IL BENE DEL LUSSO
Moda, design, orologeria, turismo e trasporti d’élite: in 10 anni il mercato è cresciuto del 20%. Acquisizioni, quotazioni e partecipazioni aumentano di mese in mese. La finanza globale crede nella bellezza. E investe sul futuro
Non è vero che il lusso non conosce crisi. Non nel senso etimologico del termine: krino in greco vuol dire separare, distinguere, e di certo la fase che vive oggi il settore è completamente altra, diversa dal 2008. A differenza di molti comparti industriali, dove la crisi resta percepita come presente, per gli operatori del fashion&luxury quello è un tempo lontanissimo. Qualche numero: due anni fa il mercato dei beni di lusso valeva 1.081 miliardi di euro (di cui 249 nel ramo da sempre più vivace, i beni di lusso personali), nel 2017 1.200 miliardi (di cui 262 in beni personali) e le stime per quest’anno, secondo Fondazione Altagamma, sono di una crescita attorno ai cinque punti percentuali. La difficoltà c’è stata, il fatturato dei beni di lusso personali era calato a 153 miliardi nel 2009 dai 167 del 2008, ma nel 2010 la ripresa era già iniziata ed è stata costante anno dopo anno. «Negli ultimi cinque o sei anni si notano incrementi dei risultati delle aziende così come dell’interesse degli investitori in questo settore. Sì, dieci anni fa c’è stata la crisi, ma poi c’è stato anche un aumento della ricchezza globale, seppur concentrata», osserva Elio Milantoni, partner e M&A leader di Deloitte. Intanto, in dieci anni, ai consumatori di un tempo se ne sono aggiunti di nuovi, diversi per geografia e anagrafe. Nel True Luxury Global Consumer Insight del 2018, presentato lo scorso febbraio da Boston Consulting Group, gli analisti prevedono che entro il 2024 quattro clienti su dieci saranno cinesi, e che a livello globale il nuovo target di riferimento dei brand del lusso saranno i Millennials: i 21-35enni che oggi esprimono il 29% della domanda ne copriranno la metà nel giro dei prossimi sei anni. In Italia sono pochi, circa 11 milioni di persone, negli Usa sono ufficialmente la maggioranza della popolazione dal 2015, anno in cui i demografi del Pew Research Center ne hanno certificato il sorpasso rispetto ai Baby Boomers. In Cina sono il 31% degli abitanti, cioè oltre 400 milioni di persone. Hanno in comune una diversa idea del lusso: non più solo tagli sartoriali e tessuti di pregio, “fatti a mano su misura”, ma anche materiali innovativi, sperimentazione e il grado di coolness, la capacità di affermare un’identità. Decidono cosa piace loro e cosa no scorrendo i social media più che sfogliando le riviste, che nel 2017 sono state scalzate per la prima volta da Instagrammer e Youtuber quanto a capacità di orientare le scelte di acquisto. Il denaro non dorme mai, come diceva Gordon Gekko, ma ora circola via smartphone.
Lo shopping è omnichannel: l’anno scorso il 39% dei consumatori del lusso ha cercato capi, profumi, gioielli e orologi online per poi comprarli nel negozio fisico; il 9% ha fatto il contrario, scegliendo l’oggetto del desiderio nello showroom per poi acquistarlo con un touch sullo schermo (reverse omnichannel, lo chiamano gli esperti). Insieme fanno il 48%, più di chi compra solo online (12%) o solo in store (40%). Il negozio fisico puoi vederlo in Rete, la Rete è dentro il negozio fisico, una compenetrazione in cui il cliente viene profilato sempre di più, e tutti questi big data sono predictive, saranno preziosi per anticipare i suoi prossimi consumi. Ecco perché i principali investitori internazionali, intervistati da Deloitte per la sua Fashion&luxury Private Equity and Investors Survey del 2018, ritengono che il segmento del digital luxury sarà quello che crescerà di più, con un ritmo annuale superiore al 10% nel prossimo triennio. Non è un elemento rilevante solo guardando al consumatore, ma anche osservando dal di dentro le società che il lusso lo producono. «Per usare bene le nuove tecnologie non sempre nelle aziende del fashion&luxury ci sono le competenze interne adatte», osserva Patrizia Arienti, partner ed EMEA fashion&luxury leader di Deloitte, che spiega anche con questa esigenza una delle più importanti operazioni degli ultimi tempi, l’opa del colosso svizzero Richemont sull’italiana Yoox Net-a-porter (che, quotata a Piazza Affari dal 2009, dal 20 giugno di quest’anno lascerà il listino italiano per migrare a Zurigo dove si trova anche la casa madre). Se vuoi vendere bene il prodotto che hai creato, ti conviene comprare anche chi realizza l’infrastruttura innovativa su cui questo si sposta, non solo a livello fisico. Un po’ come possedere i binari su cui viaggia il treno, o la fibra ottica della rete internet che distribuisci. «È la stessa ragione per cui Samsonite ha acquisito il rivenditore online ebags, che era già il suo canale distributivo, ma anche per cui colossi della cosmetica o grossi marchi dell’automotive hanno comprato società di digital marketing e social selling, sempre più focali per i principali player del lusso», aggiunge Milantoni. Chiaro che la leva finanziaria, in questo contesto, è fondamentale. Fusioni e acquisizioni tra i marchi del lusso sono aumentate nel 2017 rispetto all’anno precedente, e lo stesso era accaduto nel 2016 sul 2015. Il colpo grosso dello scorso anno lo ha fatto il francese Bernard Arnault, proprietario del gigante del lusso LVMH, conquistando per intero la maison Christian Dior per oltre 13 miliardi di dollari. In generale i protagonisti dei primi 10 top deals chiusi nel 2017 nel mondo del lusso sono quasi tutti gruppi occidentali. Con due eccezioni. La più rilevante, perché si piazza per valore subito dopo l’affare LVMH-DIOR, è l’acquisizione di Belle International, uno dei maggiori retailer asiatici
di scarpe, da parte di Hillhouse, colosso con base a Pechino e Hong Kong che è tra i più grandi fondi operativi in Cina di sempre, per quasi 5 miliardi di dollari. L’altra è quella del gruppo di hotellerie Guangzhou Cedar, anche questo cinese, che si è aggiudicato il brand Sinoer Men’s Wear. Dal punto di vista dei player l’occidente mantiene una certa supremazia, «l’europa è ancora il faro nel mondo fashion&luxury per quanto riguarda il numero di operazioni, che nel Vecchio Continente sono cresciute, seguita dagli Usa, dove sono stabili, insieme all’asia», prosegue Milantoni. Tra i segmenti, nel 2017 hanno destato maggiore interesse degli investitori abbigliamento& accessori, cosmetici& fragranze e arredo; un po’ meno le auto, mentre sono in flessione hotel e orologi & gioielli. L’ingresso dei fondi in aziende del fashion&luxury è un fenomeno in crescita da almeno un lustro, ma c’è stata un’epoca neanche tanto lontana in cui accadeva in casi rari. «Fino a 20 anni fa le operazioni che incrociavano private equity e lusso erano poche. Tendenzialmente si cercavano margini alti e stabilità, mentre la moda è ciclica, il fattore più importante è la crescita per potersi aprire verso nuovi mercati», spiega Lorenzo Astolfi, CEO per l’italia di Alantra, banca d’investimenti specializzata nelle medie imprese, e ottimo conoscitore del sistema moda italiano. Poi c’è stato il caso Gucci: «Un marchio bellissimo e famoso, ma in quel momento polveroso, acquisito da Investcorp, che lavorando soprattutto nel Bahrein rappresentava un outsider. L’operazione di rilancio fu di enorme successo». Arrivò Tom Ford e infine la quotazione in Borsa, e «da allora si è capito che, anche se la moda non è un business che genera flussi costanti, può essere interessante se la sai gestire: prendere un’azienda, farla crescere molto e poi fare l’exit». Operazioni simili sono avvenute anche a cavallo della crisi, come l’acquisizione da parte di Permira della maison Valentino (oggi di Mayhoola, fondo della famiglia del Qatar), ma negli ultimi tempi l’interesse degli investitori è andato concentrandosi soprattutto su marchi emergenti, nella prateria di creatività che cresce sotto i megabrand come LVMH, Hermès, Kering, Richemont. Perché questi ultimi, nota Astolfi, «sono sempre meno accessibili». Ma anche perché da un lato gli stessi fondi considerano profittevole «prendere un’azienda e accompagnarla nell’apertura verso nuovi mercati internazionali», dall’altro «le realtà medie e piccole si sono modernizzate e aperte sia al capital market che al private equity», spiega Milantoni, citando il caso della griffe di pelletteria Valextra, di cui il fondo di private equity Neo Capital ha acquisito il 60% nel 2013. La tendenza è nei dati. Lo scorso anno il numero di operazioni è aumentato, le dimensioni sono diminuite: il 55% ha riguardato aziende sotto i 50 milioni di dollari. E, a guardare i casi recenti, il meccanismo sembra funzionare a livello di mercato: il brand di scarpe Golden Goose è stato comprato due volte in 5 anni – a cifre sempre più importanti – prima da Ergon Capital Partners e poi da Carlyle. E fondi sono presenti in tanti marchi che godono di buona salute, da Versace a Stone Island, da Furla a Save the Duck. «Chiaro, non tutti sono brand che vediamo indossati alla notte degli Oscar, ma il concetto di lusso stesso sta cambiando», dice Astolfi. Di certo per i marchi italiani, da sempre poco inclini – e non solo nel mondo del lusso – al fondersi tra loro, è una buona notizia.