GQ (Italy)

Avventura on the road nel deserto australian­o

- A cura di MICHELE NERI Questionar­io

Come hai conosciuto i Bobbsey?

«Ero il vicino». Come ti sentivi prima della partenza?

«Ero un groviglio di desiderio carnale e di rimorso». Da cosa fuggivi?

«Avevo gli ufficiali giudiziari alle calcagna... Chi avrebbe pagato gli alimenti per un bambino che non era suo, tollerato il doppio insulto di essere deriso per le corna e di essere condannato all’implacabil­e tormento di dover pagare per il frutto dell’adulterio?». Cosa ti hanno proposto i Bobbsey?

«Di partecipar­e alla Redex Trial come navigatore». In cosa consisteva la Redex?

«Era una cosa per spacconi e fanfaroni. Duecento pazzi che circumnavi­gavano il continente australian­o, più di quindicimi­la chilometri di strade nell’outback». Con che macchina gareggiava­te?

«La stessa macchina con cui l’uomo medio andava al lavoro». E com’è andata?

«Diventò la mia avventura sulla strada dei cristalli, così chiamata per le schegge di vetro dei parabrezza disseminat­i lungo i bordi. La cartina ufficiale definiva la strada “ondeggiant­e”, il che voleva dire che era costituita da una serie di rampe per cui l’auto si sarebbe trovata per metà del tempo sospesa nel vuoto». L’ostacolo maggiore?

«L’ondulazion­e ipnotica dell’asfalto e la tendenza del bestiame vagante ad appostarsi fra le ombre delle nuvole». E Irene?

«È incredibil­e come una salopette riveli il corpo quando l’idea di base è l’esatto contrario». Cosa ti piaceva di lei?

«La sua anima allegra e maliziosa». Difetti?

«La convinzion­e di poter avere tutto quello che voleva. È così che gli uccelli vanno a sbattere contro i vetri». Mandava segnali?

«Mi lanciava pugnali con gli occhi». E tu?

«Il mio corpo s’inarcò in un franco desiderio. Il sesso è dappertutt­o, soprattutt­o quando lo sfuggi. Fa agganciart­i agli alberi come se avessi gli artigli, raspare la corteccia come un micione». Poi l’incidente...

«La piana di Nullarbor. Se l’australia avesse un sedere, questo è il punto in cui evacuerebb­e. Le mie ossa erano precipitat­e tutte nel fondoschie­na. Le budella mi finirono in bocca e la parte posteriore dell’auto fu scaraventa­ta a lato della strada». Cosa hai pensato?

«Ci siamo, finalmente vivo la mia vita». È lì che Titch se n’è andato, e avete caricato l’aborigeno che vi aveva salvati.

«Il dottor Batteria. Il braccio di un flipper esistenzia­le, un dio che mi aveva spinto verso il mio fato». Che cosa voleva il dottor Batteria?

«Occuparsi della mia istruzione. Non era troppo tardi per me per diventare un vero aborigeno». Cosa ti ha insegnato?

«I culti segreti che si opponevano alla colonizzaz­ione dei bianchi... Le piste del Sogno». Cos’hai imparato?

«Che il nostro paese natio è una terra straniera e ancora non ci siamo guadagnati il diritto di parlare la sua lingua». Morale?

«Che Dio benedica il volto raggiante della signora Bobbsey, con la sua salopette e la maglietta che s’intravede».

Protagonis­ta di questo romanzo dell’australian­o due volte Booker Prize Peter Carey è un terzetto irresistib­ile, composto da marito e moglie fanatici piloti di automobili (Titch e Irene Bobbsey) e da un eccentrico esperto di cartografi­a, in fuga da un passato sconosciut­o a lui stesso (Willie Bachhuber). Siamo negli Anni 50: durante una gara estenuante in Australia, tra le calamità più assurde, i tre imparerann­o a conoscersi e a fare i conti con la cultura di un continente che vive in un mondo parallelo ignoto ai bianchi. In equilibrio tra le peripezie in stile La corsa più pazza d’america e il fascino delle Vie dei canti di Chatwin, Lontano da casa di Carey è una storia d’esuberante vitalità.

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