un angolo di paradiso LA MONTAGNA INCANTATA
L’hotel rifugio del jet set internazionale compie 60 anni e, per celebrarli, organizza esperienze uniche. Per esempio, il giro sulla barca galeotta di Callas e Pasolini C’è una funivia unica, presto nella lista delle 100 eccellenze d’italia. E la guida u
Dev’essere per via della piscina, 600 metri quadrati di acqua color turchese Maldive, riscaldata a 29° che fanno sembrare fresca l’estate. O per via del giardino rigoglioso di quelle stesse piante (oltre 300) che due secoli e mezzo fa accolsero e protessero i maneggi amorosi di Giacomo Casanova. Da qualsiasi lato lo si guardi, il Belmond Hotel Cipriani di Venezia ha infinite prospettive, tutte felici. Quest’anno compie 60 anni, portando con sé una storia di idee luminose e incontri propizi, a cominciare da quello che legò il fondatore, Giuseppe Cipriani, alle tre sorelle Guinness, Lady Honor Svejdor, la Viscontessa Boyd of Merton e Lady Bridgit Ness, i cui nomi sembrano usciti dalla pagine di Jane Austen.
«Chi ci sceglie non lo fa per stare a Venezia ma per stare al Cipriani, una destinazione a sé per tanti unici motivi», spiega Giampaolo Ottazzi, dal 2008 direttore dell’albergo di fronte a piazza San Marco, ma alla giusta distanza di sicurezza. Perché l’albergo sorge sull’isola della Giudecca, che si raggiunge solo in barca: «Questo garantisce una privacy che tutti i nostri clienti richiedono, dai capi di Stato alle celebrity».
La differenza rispetto agli altri alberghi di lusso? «Noi offriamo esperienze esclusive, come il giro della laguna a bordo della Edipo Re», la barca galeotta dell’amore tra Maria Callas e Pier Paolo Pasolini, dove oggi si organizzano minicrociere cultural-gastronomiche verso Torcello, con tappe da pescatori di moeche e case d’artisti. In navigazione ci pensa Alessandro Pugliese, maître sommelier del Giudecca 10, ad allietare il viaggio di ritorno.
Quattro cabine che ruotano a 360°, 15 minuti per raggiungere da Courmayeur, in Valle d’aosta, i 3.466 metri di Punta Helbronner e i ghiacci perenni. Quando si è in cima, una terrazza con vista sul gigante d’europa, 4.810 metri, Cervino, Monte Rosa e Gran Paradiso. E il tuffo al cuore è garantito. Ambiziosa opera ingegneristica, 700 mila passaggi in tre anni, Skyway Monte Bianco è “la” funivia di chi cerca l’avventura garantita. Il turista di un giorno. Lo scialpinista. Il freerider. Il naturalista.
Da marzo la guida Federica Bieller, direttore marketing e comunicazione QC Terme e ora anche presidente delle Funivie del Monte Bianco. Una donna in un mondo di uomini − «uomini puri e veri, non condizionati dai ruoli, che hanno il coraggio di esporsi», dice Bieller, 35 anni − decisa a «riempire di contenuti questa bellissima scatola magica, per rendere i nostri passeggeri più consapevoli dell’esperienza che stanno facendo». Da bambina veniva qui a fare sci estivo, affrontando dopo ogni discesa 150 faticosissimi scalini per risalire («La montagna ti insegna la perseveranza: prima o poi si arriva dove si deve»), oggi parla di «un’ascesa che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita», ha un accenno di misticismo e cita il motto di un suo collaboratore: «Bisogna creare un ambiente dove tutto ha un senso e dove i sensi sono tutto».
Intanto Skyway Monte Bianco è in lista per diventare una delle 100 cose più belle da fare in Italia (è un progetto Federturismo e Confindustria), mentre l’alpinismo è candidato a patrimonio culturale immateriale Unesco (Francia, Italia e Svizzera lo hanno identificato nel Monte Bianco) e la zona potrebbe diventare bene naturale, al pari delle Dolomiti. Federica Bieller evoca Lora Totino, l’imprenditore del Biellese che voleva unire i popoli con le funivie: «Non sarebbe bello se l’italia diventasse un’unica regione alpina?».
Anno 1977, spiaggia di Honolulu. Tre amici discutono di cosa sia più impegnativo: una chilometrica traversata a nuoto, una granfondo in bici o una maratona di corsa? Un anno dopo, giusto 40 anni fa, 15 atleti disputavano alle Hawaii il primo Ironman, e il prossimo 13 ottobre le celebrazioni si chiuderanno con l’ironman World Championship (Official Nutrition Partner sarà, per 5 anni, Enervit).
L’ironman è una forma esasperata di triathlon, che è diventato disciplina olimpica nel 2000 e che consiste nella somma di tre discipline di resistenza: nuoto (1.500 metri), ciclismo (40 chilometri), corsa (10 chilometri). L’ironman prende la miscela del triathlon e aumenta le dosi: quasi quattro chilometri a nuoto, 180 in bicicletta, più di 42 di corsa. Se manca la resistenza, inutile provarci.
Daniel Fontana, 42 anni, è stato il primo italiano a vincere una prova del circuito Ironman (era il 2014, con il tempo di 8h26’15”) e anche il primo italiano a conquistare il secondo oro della sua carriera nel circuito mondiale (all’ironman Taiwan, nel 2016). Come è iniziata la passione per lo sport? Mia madre decise di iscrivere me e le mie sorelle a un corso di nuoto. L’amore è scattato quando ho iniziato a vedere come i miei sforzi producessero performance sempre migliori. È la ragione che, ancora oggi, mi fa innamorare ogni volta dello sport: è meritocratico e premia chi si impegna. Perché il passaggio al triathlon? Dopo il nuoto ho praticato per un periodo sport di squadra, come rugby e basket.
Negli Anni 90 ho conosciuto per caso il triathlon: si praticava ancora a livello amatoriale. Ho cercato in giro e visto alcuni documentari sugli Ironman, mi sono appassionato e, dato che mi piace alzare sempre l’asticella, ho iniziato a pensare di farlo a livello professionale. Quando è avvenuta la svolta? Alla fine degli Anni 90. Ai tempi studiavo ancora all’università, ma un giorno ho chiamato mio padre e gli ho detto che poteva smettere di pagarmi le rette scolastiche: ero pronto a vivere di triathlon. Come si allena? Quando posso cerco di variare, ma la ruotine prevede nuoto al mattino presto e bici o corsa a fine mattinata. Il pomeriggio è per il lavoro e la famiglia. Fondamentale il recupero: mi impongo di dormire almeno otto ore a notte. Il sonno è importante per non andare in over training. E sul piano alimentare? Seguo la Dieta Zona di Barry Sears ( Daniel è anche testimonial Enervit, ndr), una mediterranea bilanciata nei macro-nutrienti. Detto questo, sono un mangione e in Italia ho scoperto piatti ai quali non si può resistere. Quali integratori sceglie? Di base, gli omega 3, per un’azione antinfiammatoria, e il maqui, una bacca cilena ricca di polifenoli, contro lo stress ossidativo. In gara barrette e gel sono fondamentali per arrivare al traguardo. Il più grande insegnamento del triathlon? L’umiltà. In questo sport i presuntuosi non vanno lontano.
Ci sono gli arrampicatori sportivi, quelli che scalano alte pareti di roccia, quelli che salgono sulle cime delle grandi montagne per i versanti più verticali e ghiacciati, e poi c’è Nicolas Favresse, che fa tutte queste cose insieme, a livelli massimi. Nato in Belgio 38 anni fa, Favresse è tra i pochi scalatori al mondo capaci di portare l’alta difficoltà su montagne che si trovano in luoghi così remoti che il più delle volte non hanno neppure un nome sulla carta geografica. Nicolas che cos’è per te arrampicare? Per me è soprattutto un modo di viaggiare: il mondo è pieno di posti con rocce fantastiche, di diversa natura geologica, e questo ovviamente permette di migliorare molto dal punto di vista tecnico, ma è anche un bel modo di scegliere luoghi dove non si andrebbe mai, decisamente fuori dalle rotte turistiche. Come pianifichi una spedizione? È piuttosto casuale. Qualche anno fa siamo andati sull’isola di Baffin, nell’arcipelago artico canadese, perché avevamo visto delle foto pazzesche. È stata un’esperienza magnifica e faticosa: abbiamo marciato per sei settimane per portare il materiale sotto le pareti del monte Asgard, siamo rimasti 15 giorni a scalare e aprire nuove vie, abbiamo avuto bisogno di altre quattro settimane per tornare indietro. Quando abbiamo pianificato una seconda spedizione, abbiamo cercato un posto senza il problema dell’avvicinamento. Come avete scelto la Groenlandia? È un’isola selvaggia e immensa. Se si immagina di srotolarne la costa, frastagliata in fiordi profondissimi, si ottiene una linea lunga quanto la circonferenza della terra. Ci sono pareti gigantesche di roccia vergine, tutto granito, che partono direttamente dal mare. Abbiamo trovato una barca e uno skipper disposto ad accompagnarci, e siamo partiti.
Che tipo di preparazione richiede una spedizione in Groenlandia?
La parte più complicata è quella logistica. Bisogna portarsi dietro tutto l’equipaggiamento e calcolare bene le provviste. Noi siamo stati via tre mesi, in autonomia, perché abbiamo attraversato luoghi completamente disabitati, a parte gli orsi polari. Ma ce la siamo cavata alla grande: c’è pesce in abbondanza, tanti molluschi e dei funghi squisiti.
E per arrampicare cosa serve: talento, dedizione, allenamento?
Quello che conta più di ogni altra cosa è la motivazione. In fondo arrampicare è un gesto naturale, come camminare, solo più faticoso. Ma si cammina e si arrampica per lo stesso motivo: andare ogni volta più lontano e spingere i propri limiti un po’ più in là.
Superare continuamente il limite: è questa la sfida?
Per me la sfida è esplorare ciò che non si conosce: quando attacchi una parete mai salita, non sai dove stai andando, non hai un programma da rispettare, allora puoi veramente entrare in sintonia con la montagna che
stai scalando, con l’ambiente che hai intorno. E la paura? La paura c’è sempre e bisogna saperla ascoltare. A volte non è razionale, ma è una sensazione che va sempre rispettata perché ti salva la vita. E quando devi affrontare un passaggio impegnativo, ti aiuta a saper riconoscere quando è il momento giusto di farlo. La prossima partenza? Per il Pakistan. Ci hanno parlato di una valle, nell’area del K2, piena di Big Wall, pareti altissime e inviolate. Ne troveremo di certo qualcuna che fa per noi.