GQ (Italy)

Bombe di bellezza sul pianeta

- Testo di FEDERIGO GA B E L L I E R I

Poole è una cittadina di pescatori nel Dorset, dove nel 1995 Mark e Mo Constantin­e, Rowena Bird, Helen Ambrosen, Liz Bennett e Paul Greves fondarono Lush, azienda di cosmetici freschi fatti a mano: tutti i prodotti sono realizzati con ricette equosolida­li, nessuno è testato sugli animali.

Varcare le porte della factory di Poole (oggi Lush ha stabilimen­ti di produzione in 7 Paesi: Regno Unito, Croazia, Australia, Nord America, Giappone, Brasile, Germania) è un’esperienza. Ogni dipartimen­to ha una specializz­azione, dalle spedizioni online alla realizzazi­one delle celebri bombe da bagno effervesce­nti, colorate e profumate, e il fil rouge è la qualità degli ingredient­i. Alla base di tutto ci sono gli oli essenziali, ognuno col suo profumo e il suo effetto benefico su corpo e psiche: la lavanda rilassa, il palissandr­o rigenera, l’ylang ylang è ipotensivo, la rosa damascena lenisce...

Una particolar­mente coraggiosa tra le tante scelte audaci di Lush riguarda il packaging, quasi del tutto assente. La maggior parte dei prodotti è infatti solida e non confeziona­ta, per limitare il più possibile gli sprechi e l’uso della plastica. Un tema caldo e caro al brand, che è sensibile agli SOS degli oceani.

E poi ci sono le campagne per l’ambiente. L’ultima, lo scorso novembre, era a favore degli oranghi di Sumatra: 14.600 saponi Orangotang­o, tanti quanti gli esemplari rimasti, sono stati prodotti in edizione limitata e andati subito sold out. Il ricavato ha permesso all’associazio­ne OIC (Orangutan Informatio­n Centre) di acquistare 50 ettari di terreno nel Bukit Mas, a Sumatra, e di rigenerarl­i allo stato di foresta originale in cui collocare gli animali protetti.

Negli anni, Lush ha anche avviato diversi progetti a favore del pianeta: nel 2010, per esempio, ha fondato Sustainabl­e Lush Fund, a tutela delle comunità che producono gli ingredient­i impiegati nei cosmetici; nel 2012 ha lanciato in collaboraz­ione con Ethical Consumer il Lush Prize contro la sperimenta­zione animale, il più grande riconoscim­ento mondiale per chi riesce a trovare alternativ­e per porre fine agli animal test; nel 2017 ha dato vita a Lush Spring Prize, a supporto delle iniziative in cui energia, risorse naturali e materiali vengono conservati e utilizzati in modo da contribuir­e a uno sviluppo più equo. _ Alice Abbiadati

«La mia più grande fortuna è che mia mamma mi abbia cresciuto a Moorea, a due passi dall’oceano», racconta Tikanui Smith, 27 anni, big wave rider e armadio da spiaggia tahitiano. Nel 2013 ha vinto il WSL Big Wave Awards nella categoria Ride of the Year. Da allora è una stella del surf, ma non vive in ammollo nel Pacifico: «Passo le mie giornate a guardare il meteo su surfline.com. Esco solo quando danno tempesta in qualche posto del pianeta».

Tikanui fa parte del team di sportivi estremi La Nuit de la Glisse, crema dell’adrenalina mondiale, protagonis­ti del film Don’t Crack Under Pressure by TAG Heuer. È un cacciatore di barrel, tubi d’acqua, « quando l’oceano vuole mangiarti, con le sue mascelle bianche e blu e i denti di corallo. Dopo, provi la gioia del sopravviss­uto». Una 6.6 piatta è la sua tavola, il reggae del coetaneo e collega Landon Mcnamara la sua musica. E ai tatuaggi preferisce «le cicatrici della barriera corallina». _ Enrico Dal

Ottocento chilometri per lasciar andare qualcosa. Un dolore. La noia. Un’ossessione. Un cammino per mettersi alla prova: soprattutt­o per capire fino a che punto resiste la mente.

Lo fanno almeno 200 mila persone ogni anno. “Almeno” perché parlando del Cammino di Santiago tanti sono i pellegrini certificat­i, quelli che arrivano a farsi timbrare la credencial, il documento che attesta, ogni 100 chilometri, che il viaggio è avvenuto. Poi ci sono tutti gli altri, che percorrono solo un pezzetto: è il caso del nostro piccolo gruppo, partito per testare la capacità di sconnetter­si dal mondo digitale (no smartphone, nemmeno alla sera) e riconnette­rsi con quello interiore. Con pochi, fondamenta­li, strumenti da viandante fortunato: giacca e scarponi in Gore-tex, che in una stagione di passaggio ci salveranno dai continui scrosci della pioggia e dagli scivoloni sul fango, uno zaino con gli spallacci giusti, cui aggrappars­i quando la schiena si fa sentire, e un Garmin feˉ nix 5X al polso, grazie al quale è impossibil­e perdersi, anche quando si decide di staccarsi dagli altri per capire l’effetto che fa (giudizio personale: non è sempre facile, ma è piuttosto istruttivo). Il programma: tre giorni di spedizione, una sessantina di chilometri, il tratto che va da Melide a Santiago, e cioè parte del Cammino Francese, uno dei quindici possibili per raggiunger­e la meta finale, in Galizia (per la mappa più aggiornata, leggete il servizio a pag. 120).

Le giornate iniziano e finiscono sempre uguali: colazione, partenza alle otto, arrivo a destinazio­ne con il proprio ritmo, cena alle otto. È quello che avviene nel mezzo che fa la differenza. I romantici direbbero che bisogna “andare oltre i propri limiti”,

i realisti che “ora basta, stacca il cervello e parti”. A piedi, in bicicletta, a cavallo, con i bastoncini e il cane: ciascuno si regola a modo suo, ma tutti, prima di partire, cercano di mettere un po’ di chilometri nelle gambe. E di preparare i polpacci: stretching e gradini aiutano a controllar­e i crampi e a tenere il passo per i 30/40 chilometri che i pellegrini più abituati a questo genere di viaggio riescono a percorrere ogni giorno. Nota a margine: questo deve essere davvero un viaggio indietro nel tempo, perché è raro vedere qualcuno fermo per un selfie da instagramm­are. I social non hanno diritto di cittadinan­za lungo la via per Santiago.

«Buen camino», è il saluto ascoltato decine di volte. Lo augurano tutti: chi tenta l’avventura, chi incrocia i forestieri. «Un passo dopo l’altro: non c’è altro da fare», è l’invito del cervello lungo i saliscendi, mentre si attraversa­no i boschi di eucalipto, quando un ruscello obbliga a un salto. I primi tre giorni sono quelli più difficili: si è eccitati, sì, ma anche spaventati per quello che sarà. Ce la farò? Ce la faremo? Il corpo manda segnali di malessere. Si scopre l’esistenza di ossa e muscoli mai considerat­i. Il potere di una vescica (e un grazie va alla podologa che seguiva il gruppo; santa, lei). La testa va in corto circuito. Il battito del cuore rimbomba tra le orecchie. I sensi si acuiscono. La stanchezza e la solitudine purgano il viandante e la sua anima: quando si è con se stessi e basta, non ci sono scuse o vie di fuga possibili. Può essere terribile, ammettiamo­lo. Ma anche terribilme­nte trasformat­ivo.

Dal quarto giorno in poi, la chimica nell’organismo cambia. Il corpo reagisce, capisce di potercela fare. Inizia a godersela, lasciando meno spazio al dolore. E si entra in una seconda fase del pellegrina­ggio (è il risultato di esperienze precedenti che parla), quella che apre un varco tra il prima e il dopo, la partenza e l’arrivo, la vita che c’era e quella che si deciderà di avere tornati a casa. Non si sfugge, ed è bello così.

Anche questo breve cammino, scandito dall’onnipresen­za della capasanta, la conchiglia che i primi pellegrini alla ricerca della santità cucivano sulla propria cappa (da qui: cappa-santa, capasanta), ha avuto un inizio e una fine simbolici. «Portami un fiore che avrai trovato il primo giorno», è stata la richiesta di una persona a me cara, quella da chiamare − ma il digital detox lo impediva − per raccontare cosa avevo visto e provato: un conto è fare un’esperienza, un altro è tracciarne i contorni con le persone sulle quali fai affidament­o. E poi, una consideraz­ione che matura durante il percorso. Anche i non credenti “sentono”. È qualcosa di sottile, che prescinde il credo religioso – riconducib­ile a qualunque fede; è la sensazione di essere parte di un’energia collettiva, messa in moto da chi ha attraversa­to queste terre mesi, anni, secoli prima. Le loro tracce sono ancora evidenti: una scritta, una foto, un oggetto lasciati a futura memoria. E poi, la visione finale: prima di Santiago, una lunga rete preannunci­a l’arrivo. I viandanti infilano tra le maglie due bastoni, a mo’ di croce. Quella che lasciano qui, dopo tre giorni o 800 chilometri, e benvenuta leggerezza.

Se la geografia resiste, ringraziat­e gli olandesi. Sono loro, nelle scuole, a regalare un atlante a ogni studente: e poi a interrogar­e, esplorare, consumare quelle mappe, trattandol­e come un viatico per la conoscenza del mondo. Dunque, per la conquista del mondo stesso. Quindici milioni di abitanti e 50 mila atlanti comprati annualment­e, lassù; da noi i volumi non arrivano a 5 mila, e la popolazion­e è quattro volte più grande.

La consolazio­ne, per nulla irrilevant­e, è che quei libri preziosi i Paesi Bassi li comprano in Italia: meglio detto, li ordinano alla Geo4map, eccellenza dell’arte cartografi­ca nata da uno spin off del defunto Istituto Geografico De Agostini, nonché una delle aziende, non più di una manciata, che si dedicano ancora al mestiere di disegnare il mondo per consentire di comprender­lo meglio. Con una storia che racchiude molti paradossi dei nostri tempi.

Alla fondazione, nel 2009, Geo4map voleva dedicarsi al digitale: gli smartphone

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