Le signore dei fornelli
La yankee, la diplomatica, l’anticonformista, l’imprenditrice: sono tra le “cheffe” più influenti al mondo, pronte a prendersi la scena
All’inizio non serve saper cucinare. Serve saper resistere. La scuola migliore sono considerati i ristoranti ad alto tasso di testosterone come quelli di Gordon Ramsay. Chi non demorde alla fine del primo giorno è un’eccezione, chi resiste una settimana ha la tempra di Demi Moore nel Soldato Jane, chi supera i tre mesi, ha la stoffa. In pratica: sollevare casse di patate da venti chili, affrontare un linguaggio da caserma, fare la vita sradicata di rigore per mettere insieme un curriculum degno di nota. Ma se ce la fai, loro, i maschi, ti ammirano incondizionatamente.
Prendi April Bloomfield, 44 anni, fisico possente, che nei gradi in cucina ha visto l’avanzamento più consono alla sua vocazione di aspirante poliziotto. Sua specialità le interiora: rognoni, fegato, cervella, oltre a orecchie e muso di maiale. Inglese di nascita, yankee di temperamento, una delle dieci donne insignite della stella Michelin negli States, con tre ristoranti a New York, tra cui il celebrato The Spotted Pig, uno a San Francisco e l’appena aperto The Heart and Hound a Los Angeles. È, pare, a lei giovinetta che così si riferisce Ramsay: «Una mattina trovò la sua postazione tappezzata da un cuoco ecuadoregno di foto pornografiche di uomini pelosi e donne sfatte. Non batté ciglio. Qualche ora dopo passandogli vicino gli fece, dolce: «Ciao, ho visto quelle foto di gruppo della tua famiglia. Tua madre porta bene i suoi anni». Forte. Sennonché, in epoca di #metoo, oggi si può finire nei guai
se, come ha appena fatto lei a proposito del suo business partner Ken Friedman, accusato di scorrettezze sessuali verso le dipendenti, dichiari piatta alla stampa: «Lui è fatto così. O ci fai l’abitudine o vai a lavorare da un’altra parte». Un’eroina un po’ sorpassata.
Adesso il nuovo trend sono le “cheffe”, come amano definirsi alcune delle cuoche più titolate del pianeta che da quattro anni si riuniscono nel Parabere Forum, un incontro teso a creare un network globale per rafforzare l’influenza femminile nell’universo gastronomico. Come definire altrimenti l’exploit della slovena Ana Roš? Bella, bionda, con una promettente carriera diplomatica davanti a sé, un giorno, capitata per uno spuntino a Hiša Franko, trattoria sperduta nella Valle dell’isonzo, si innamora del cameriere Valter (va be’, è il figlio del proprietario ma siamo sempre lontani anni luce da futuri fasti all’onu) e decide di votarsi a quei fornelli. Gli sloveni sono noti per la monotonia della loro dieta ma, nelle vene di Ana che non a caso fa parte della Nazionale di sci, scorre l’adrenalina. Si autoelegge protettrice del territorio e inaugura una cucina local-fusion rivoluzionaria (alici, finocchio, limone candito; cuore di cervo, ostrica e bergamotto; lingua di manzo umami), che le guadagna l’attenzione di Netflix – viene eletta protagonista di una delle puntate del mitico Chef’s Table – e, a ruota, le vale il titolo di miglior chef donna del mondo nella classifica 50 Best.
Poi ci sono le “cheffe” che, anziché sedersi comode all’ombra del ristorante di famiglia, partono per una missione impossibile, per un ideale. Come la tostissima Maca de Castro, 44 anni, ai fornelli da quando ne aveva 18, scuola dura dai grandi di Spagna, cuoca e proprietaria del Jardin, sulla spiaggia d’alcudia a Palma di Maiorca. Missione: sfatare la radicata convinzione che nelle destinazioni tra yacht e movida si mangi male, e realizzare il sorpasso gastronomico sulla rivale Ibiza. Ce l’ha fatta con la sua interpretazione della cucina “mallorquina”: combinazioni nuove di ingredienti del posto, sapori squillanti, presentazioni scenografiche.
Infine, ai vertici, c’è la “cheffe” imprenditrice. Una da milioni di euro di fatturato, in gara con i Ducasse, i Ramsay, i Bastianich. Lei è Ritu Dalmia, nata a Calcutta, a capo del gruppo Diva Restaurants. Sette i locali in India e, da settembre scorso, Cittamani, «il primo ristorante di autentica cucina indiana in Italia» approdato a Milano, nel cuore di Brera. Ma soprattutto, Ritu Dalmia è il punto di riferimento del DWP (Dubai Wedding Planner), l’organizzazione che riunisce i 150 più famosi gestori di matrimoni del pianeta, per i quali disegna eventi capaci di impegnare (e far guadagnare) per mesi le maestranze delle destinazioni prescelte. A Firenze rimane tuttora oggetto di divertita conversazione la richiesta del re del petrolchimico indiano Rohan Metha di far sfilare gli sposi davanti a Santa Maria Novella issati su due elefanti. Il sindaco Dario Nardella ha detto: «Be’, questo no».