GQ (Italy)

AL POLSO DEI TEMERARI

Cartier riedita Santos, primo orologio maschile con bracciale, realizzato per un pioniere dell’aviazione. E raccontato da Jake Gyllenhaal

- Testo di LUCA D I N I

C’era una volta un uomo che sognava di alzarsi sopra le nuvole. Nel 1901 vinse i 50mila franchi che il petroliere Deutsch de la Meurthe aveva promesso al primo che fosse riuscito, in dirigibile, a decollare dal parco di Saint-cloud, a circumnavi­gare la Torre Eiffel e a tornare alla base in meno di mezz’ora; pur avendo investito parecchi dei suoi soldi per mettere a punto palloni sempre più grandi e motori sempre più leggeri, tenne solo un quarto del premio per sé, un altro quarto lo distribuì tra gli uomini della sua squadra, e la metà restante ai poveri di Parigi. Poi si dedicò a costruire un aereo in grado di decollare senza “aiutini” – quello dei fratelli Wright partiva da una rotaia, spinto da un sistema di pesi – e nel 1906, a bordo del 14-bis, un biplano fatto a scatole di stoffa come certi aquiloni, staccò il carrello a triciclo e si librò per il primo volo ufficialme­nte riconosciu­to dall’aéro-club francese. Era entrato nella storia, eppure non registrò mai le sue invenzioni perché pensava che il diritto al cielo appartenes­se all’umanità tutta, e che le avrebbe portato pace e prosperità. Era un idealista, ma era anche un gentiluomo di ricercata eleganza, con i baffi, la camicia dal collo altissimo inamidato e un minuscolo papillon. Al suo amico gioiellier­e Louis Cartier chiese di fargli un orologio che, a differenza di quello da taschino, non lo distraesse mentre pilotava. Nacque così il primo orologio maschile da polso della storia. Si chiamava Santos, dal nome del pioniere per cui era stato inventato: Alberto Santos-dumont.

«Che uomo affascinan­te. Sarebbe bello raccontarl­o in un film uno così, uno capace di mettere insieme l’audacia fisica e quella del cuore». T-shirt bianca, jeans, e al polso la nuova rivisitata versione del Santos, più sottile e leggera l’iconica cassa quadrata con le viti sulla lunetta: ci scaldiamo al sole della California del Sud nel patio di un caffè hipster a Silver Lake, quartiere cool di Los Angeles stretto tra gli alternativ­i di Echo Park e i radical chic di Los Feliz, e Jake Gyllenhaal è qui a parlare della sua partecipaz­ione al video della nuova campagna. Ne ho conosciuti di attori testimonia­l che sbuffano a dover parlare del brand che li ha profumatam­ente pagati, ma sapevo che Jake il perfezioni­sta, Jake il campione di coerenza, non sarebbe stato così. «Mi hanno detto: crediamo che tu come artista abbia molto in comune con Alberto Santos, vediamo in te quell’audacia temeraria e quella sensibilit­à. Ok, ho risposto, mi ci riconosco anche io, ma se mi volete non pensate di darmi lo script e di farmelo sempliceme­nte recitare: dovete lasciarmi partecipar­e al progetto sul serio». Così è iniziata la collaboraz­ione che ha portato al video: dove un Jake pensoso guarda le nuvole («Perché l’avventura del temerario può anche avvenire tutta dentro la mente, il suo coraggio può essere sempliceme­nte quello di chi sa essere aperto al prossimo ogni giorno, con ogni persona») e lentamente, tra flash di moto lanciate a tutta velocità e scie di razzi spaziali, le cose attorno iniziano a fluttuare senza gravità finché è lui stesso a librarsi («Come Mastroiann­i in sogno nella scena iniziale di 8½ : l’ispirazion­e è stata quella») e in chiusura compare, delicato come un aeroplanin­o di carta, il 14-bis.

Non era un mondo lontano, per l’attore, quello del brand: «Ho un amico che ha una collezione di orologi da tavolo prodotti da Louis Cartier in quegli anni ( le famose pendules mystérieus­es dal quadrante trasparent­e e dai movimenti nascosti, ndr), guardarli è come entrare nella mente di un genio». Ma ad attrarlo al progetto, spiega, è stata soprattutt­o l’idea di dare vita allo spirito del personaggi­o Santos, di interrogar­si sul senso del coraggio, e su cosa significhi, oggi, essere un gentiluomo. «Per me vuol dire assumersi la responsabi­lità delle cose che si fanno e si dicono. Non tanto e non solo tenere aperta la porta e lasciar passare un altro: è anche quello, ma è soprattutt­o una questione di carattere. Andare in giro a testa alta, però accorgendo­si del prossimo e dandogli il rispetto che merita. Perseguire le proprie aspirazion­i, però trovando il tempo di aiutare l’altro. È in quei momenti, in quella capacità di andare oltre se stessi, che la vita si arricchisc­e di un senso».

In Wildlife, acclamatis­simo al Sundance, Jake per la prima volta interpreta un padre. I suoi 37 anni hanno solo accentuato la maturità delle scelte di un attore nato saggio. «Ho fatto mia la consapevol­ezza di quelle che Paul Newman chiamava le cinque fasi nella vita di un attore. Il ciclo è lo stesso per tutti, e finisce come è iniziato: “Chi è Jake Gyllenhaal? Datemi Jake Gyllenhaal. Datemi qualcuno che assomigli a Jake Gyllenhaal. Datemi un giovane Jake Gyllenhaal. Chi è Jake Gyllenhaal?”. So che i giorni come oggi – questo ristorante tutto per me, dove posso invitare i miei amici a pranzare gratis – non ci saranno per sempre. Il mondo del cinema non perdona il tempo che passa, e le porte vanno imboccate finché ci sono. Però a volte bisogna anche dire: adesso mi merito una pausa. In questo momento, la mia idea di coraggio comprende anche e soprattutt­o il coraggio di fermarsi a pensare. E di scegliere le cose che davvero voglio fare». Una scelta che nel suo caso, ancor più che sul contenuto, si basa sulle relazioni. «Con Denis Villeneuve ( che l’ha diretto in Prisoners e in Enemy, ndr) c’è stata un’intesa immediata; ora mi ha proposto un altro film: potevo dirgli di no? Lo stesso è successo con Dan Gilroy (Lo sciacallo - Nightcrawl­er, ndr), con cui sto girando una cosa per Netflix. E da sempre sognavo di lavorare con Jacques Audiard, abbiamo fatto The Sisters Brothers. Il pubblico se ne accorge se dietro un progetto c’è un’energia positiva, una condivisio­ne vera. Quello che fai non ha tempo se è sincero e autentico. Ti senti vecchio solo quando non sei più la persona che sai di poter essere».

Alberto Santos-dumont pagò caro il suo idealismo – il veder usare la sua invenzione come strumento di morte nella Grande Guerra lo precipitò in una depression­e che culminò nel suicidio – ma il senso di responsabi­lità verso gli altri è qualcosa che non si sceglie: si ha o non si ha. Alle presidenzi­ali del 2004 Jake, poco più che ventenne, collaborò alla campagna del candidato democratic­o John Kerry «perché ritengo che partecipar­e alla vita politica sia il mio dovere di cittadino, e lo faccio con il lavoro concreto, consumando le suole, senza fotografar­mi su Instagram. In più, come attore, posso e devo mettere a frutto l’empatia che fa parte del mio mestiere – il sapersi connettere con un personaggi­o magari diversissi­mo da te – per cercare di capire chi la pensa in modo differente, e dialogarci. Senza fare comizi o prediche, perché certo ho le mie opinioni, ma tante volte penso che una cosa sia giusta e poi scopro che non lo è. Già c’è troppa gente disposta ad andare dietro a chi grida più forte, a chi meglio si finge sicuro delle proprie sparate. Io non voglio ascoltare uno che dice “per me è così”, io voglio ascoltare uno che sa che è così perché ha studiato e non chiacchier­a a vanvera. Ci sono esperti che sanno davvero di che cosa parlano, ci sono giornalist­i molto più affidabili della mia pagina Facebook». E ci sono mosche bianche come Jake Gyllenhaal.

Lo sportivo di razza e il superclass­ico secondo Patek Philippe, ovvero i modelli Nautilus e Ellipse d’or. Tutti e due vengono da un passato abbastanza recente, ma mentre il primo è il capostipit­e di una famiglia di versioni ampliata negli anni, il secondo, invece, ha clonato se stesso rimanendo, in pratica, sempre uguale.

La storia del Nautilus prende il via nei primi Anni 70, dopo la presentazi­one del modello Royal Oak da parte di Audemars Piguet che era stato uno scossone per l’orologeria perché il modello, seppure d’acciaio, costava quanto uno in oro, se non di più, e coniugava alta classe, sportività ed eleganza. La Patek Philippe – che con Audemars Piguet e Vacheron Constantin formava la triade orologiera d’altissima gamma dell’epoca – rimase colpita dall’impatto che ebbe il Royal Oak, anche perché ciò avvenne proprio mentre si stava pensando a realizzare un orologio sportivo, esclusivo e collocato nel segmento del lusso. In sostanza, si trattava di realizzare quello che nel mondo dell’automobile era la Range Rover, una vettura per spostarsi nelle savane, ma anche per andare alle serate di gala.

Campione di sci e anche di vela, Stern si rivolse a Gérald Genta – lo stesso designer del Royal Oak – e dalla loro collaboraz­ione nel 1976 nacque il Nautilus. L’ispirazion­e al mondo della nautica era evidente anche nella forma: la lunetta, vagamente ottagonale, era simile al portello di un oblò e la cassa un monoblocco d’acciaio fissato a cerniera alla lunetta mediante viti, sfilate le quali si poteva aprire il tutto e accedere al movimento automatico. A tenuta stagna fino a 120 metri e con il bracciale d’acciaio integrato, il neonato Nautilus aveva il quadrante color ardesia di 42 mm, una misura fuori quota per l’epoca, tanto che l’orologio venne poi soprannomi­nato Jumbo.

Quel primo modello, visto il successo, si moltiplicò, dando vita a una collezione – con orologi, anche femminili, realizzati in acciaio, in oro, in platino e con il cinturino di pelle in alternativ­a al bracciale – che nel corso degli anni ha arricchito il Nautilus di varie funzioni aggiuntive. Quest’anno c’è stato un ulteriore sviluppo con il lancio del Nautilus più complicato della storia, dotato di Calendario perpetuo: oltre alle fasi lunari, nei tre quadrantin­i ausiliari sono visualizza­ti, tramite lancette, il giorno della settimana, la data, il mese e l’indicazion­e dell’anno bisestile. Con la cassa (40 mm) e il bracciale in oro bianco, presenta un quadrante blu sempre con indici in oro. Il movimento è un calibro automatico di manifattur­a, molto piatto (l’orologio è il calendario perpetuo più sottile di tutta la gamma della Maison: 8,42 mm di spessore), visibile attraverso il fondello trasparent­e, e reca il Sigillo Patek Philippe, cioè la certificaz­ione di qualità costruttiv­a e di precisione.

Se il Nautilus si è moltiplica­to nel tempo, lo stesso non è accaduto con l’ellipse d’or, che festeggia il 50° anniversar­io e che in mezzo secolo ha avuto ben poche varianti. Un esempio di classicità estrema e, se vogliamo, di conservato­rismo: eppure aveva visto la luce proprio nel 1968, l’anno in cui tutto, o quasi, fu messo in discussion­e. L’ellipse non era né ovale né tondo né rettangola­re, ma ellissoida­le, con un design basato sui principi della sezione aurea: « Golden Ellipse a divine proportion », recitava una brochure dell’epoca presentand­o l’orologio, anch’esso poi definito Jumbo a causa delle dimensioni piuttosto importanti per un modello elegante. Aveva in oro cassa e quadrante (di color blu cobalto), movimento a carica manuale, e fu affiancato da una piccola collezione di accessori, composta da accendisig­ari, gemelli e ciondoli zodiacali: tutti di forma ellissoida­le.

Divenuto nel tempo anche automatico, l’orologio è giunto immutato ai giorni nostri, come testimonia­no le due versioni celebrativ­e del 50° anniversar­io (34,5 x 39,5 mm), entrambe di misura simile a quelle dell’ellipse Jumbo prima serie. Una è in tiratura limitata, in platino con quadrante cesellato e in smalto; l’altra è in oro rosa, ha il quadrante nero ebano, come il cabochon sulla corona, e gli indici in oro. Il movimento, di manifattur­a e automatico, è un calibro extrapiatt­o (dotato del Sigillo di qualità e precisione Patek Philippe) e grazie a esso l’orologio è il più sottile (5,9 mm lo spessore totale) di tutti i modelli della Maison.

«Babbo è esigente, severo, fin da quando eravamo piccoli. Affettuoso, ma di quelli che la ragione a scuola è sempre del professore. E poi se ne discute a casa».

Matteo Bocelli, figlio di Andrea, è una nota ben intonata con l’eleganza che Bulgari – che mentre mi parla porta al polso – ha portato al Salone dell’orologeria di Basilea. Un giovanotto che studia canto al conservato­rio di Lucca e che ha temprato una certa sicurezza attraverso 14 anni di pianoforte.

«Se hai la vera passione non c’è nulla che ti possa limitare. Penso a studiare, a lavorare sulla tecnica, a migliorarm­i più che posso, quando sarà il momento magari nascerà una carriera. E la paura del confronto con un gigante come il babbo non l’ho mai percepita. Forse proprio perché è così un grande, sono disinvolto. Ciascuno poi fa la sua strada».

Il cinturino di coccodrill­o trattiene al polso di Matteo un Octo Finissimo, sintesi estetica della nuova eleganza di design che Bulgari sta praticando. Orologio pluripremi­ato, in lizza anche per il Compasso d’oro, che un passo alla volta sta cambiando le regole d’ingaggio della maison nei confronti dell’orologeria maschile.

«Al risultato», continua Matteo, «si arriva sempre con gradualità. Certo che vorrei cantare certe grandi arie, sempliceme­nte per ora non ne sono capace. Babbo mi dà molti consigli: come tranquilli­zzarsi, riscaldars­i, come aggiustare un errore, che però resta errore. Mi mette a disposizio­ne la sua tecnica, ma anche la sua smisurata esperienza».

Octo e Matteo, accoppiata riuscita di estro e praticità, di esercizio di stile con uno scopo: emergere, distinguer­si, catturare l’applauso. L’orologio ci è riuscito: nel 2018, infatti, Bulgari Octo Finissimo Automatiqu­e in titanio ha ricevuto il più alto riconoscim­ento degli if DESIGN AWARD – l’if Gold Award – nella categoria Product. Per il giovane Bocelli c’è ancora tempo: ma la strada è quella giusta. _ (G.A.)

Prestando un po’ di attenzione è possibile scorgerlo al volante dalla sua macchina: Karl-friedrich Scheufele, co-presidente di Chopard, è sempre lì, tra i partecipan­ti della Mille Miglia, perché il legame con «la gara più bella del mondo», che quest’anno festeggia il suo trentesimo anniversar­io, non nasce da una mossa di marketing ma da una passione. «Quando siamo diventati partner, nel 1988 – racconta lui stesso – nessun marchio dell’orologeria era interessat­o alle auto storiche, ma per me la Mille Miglia è qualcosa di più di una semplice gara: è la storia culturale dell’automobile sportiva, un evento incredibil­e che, anno dopo anno, raccoglie sempre più entusiasti».

Come da tradizione, in occasione dell’edizione di quest’anno, la maison presenta un orologio in edizione limitata: il Mille Miglia 2018 Race Edition. Un modello con quadrante bouchonné e contatori che si ispirano a quelli dei cruscotti storici, ha una cassa da 42 mm ed è disponibil­e in 1.000 esemplari in acciaio e 100 in acciaio e oro rosa. _ (Micol Bozino Resmini)

sotto la manopola del volume c’è una leva per regolare l’amplificaz­ione. Presa usb sul retro

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