La cultura del prodotto
Una decina di milioni di pezzi prodotti, e 40 anni di storia: non per niente Lardini è la fabbrica italiana di giacche più stimata dal fashion system
Millimetri. Diversità impercettibili. Spostamenti apparentemente insignificanti in realtà capaci di cambiare un’intera architettura. Come se un transetto venisse scostato e l’intero palazzo si incrinasse, facesse difetto, da bello diventasse inutilmente goffo o addirittura implodesse. Sono cose che possono accadere in una fabbrica di giacche da uomo. La più importante d’italia è la Lardini. Dove i millimetri sono l’unità di misura del successo, marcano le stagioni, segnano le epoche, determinano stile e fatturati. La prima collezione Lardini è del 1993: «Ebbe successo grazie a un errore. L’avevamo chiamata Kashmere House. Solo che non avevamo grandi conoscenze tecniche sui tessuti come ora. Noi eravamo abituati solo a produrre giacche. Così lavandole si restrinsero tutte. Incredibile, piacquero per quello», ricorda il presidente Andrea Lardini. «Oggi fare industria è davvero impegnativo non solo perché è tutto molto più veloce, ma perché viviamo in mercati senza regole. Noi ci siamo inseriti in questo mondo nel 1978, quando i consumatori non erano così evoluti e all’improvviso si sono visti vecchi, con i loro vestiti fatti in serie, senza anima. E allora rimboccandoci le maniche, senza dover convincere nessuno ma con la pura forza del lavoro, ci siamo fatti spazio: prodotto, capacità di consegna, qualità; vieni qui, guardi cosa e come lo facciamo e ci scegli. Solo i brand che riescono a creare una produzione continuativa e fortemente identitaria possono contare su una base di consenso forte». Il vero business della Lardini oggi è la manifattura industrializzata, che compie 40 anni. «Ci finanziò nostro padre con 20 milioni di lire. Lui aveva fatto l’operaio e poi si era occupato di autotrasporti. Andrea studiava ingegneria, Luigi era il più ambizioso, aveva gran gusto ma lavorava in fabbrica, e io, che studiavo a Firenze, ero in dolce attesa», racconta Lorena Lardini, ancora oggi la mente contabile della famiglia. La quartogenita Annarita era solo una bimba, ma ora c’è anche lei, temibile responsabile del controllo qualità: «Uso solo i miei occhi, non mi fido di nient’altro. L’errore lo pesco così». «Eravamo un po’ incoscienti, ingenui, ma caparbi», racconta Luigi, responsabile dello stile. «Avevo fatto il falegname, l’idraulico e all’epoca stiravo pantaloni. C’era la rabbia della giovinezza, la voglia di fare qualcosa per emergere. La moda mi era sempre piaciuta, la sentivo mia, percepivo il cambiamento. E poi eravamo di Filottrano: che cosa potevamo inventarci?».
«SOLO I BRAND CHE RIESCONO A CREARE UNA PRODUZIONE CONTINUATIVA E FORTEMENTE IDENTITARIA POSSONO CONTARE SU UNA BASE DI CONSENSO FORTE»
Filottrano, incastonata sulle colline, equidistante tra Ancona e Macerata. Chi non fa il contadino lavora nell’indotto dell’abbigliamento: laboratori, sartorie, macchine da cucire a perdita d’occhio. Qui il re della moda fine anni Ottanta si chiamava Arnaldo Girombelli con la sua Genny. In zona almeno in 2.500 lavoravano per lui. Oggi c’è la Lardini, che di dipendenti ne ha 450. Il 60% del suo fatturato (il 2017 ha chiuso a 70 milioni di euro) è determinato dalla produzione per 36 brand internazionali del lusso tra cui: Gucci, Dolce & Gabbana, Burberry, Etro. Però grazie al fiuto di Luigi, Lardini è cresciuto. Ha affinato l’ufficio stile, sviluppato un potente su misura da 5.000 capi l’anno, si è espanso sui mercati internazionali dove esporta il 70% della produzione con una posizione di leader in Corea (due monomarca) e Giappone (boutique a Tokyo). Ha creato anche le proprie collezioni uomo nel 2001 e, da un paio d’anni, donna, con la direzione artistica di Genea Lardini (figlia di Luigi), è in partnership con il marchio di moda maschile Gabriele Pasini e ha la licenza Trussardi Elegance. Così si copre la restante quota del 40% di fatturato. Colonne di cemento sorreggono la collina e delimitano il piano interrato della fabbrica, che una volta era solo un capannone e ora, malgrado di metri quadri ne abbia 24mila, ne reclama altri. Sulla collina si appoggia Filottrano. E una fetta del paese si appoggia alla Lardini. Un ecosistema produttivo che crea un tessuto sociale, con un indotto da 1.400 lavoratori. «Siamo orgogliosi del nostro animo da provinciali», dice Lorena, «ci piace avere un rapporto franco con il territorio, ascoltare i problemi e, se possiamo, trovare una soluzione per proteggere e far crescere la nostra gente». È la cultura del fare e della protezione di quello che si è fatto. «Abbiamo vissuto epoche diverse», racconta Andrea. «All’inizio giravamo da Lucca a Pistoia, da Firenze ad Arezzo, con la mia Due Cavalli color sabbia, proponendo la nostra merce ai negozi. Ma era dura. Allora ci siamo messi a produrre per gli altri brand. E nel weekend vendevamo direttamente in fabbrica. Negli anni d’oro della moda facevamo anche 40 milioni in una giornata. Oggi è difficilissimo. Il segreto è riuscire a emozionare di continuo. Dirlo è facile, ma farlo è per pochi. Il consumatore si stufa troppo in fretta e questo si ripercuote sul valore della produzione. Il punto prezzo fa ancora la differenza. Per questo i mercati asiatici sono fondamentali: perché lì la cultura del fatto bene ha una grande importanza. E genera rispetto».
«I MERCATI ASIATICI SONO FONDAMENTALI, PERCHÉ LÌ LA CULTURA DEL FATTO BENE RIVESTE UNA GRANDE IMPORTANZA E GENERA RISPETTO»