro” Otto von Bismarck, il presidente americano Harry Truman, l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice. E il polacco Ignacy Paderewski, concertista di fama internazionale, primo ministro e firmatario del Trattato di Versailles del 1919, cui ogni città del Paese ha dedicato una strada. Un tipo tosto anche sul palcoscenico. «Ho stabilito un certo standard di comportamento», spiegava. «Durante le mie esecuzioni, quando qualcuno inizia a parlare io smetto di suonare e dico: “Scusate se interrompo la conversazione, mi dispiacerebbe disturbarvi con la mia musica, così smetto per un po’ per consentirvi di continuare la discussione”».
Jazzisti in politica, pochi. Anche se in un certo senso «suonare jazz vuol dire far politica», come ha sottolineato l’anno scorso in Umbria il sassofonista Sonny Rollins, maestro dell’hard bop. In compenso, ora che il mondo è interconnesso e trasversale, c’è chi ritiene che le doti di questi musicisti sarebbero preziose nel management. Si tratta, in particolare, del sociologo (e pianista) Frank J. Barrett, autore del libro Disordine armonico. Leadership e jazz: «Questo tipo di musica è ben più di una metafora dell’organizzazione», ha spiegato. «I gruppi jazz sono di fatto organizzazioni progettate per l’innovazione, e gli elementi progettuali insiti nel jazz possono essere applicati alle organizzazioni che vogliano rinnovarsi».
Razionalità e istinto, perfezionismo e improvvisazione. Tra due estremi, a tirare le somme può essere solo chi li ha frequentati entrambi.
Keith Jarrett riceverà il Leone d’oro alla carriera il 29 settembre, durante il Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia. Considerato uno dei pianisti e improvvisatori più straordinari della storia del jazz, non ha mai abbandonato la classica. «Suono Bach o Händel alla lettera, la “mia visione” non esiste. Ma quando improvviso sono completamente libero», ha raccontato. «I più grandi pianisti del mondo invece tengono la loro immaginazione al guinzaglio, perché hanno sempre davanti quello spar tito. Allora io dico: liberateli».